Al fine di meglio intendere e comprendere le modifiche apportate in estate al mondo delle relazioni industriali italiane, necessita una breve introduzione sul punto in questione.
Il diritto sindacale italiano si è evoluto attraverso la mancata realizzazione del modello previsto dall’art. 39 della Costituzione, ove questo prevedeva un sistema sindacale formato da soggetti riconosciuti di diritto pubblico con la capacità di stipulare contratti collettivi efficaci erga omnes.
A seguito dell’astensionismo legislativo, formatasi pluridirezionalmente su regole sviluppatesi sulle lacune dell’assente applicazione del modello previsto dal costituente, si è venuta a creare una normazione dei rapporti sindacali costituente una c.d. Costituzione materiale.
La stessa rappresenta dunque legge fondamentale, formata in larga parte da giurisprudenza e accordi tra le parti sociali secondo i rapporti di forza ed il principio di effettività.
Tappa fondamentale di questo iter è stata la promulgazione nel 1970, a seguito dell’autunno caldo, dello Statuto dei Lavoratori, che si prefiggeva una promozione dei sindacati senza per questo direttamente regolarli. Ergo si può affermare che sempre è stato rispettato il volere delle forze sindacali di non essere direttamente regolate dalla legge, in opposizione alle ingerenze del regime fascista e al sistema corporativo precedente, prevedendo dunque sindacati non riconosciuti di diritto privato1[1].
Recentemente, il 28 giugno del 2011, era stato firmato, tra CONFINDUSTRIA e CGIL, CISL e UIL, un importante accordo interconfederale, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello, al fine di riunificare le forze sindacali suddette rinforzando dunque il sistema che si trovava in una situazione di crisi d’unitarietà. Proprio in questo ambito si è però inserito prepotentemente l’articolo 8 della Manovra di Ferragosto2[2], il quale è andato ad intervenire sia sui criteri di rappresentatività delle associazioni sindacali e sia sulla gerarchia delle fonti collettive3[3]. Lo stesso contravviene pesantemente la linea dell’astensionismo legislativo da anni instaurato, per tentare di risolvere i problemi che attanagliano il nostro diritto sindacale, intervenendo in modo rigido nella materia e risultando di difficile metabolizzazione da parte dei soggetti coinvolti, andando in senso contrario all’art. 39 Cost. e alla Costituzione materiale, rischiando quindi di lacerare le norme sulle relazioni dei contratti di lavoro e dei rapporti industriali.
Tanto premesso, tra le principali novità della L. 148/2011, spicca per importanza la disposizione in essa contenuta che favorisce la contrattazione collettiva di secondo livello, ossia la “contrattazione collettiva di prossimità”, comprendente una vasta ed eterogenea gamma di finalità. Con l’art. 8 della suindicata legge, il legislatore spinge l’acceleratore sulla contrattazione aziendale in quanto metodo che, proprio perché prossimo alle realtà aziendali, può gestire e affrontare specifiche e concrete situazioni. In merito a ciò va rilevato come il campo di azione di detto contratto sia decisamente ampio, andando altresì ad incidere su diritti individuali dei lavoratori sino ad oggi particolarmente tutelati dall’ordinamento italiano, connotato come è da una forte rigidità e protezione degli insider a scapito del outsider del mercato del lavoro, cui gioverebbe una maggior flessibilità dello stesso.
In base al disposto del suddetto articolo le intese sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario di rappresentanza sindacale producono, da oggi, ed in rottura col passato, un accordo valido per tutti i lavoratori di una determinata impresa a condizione che siano sottoscritte, in generale, dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali presenti in azienda. Vengono altresì fissate anche le finalità della contrattazione di prossimità, ossia una maggiore occupazione, la qualità dei contratti di lavoro, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali ed in ultimo gli investimenti4[4]. Sarà pertanto prevedibile che, qualora tale contratto venga applicato, il suo utilizzo troverà sede naturale nei periodi di gravi crisi aziendali, in cui la compressione di alcuni diritti individuali potrebbe essere giustificata dalla tutela di interessi collettivi rapportata ad un bisogno di flessibilità da parte delle imprese5[5]. L’accordo collettivo aziendale potrà dunque avere un contenuto di indubbia importanza nell’organizzazione e nella gestione del rapporto di lavoro all’interno delle singole aziende, ponendosi dunque come forza potenzialmente riformatrice del panorama sindacale italiano, visto che lo stesso articolo prevede che, pur tenendo fermo il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria e dalle convenzioni internazionali in materia di diritto del lavoro, queste specifiche intese collettive potranno operare anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie previste, nonché alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. Evidente e lampante è la rottura con la precedente normazione, ove si è qui previsto una deroga da parte del contratto aziendale sia al contratto collettivo nazionale che oltretutto alla legge stessa, fonti prima previste come superiori e inderogabili in peius6[6].
Per quanto riguarda poi i criteri di determinazione delle rappresentanze sindacali capaci di stipulare questi accordi, è prevista a tale proposito una delega del potere di sottoscrivere le intese collettive disciplinanti le materie in esame alle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Non solo, è stata estesa anche alle rappresentanze aziendali autorizzate alla stipulazione di questi accordi collettivi previste dall’accordo interconfederale del 28 giugno 20117[7]. Dunque le intese modificative della legge potranno essere stipulate unicamente da organizzazioni dotate di un elevato grado di rappresentatività, con conseguente efficacia erga omnes degli effetti dei nuovi contratti collettivi. Va precisato che quest’ultimo accordo stabilisce una soglia di sbarramento per i sindacati legittimati a negoziare e prevede altresì un effetto vincolante del contratto collettivo aziendale per la generalità dei dipendenti, laddove tale contratto venga approvato dalla maggioranza dei sindacalisti eletti in azienda all’interno della rappresentanza sindacale unitaria, ovvero, in presenza di rappresentanze sindacali aziendali, ove il contratto aziendale sia sottoscritto da sindacati che rappresentino la maggioranza dei lavoratori8[8].
Punto fondamentale è stata la previsione della possibilità di stipulare accordi in deroga alla legge anche per quanto concerne la cessazione del rapporto di lavoro, visto che il testo normativo riferisce espressamente di intese sindacali che abbiano ad oggetto le “conseguenze” del recesso dal rapporto stesso. Vi è in ogni caso una serie di ipotesi di cessazione del rapporto che certamente non potrà essere oggetto di contrattazione. Infatti sono previsti una serie di casi nei quali non si può applicare l’accordo aziendale in deroga alla disciplina di legge in materia di licenziamenti, ossia quello discriminatorio ed al licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, nonchè quello della lavoratrice madre, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore, ed infine il licenziamento in caso di adozione o affidamento.
Si rileva altresì che la norma, presenta una variegata serie di problemi interpretativi che potrebbero inficiarne l’effettiva utilizzabilità. Innanzitutto sono previsti per i contratti collettivi di prossimità “vincoli di scopo”. Detti accordi, infatti, devono essere finalizzati “alla maggiore occupazione” ed alla “crescita dell’occupazione”, che la norma, così formulata, pare ritenere condizioni essenziali per l’adozione dei suindicati patti. Dunque sarà ammissibile la stipula ex articolo 8 solo in ragione di incrementi di produttività ed occupazione9[9]. Il problema, partendo dalla complessa ampiezza e genericità delle espressioni adottate dal Legislatore, nasce laddove si pensi ai potenziali e futuri contenziosi promossi dai lavoratori che, licenziati sulla base della disciplina prevista dall’accordo aziendale, potrebbero chiedere giudizialmente l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto eccependo che il contratto aziendale non abbia prodotto un reale aumento dell’occupazione della produttività. Si tratterà in tal caso di una questione da gestire in sede giudiziale ma che presenta appunto notevoli problematiche. Un’ulteriore fonte di controversie potrebbe sorgere dal necessario rispetto dei vincoli comunitari espressamente previsto dal testo normativo. Il problema più immediato sarà dato dal lavoratore che, potendo adire il Giudice nazionale, invochi il rispetto del diritto comunitario, situazione in cui si riproporranno tutte le difficoltà di conoscibilità e corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia10[10].
Proseguendo poi sul contenuto dell’articolo 8, il comma terzo garantisce l’estensione generalizzata degli accordi collettivi sottoscritti ed approvati da referendum, come il caso Fiat di Mirafiori e Pomigliano, peculiarità per cui lo stesso comma è stato definito come “comma Fiat”. Questa disposizione oltretutto, ai fini dell’estensibilità erga omnes delle intese sottoscritte prima del 28 giugno 2011, valorizza solo il referendum e, su tale aspetto, si discosta dall’accordo interconfederale, nel quale la consultazione elettorale ha un valore solo eventuale ed eccezionale. Quindi con questo comma dovrebbero essere dunque regolate e risolte, in teoria, le problematiche inerenti l’efficacia generalizzata degli accordi Fiat approvati tramite referendum dei lavoratori, andando però a intervenire in un sistema complesso e già recentemente regolato, portando con sé problematiche vertenti su questo nuovo modello rinominato come c.d. modello Marchionne11[11].
Molteplici associazioni sindacali di diverse categorie, considerando le doglianze presenti nel testo della legge qui trattata, hanno ritenuto unitariamente di non dare applicazione in nessun caso a quanto previsto dall’art. 8 della Manovra del Governo. Questi accordi tra sindacati quindi, di natura prettamente politica, palesano l’ostilità del mondo sindacale ad una legislazione diretta da parte dello Stato, facendo prevedere possibili conflitti e dicotomie tra prassi applicativa e previsione legislativa.
Si può dunque concludere, allora, che, almeno per il momento l’efficacia della nuova disposizione è, dal punto di vista strettamente operativo e non giuridico, bloccata, anche se essa, potrebbe conservare possibilità di applicazione. Rimane essa potenzialmente capace di produrre conseguenze importanti sia sugli standards protettivi garantiti ai lavoratori dalla legge nonchè da contratti collettivi nazionali, e sia sul sistema di relazioni industriali. La situazione abbisogna di un intervento legislativo che possa risolvere e mitigare i contrasti di cui sopra, dove, in mancanza di ciò, si potrebbe arrivare, per casi estremi, ad un legge disapplicata in fatto dalle rappresentanze sindacali ma in altri casi applicata direttamente ai lavoratori tramite referendum dai datori di lavoro, portando una maggior conflittualità. Probabilmente la scelta più opportuna sarebbe, da parte del legislatore, fare un passo indietro, lasciando la regolazione del settore delle relazione sindacali ai soggetti ad esso appartenenti, come avveniva in precedenza. Questo anche in forza alla volontà palesata dalla sigle sindacali confederali di risolvere unitariamente i problemi creati dalla rotture reciproca dei loro rapporti, avvenuta nel 2009, tramite la sottoscrizione del già citato accordo del 28 giugno 2011. Quindi un intervento legislativo, quello dei Ferragosto, di cui alla luce di quanto detto non vi era necessità e che si sovrappone agli accordi precedentemente firmati comportando problematiche e incertezza nei rapporti di settore, le cui conseguenze si paleseranno solo col tempo rendendo ora di difficile pronosticazione la sua evoluzione e applicabilità.
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