L’incertezza del diritto: decisioni opposte ed errate del Tribunale civile di Bologna in tema di calunnia (Trib. Bologna, n. 3591/2011, n. 3477/2011, n. 19/2012 )

Moroni Andrea 07/02/12

Responsabilità civile (Trib. Bologna, n. 3591/2011)

 

Responsabilità civile (Trib. Bologna, n. 3477/2011)

 

Responsabilità civile (Trib. Bologna, n. 19/2012)

 

1- Il contesto storico-processuale

Le tre sentenze che possono essere lette in allegato, emesse da due diversi Giudici del Tribunale civile di Bologna, appartenenti alla medesima sezione, si contraddistinguono, da un lato, per le opposte conclusioni a cui pervengono in merito ad un’unica vicenda storica e, dall’altro, per l’erroneità delle argomentazioni a tal fine utilizzate. 

Sotto il primo profilo evidenziato, la vicenda decisa dalle sentenze sopra riportate si riferisce alla prospettata ipotesi di calunnia che (nell’ottica attorea) sarebbe stata perpetrata attraverso la proposizione di una unica denuncia, in cui venivano, da parte del denunciante – Tizio – rivolti addebiti costituenti reato a diverse persone, tra cui i quattro soggetti – Caio, Mevio, Sempronio e Filano – che proponevano separate azione civile innanzi al Tribunale di Bologna.

In particolare, la denuncia proposta da Tizio veniva archiviata dalla competente Autorità penale e successivamente, come detto, i quattro denunciati proponevano separatamente azioni di responsabilità civile.

L’incomprensibile decisione del Giudice Istruttore di non disporre la riunione dei procedimenti, nonostante una conclamata perfetta sovrapponibilità delle vicende (stessa denunciante, stessa denuncia, stessi titoli di reato invocati in relazione agli stessi fatti) portava alla aberrante conclusione processuale che vedeva la denunciante-convenuta essere condannata per calunnia al (maxi) risarcimento del danno in due sentenze (n. 3477/11 – attore Caio e n. 19/12 – attore Mevio) emesse dal medesimo Giudice e ritenuta non responsabile da un’altra decisione (n. 3591/11 – attori Sempronio e Filano) emessa da un diverso Giudice.

Sotto il secondo profilo prima evidenziato, vi è da dire che tutte e tre le decisioni si caratterizzano per l’erroneità delle argomentazioni utilizzate.

Tutte e tre le occasioni decisorie in commento, infatti, evidenziano un’assoluta non comprensione degli elementi costitutivi del reato di calunnia e un’errata applicazione delle regole di accertamento probatorio del titolo di responsabilità in esame che governano la materia processual-civilistica nell’ambito del paradigma normativo di cui agli artt. 2043 c.c. e 386 c.p.

Peraltro, alle errate argomentazioni presenti in tutte le sentenze, in quelle di condanna si aggiunge l’aberrante quantificazione del danno da reato, in cui in sostanza viene fatto ricadere sul soggetto condannato le negative conseguenze delle lungaggini che notoriamente contraddistinguono il processo civile (il danno da reato, per definizione transeunte, viene determinato in € 3.000,00 in ragione di ogni anno in cui si è protratto il procedimento civile!).

 

2- Il reato di calunnia e l’accertamento in sede civile

Nell’intento di apportare un contributo di razionalità nella vicenda giudicata nelle tre separate occasioni processuali, appare necessario premettere una succinta analisi degli elementi costitutivi della fattispecie di calunnia e delle relative regole di accertamento probatorio in sede civile.  

A fronte di una denuncia presentata alla competente Autorità per stimolare l’esercizio dei poteri a questa attribuiti dalla legge, l’illiceità di una condotta umana dipende dalla qualificazione della stessa in termini di calunnia, secondo il paradigma normativo di cui all’art. 368 c.p., non potendo a tal fine rilevare diversi titoli di responsabilità (Trib. L’Aquila, 08/02/2010; Cass. Civ. 20.10.2003 n. 15646; Cass. Civ. n. 3536/00).

Precisato quanto sopra, si converrà nel ritenere che sul piano materiale, il reato di calunnia consiste nell’aver l’agente falsamente attribuito a taluno la commissione di un reato, attraverso la presentazione di un atto idoneo ad istaurare un procedimento penale a carico dell’incolpato.

Sul piano soggettivo, l’integrazione del reato di calunnia richiede, accanto all’intenzionalità dell’attribuzione a taluno della commissione di un reato, la piena conoscenza dell’incolpevolezza di costui.

Ai fini che interessano maggiormente, dunque, per aversi calunnia e quindi condotta illecita ex art. 2043 c.c., occorre dimostrare che l’agente abbia incolpato di un reato un innocente e che egli, al momento della condotta, avesse saputo che l’incolpato era innocente.

Elementi, entrambi, il cui relativo onere probatorio incombe sull’attore che agisce in giudizio per la condanna al risarcimento del danno a carico dell’originario denunciate, sia con riferimento alla sua innocenza in ordine ai reati attribuitigli, sia con riguardo alla consapevolezza del denunciante dell’innocenza dell’incolpato al momento della proposizione della denuncia penale.

Ai fini probatori in esame, peraltro, come sapientemente evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, sotto il profilo soggettivo, non rileva, di per sé sola, l’eventuale assoluzione dell’incolpato, dovendo pur sempre l’attore, secondo la regola cristallizzata nell’art. 2697 c.c., dare prova degli elementi costitutivi del fatto illecito (Cass. civ., Sez. III, 25-05-2004, n. 10033).

 

3 – L’attività istruttoria in corso di giudizio

In tutti e tre i casi in esame, gli attori offrono in giudizio esclusivamente la denuncia presentata a suo tempo da Tizio e l’archiviazione emessa dalla competente Autorità penale nei loro confronti.

In corso di procedimento, in tutti e tre i casi esaminati, l’unica attività istruttoria compiuta è stato l’interrogatorio formale di Tizio, volto a sindacare la sussistenza dell’elemento soggettivo, ossia la piena consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato. Dolo tipico di calunnia che veniva decisamente escluso all’esito dell’interrogatorio formale, in cui Tizio ribadiva la piena convinzione che Caio, Mevio Sempronio e Filano avevano commesso i fatti che egli aveva denunciato.

 

4 – Le (errate) argomentazioni utilizzate in sentenze

In un simile contesto probatorio, in virtù delle regole di diritto sopra enunciate, la conclusione, in tutte e tre le occasioni decisorie in commento, sarebbe dovuta essere la seguente: rigetto della domanda attorea per mancata prova degli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) della fattispecie di calunnia invocata, il cui onere incombeva su parte attrice.

Diversamente ed erroneamente le sentenze di condanna (n. 3477/11 e 19/12), come è agevole desumere dalla parte motiva delle stesse, affermano che sul piano materiale, ossia l’innocenza dell’incolpato in ordine ai fatti di reato addebitategli, la relativa prova è fornita dall’archiviazione emessa dall’Autorità penale, senza compiere alcuna ulteriore considerazione.

Ma, come a tutti coloro che masticano di un po’ di diritto processual-penalistico è noto, il decreto o ordinanza di archiviazione non è provvedimento idoneo al passaggio in giudicato, in quanto revocabile; sicché il relativo contenuto decisorio non è idoneo a fare stato in sede civile.

Quindi, l’accertamento dell’illiceità della condotta di Tizio contenuto nella sentenza di primo grado dipende da un provvedimento del giudice penale che non contiene un giudizio definitivo sul punto; ciò che crea un evidente vulnus nella sentenza che giudica Tizio responsabile ex art. 2043 c.c.

Caio e Sempronio, invece, stante il carattere non definitivo del provvedimento di archiviazione, avrebbero dovuto offrire in giudizio mezzi istruttori volti a significare l’estraneità dei medesimi dalle accuse che Tizio rivolgeva loro, essendo l’innocenza dell’incolpato elemento costitutivo del reato in questione, di cui quindi deve esserne data prova, non potendosi altrimenti discorrere di condotta calunniosa e, quindi, illecita.

Ma come detto, nessuno di questo tipo di accertamento si è verificato nel corso del giudizio di primo grado.

L’erroneità che caratterizzano le sentenze di condanna non si fermano però qui, interessando anche il profilo dell’elemento soggettivo.

Relativamente a quest’aspetto, le sentenze, in sostanza, stravolgono il riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. che in materia de qua, ossia nell’ambito del paradigma normativo di cui agli artt. 2043 c.c. e 368 c.p., si traduce nell’onere in capo all’attore di provare il dolo tipico di calunnia, ossia la piena consapevolezza da parte del denunciante dell’innocenza dell’incolpato.

Si afferma, infatti. che Tizio, convenuto, non portando in giudizio o offrendo elementi probatori di valutazione volti a significare che il suo convincimento si basava su circostanze serie e concrete da cui desumere la convinzione della colpevolezza degli incolpati per i fatti di reato ad essi addebitati, ha palesato la cosciente alterazione della verità sostanziale dei fatti esposti.

Ecco allora lo stravolgimento della regola relativa al riparto dell’onere probatorio.

Come in ogni altra ipotesi in cui si discorre di responsabilità aquiliana, il danneggiato deve provare l’elemento soggettivo dell’illecito; con la conseguenza che, in ipotesi in cui difetti detta prova, la decisione obbligata è il rigetto della domanda attore, non potendosi certo far ricadere il difetto istruttorio sul convenuto. Peraltro, si ricordi, che l’unico momento istruttorio volto a sindacare la sussistenza del dolo tipico di calunnia, ossia l’interrogatorio formale di Tizio, deponeva in senso diametralmente opposto rispetto alla decisione poi assunta dal Giudice di primo grado.

Quanto invece alla sentenza che rigetta la domanda attorea, anch’essa si rivela, al pari delle altre due appena commentate, foriera di perplessità in ordine alle (scarne) argomentazioni utilizzate in parte motiva.

Pur pervenendo ad una giusta decisione, il rigetto della domanda attorea viene giustificato dal fatto che dalla lettura della denuncia si apprezza la convinzione di Tizio in ordine alla colpevolezza di Sempronio e Filano per i fatti denunciati.

Senza alcuna produzione probatoria sul punto, non è dato ad un Giudice civile, dalla mera lettura della denuncia, sindacare la sussistenza o meno del dolo tipico di calunnia, posto che diversamente non si avrebbe mai calunnia, non potendosi revocare in dubbio la veridicità dei fatti esposti in una denuncia, senza approfondire il contesto storico su cui essa si fonda.

Ancora una volta, quindi, la decisione di rigetto sarebbe dovuta essere motivata esclusivamente in ragione dell’assoluta carenza di mezzi probatori attraverso i quali accertare la ricorrenza dell’elemento oggettivo e soggettivo dell’ipotesi disciplinata dagli artt. 2043 c.c. e 368 c.p., il cui onere probatorio, stante la regola contenuta nell’art. 2697 c.c., incombeva su Caio, Mevio, Sempronio e Filano che avevano convenuto in giudizio Tizio.

 

5 – Considerazioni conclusive

Al di là dei numerosi rilevi che è possibile muovere in punto di diritto a tutte e tre le decisioni in commento, lo sconforto maggiore, tanto per l’operatore del diritto, quanto, e a maggior ragione, per il privato cittadino, è dato dall’assoluta incertezza nell’applicazione del diritto che il Tribunale di Bologna ha palesato nella vicenda che occupa.

Certo si dirà che nel diritto nulla è certo; ma nella vicenda riportata ci si scontra con un assoluto senso di smarrimento, se sol si pone mente che per lo stesso fatto il convenuto-Tizio è stato condannato al risarcimento di più di € 25.000,00 in due sentenze, mentre non è stato ritenuto responsabile di calunnia in relazione ad un’altra sentenza.

Certo che se a suo tempo fosse stata disposta la riunione dei procedimenti, tutto ciò si sarebbe evitato!

Moroni Andrea

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