Il concorso eventuale in generale
Si ha concorso di persone nel reato quando un soggetto si avvale, per proiettare la propria volontà criminosa nel mondo esterno, di una realizzazione comune alla condotta di un altro o più soggetti.
Ciò indubbiamente comporta una cooperazione fra i soggetti, la quale può essere più o meno consapevole.
Nel caso in cui si tratti di collaborazione consapevole è necessario distinguere se essa ha carattere occasionale, la quale, essendo limitata alla realizzazione di un singolo reato viene a costituire il c.d. concorso di persone (o partecipazione criminosa), ovvero il c.d. “vincolo stabile” tra più soggetti, il quale include un “programma criminoso” riferito ad un insieme indeterminato di fatti delittuosi, fondamento della partecipazione ad una associazione per delinquere, sia essa semplice ovvero di tipo mafioso.
Si ritiene che il concorso di persone nel reato consta, secondo l’approccio tradizionale, di quattro elementi costitutivi: la pluralità di persone, la realizzazione di un fatto di reato (tentato o consumato), il contributo causale della condotta alla realizzazione del fatto tipico, la consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto.
Tralasciando il primo requisito, nel trattare del delitto associativo, il quale è scontato in quanto siamo in presenza di un reato a concorso necessario, possiamo passare direttamente al secondo elemento, cioè alla realizzazione, dal quale deriva che il fatto di reato, descritto da una norma incriminatrice di parte speciale, deve essere realizzato. Infatti prima che sia integrato, il comportamento atipico è penalmente irrilevante.
Tale requisito è imposto dall’art. 115 c.p. il quale sancisce la non punibilità dell’accordo nell’ipotesi che il reato non sia stato commesso.
Con riferimento al terzo requisito, cioè al contributo causale, si ritiene, sempre secondo l’impostazione tradizionale, che non vi può essere concorso di persone se la condotta atipica non ha esercitato un’influenza causale sul fatto concreto tipico realizzato da altri: in assenza di questo collegamento causale, la condotta tipica non reca infatti nessun contributo all’offesa al bene giuridico immanente al fatto principale.
Con riguardo all’ultimo elemento, il quale riguarda il profilo soggettivo, bisogna distinguere, da un lato, la coscienza e volontà del fatto criminoso, il quale, quanto a contenuto, in nulla differisce dal dolo del reato monosoggettivo; e, dall’altro lato, un quid pluris rappresentato dalla volontà di concorrere con altri alla realizzazione di un fatto comune.
Ma la rilevanza del contributo non può essere definita in generale “causale”, almeno secondo la nozione di causalità sostenuta ed accreditata presso i giuristi.
Nell’analisi della condotta collettiva, infatti, il metodo funzionale e la teoria dei sistemi permettono di analizzare e cogliere in tutti i suoi aspetti la natura complessa del fenomeno in quanto, dal punto di vista funzionalistico, è possibile inglobare all’interno del concorso eventuale i contributi atipici che altrimenti, in base ad un’analisi causale, non potrebbero essere puniti perché estranei alla condotta partecipativa.
Nei reati strutturati in forma monosoggettiva si può parlare di concorso di persone quando, insieme con il c.d. attore, sia presente anche un altro soggetto, il quale assume in questo modo la veste di partecipe.
Nei reati necessariamente plurisoggettivi o a concorso necessario è necessaria la presenza di almeno un altro soggetto in aggiunta a quelli la cui condotta è già richiesta dalla struttura della norma incriminatrice di parte speciale.
La questione relativa alla configurabilità del concorso esterno nei reati associativi forma attualmente oggetto di un ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale, nel quale assumono preminente rilievo due esigenze: da un lato, quella di applicare la sanzione penale esclusivamente in presenza di una adeguata giustificazione sostanziale e comunque nel rispetto dei principi di tassatività e necessaria determinatezza della fattispecie; dall’altro, quella di non lasciare impunite pericolose condotte di sostegno per l’organizzazione criminale, poste in essere da persone che non fanno parte della struttura associativa.
L’applicazione della norma di parte generale sul concorso (ex art. 110 c.p.) svolge, infatti, una autonoma funzione incriminatrice rispetto a condotte di per sé prive dei connotati della partecipazione e quindi atipiche, le quali vengono ad acquistare rilevanza penale in quanto strumentalmente connesse al funzionamento dell’organizzazione criminale.
Il problema della configurabilità e della portata applicativa del concorso esterno si pone in relazione ad ogni figura di reato associativo, e trova il suo presupposto nel verificarsi di fenomeni di infiltrazione e radicamento delle organizzazioni criminose in più vasti contesti sociali.
La nozione di partecipazione al sodalizio criminale
La nozione di partecipazione evoca la caratteristica di stabilità della relazione personale di carattere funzionale all’organizzazione (Aleo). Relazione tale da giustificare un reciproco “affidamento”, dell’associazione nei confronti del singolo e viceversa, con riferimento alle reciproche prestazioni.
Secondo l’indicazione che deriva dalla lettera della legge, è partecipe chi “fa parte” dell’associazione. Non basta pertanto la semplice adesione al programma o l’approvazione dell’operato del sodalizio criminoso, ma per essere considerato associato è necessario che la stessa, attraverso i suoi organi, accetti il soggetto come membro o comunque gli riconosca di fatto tale qualità.
Le condotte di partecipazione sono caratterizzate sul piano dell’elemento soggettivo dall’affectio societatis, la quale comporta la coscienza del soggetto agente e la volontà di far parte del sodalizio criminoso, condividendone le sorti e gli scopi.
Deve intendersi per condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori – almeno in numero di tre – del reato allo scopo di realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell’associazione, mentre l’elemento soggettivo è rappresentato dal dolo specifico caratterizzato dalla cosciente volontà di partecipare a detta associazione con il fine di realizzarne il particolare programma e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del comune programma delinquenziale con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa.
La figura della partecipazione all’associazione di tipo mafioso è a forma libera, perché il legislatore non descrive in modo particolare la condotta tipica, enunciandone le note che valgono a caratterizzarla, ma si limita ad affermare che commette il reato “chiunque ne fa parte”. Ne deriva che la condotta di partecipazione, che può assumere forme e contenuto variabili, consiste, sul piano oggettivo, nel contributo offerto all’organizzazione, qualunque sia il ruolo che l’agente svolga nell’ambito associativo.
Non è affatto necessario che il contributo alla vita dell’ente debba risolversi in una attività materiale; la partecipazione può ben esaurirsi in una condotta che si limiti a rafforzare l’elemento personale dell’ente criminale.
La soglia minima di contributo partecipativo, in termini di mera disponibilità, è assai difficile da provare processualmente di per sè sola, salvo che in due casi: il giuramento di mafia e la confessione.
Nel primo caso il soggetto, con un atto rivestito di una certa solennità e fornito di una forte valenza di impegno – si pensi alla solennità del giuramento di Cosa Nostra –, si è dichiarato disponibile per qualsiasi evenienza a favore dell’ente associativo mafioso, fornendo un contributo alla vita dell’ente tale da ampliarne le potenzialità operative e da costituire di per sé condotta di partecipazione (Essa costituisce una forma di disponibilità conclamata, una forma di contributo partecipativo ipotizzabile, a meno che, nel caso concreto, non emergano circostanze ulteriori tali da contrastare obiettivamente con una reale volontà del soggetto di contribuire alla vita dell’ente).
Il secondo caso si verifica quando un soggetto confessi di essere membro del sodalizio mafioso e di avere messo a disposizione del medesimo le proprie energie, pur non avendo avuto ancora occasione di svolgere ancora alcuna mansione.
Ma, al di là di queste due ipotesi, l’affectio societatis sarà per lo più dimostrabile non già in base a circostanze direttamente e astrattamente indicative di una volontà di affiliazione, ma perfacta concludentia.
Tuttavia il contributo personale alla dimensione organizzativa può essere diverso, purché abbia, tuttavia, la connotazione della funzionalità, cioè della stabilità, ovvero permanenza degli effetti sulla dimensione organizzativa medesima, considerata in generale e realizzata attraverso il complesso dei comportamenti dei componenti della struttura organizzativa; nonché, dal punto di vista penalistico, la componente della relativa coscienza e volontà. È il caso del concorso eventuale.
Le condotte soggettive qualificate: promotori, capi ed organizzatori
L’art. 416 bis c.p. differenzia la posizione di chi “fa parte” di un’associazione di tipo mafioso nel primo comma, da quella di coloro che “promuovono, dirigono od organizzano” l’associazione stessa, nel secondo comma.
L’art. 416 bis c.p. non pone l’accento sul momento iniziale dell’associarsi, bensì sul fatto di essere inseriti (con o senza una posizione di preminenza) in un’istituzione criminosa, che viene colta nel suo concreto operare e nello svolgersi della sua esistenza.
Si tratta di una differenza non meramente formale, che trova un riscontro assai significativo nel secondo comma dell’articolo stesso, il quale non prevede, come nel caso di associazione per delinquere (ex art. 416 c.p.), la figura del “costitutore” dell’associazione di tipo mafioso.
Da ciò una parte della dottrina (Spagnolo) ha desunto che il legislatore abbia inteso sottolineare come la costituzione dell’associazione non sia sufficiente ad integrare il reato, non potendo il vincolo associativo essere dotato ab origine di una intrinseca capacità intimidatrice.
Altra dottrina (Bertoni), invece, ha sostenuto che nella nuova fattispecie la previsione della condotta di “promozione” dell’associazione includerebbe anche il fatto di coloro che costituiscono l’associazione, essendo l’ipotesi una conseguenza necessaria del fatto di promuoverla. Di qui la superfluità di una previsione ad hoc per la condotta di costituzione.
Le ipotesi di promozione, organizzazione e direzione dell’associazione contrassegnano altrettante forme qualificate di associazione. La considerazione di queste ipotesi come singole, autonome figure delittuose contraddirebbe, in linea di principio, la dimensione plurisoggettiva, a concorso necessario, delle previsioni associative, in concreto la funzione di unificazione, di sintesi delle stesse, di determinazione di responsabilità personale per il contributo all’esistenza ed all’attività di un’associazione criminosa considerata in generale. Si deve dunque considerare la previsione associativa come unica figura delittuosa plurisoggettiva con sanzioni distinte a seconda del ruolo personale nella struttura dell’associazione.
Mentre ai semplici partecipanti è richiesto un contributo minimo e non insignificante alla vita dell’ente, per le condotte punibili di promotori, dirigenti ed organizzatori è richiesto un contributo “qualificato”.
Per la maggior parte della dottrina per promozione si intende quella semplice attività di chi stabilisce il programma, raccoglie intorno ad esso le prime adesioni, prepara, in altri termini, la costituzione dell’associazione.
Seguendo tale tipo di ragionamento appare imprecisa sia la definizione data da quella parte di dottrina, la quale afferma che è promotore di un’associazione “chi se ne fa iniziatore enunciandone il programma”, sia la definizione generica data da epoca remota dalla giurisprudenza, secondo la quale “promotore è colui che spiega un’attività caratterizzata dalla preminenza” e che svolge quindi “un ruolo di supremazia e direzione”.
Se a livello teorico l’organizzatore ha necessariamente anche una posizione dirigenziale, almeno di livello intermedio, i capi hanno necessariamente funzioni organizzative e di coordinamento, mentre chi promuove un’associazione non può al tempo stesso avere un ruolo in qualche misura dirigenziale ed organizzativo, nella realtà dei fatti questi problemi di definizione hanno un’incidenza assai limitata in quanto l’attribuzione di una posizione individuale all’una o all’altra categoria non modifica la gravità della pena, purché rimanga ferma la fondamentale discriminante tra la semplice partecipazione da una parte e la partecipazione qualificata da un ruolo di significativa preminenza dall’altra.
Intorno alla figura del promotore ci si interroga se tale fattispecie non integri eventualmente un reato di pericolo a consumazione anticipata, sì da essere addebitabile anche a chi abbia svolto attività di promozione senza riuscire a far acquisire al sodalizio quella potenzialità intimidatrice atta a renderlo “mafioso”.
A tale interrogativo parte della dottrina (Spagnolo) risponde affermativamente, ritenendo che la formulazione dell’art. 416 bis c.p. sia tale da non richiedere espressamente, per la punibilità dei promotori, la già avvenuta costituzione dell’associazione.
Un’altra parte della dottrina (Turone), invece, ritenendo, da un lato, presente nella lettera della legge l’effettiva costituzione dell’associazione e sostenendo, dall’altro lato, che l’attività del “promotore mancato” sia destinata a mantenere contorni giuridicamente indefinibili per ragioni analoghe a quelle che rendono non configurabile il tentativo di associazione di tipo mafioso, tende a collocarsi in maniera opposta alla precedente.
A differenza dei promotori, le figure degli organizzatori e dei capi hanno rilievo con riferimento alle mafie storiche.
La condotta di organizzazione richiede che si esercitino effettivamente ed in maniera durevole poteri decisionali relativi alla predisposizione di un idoneo apparato di persone e di mezzi e/o si stabiliscano regole dell’attività associativa che ne abbiano effettivamente aumentato l’efficienza.
Ciò presuppone necessariamente la partecipazione.
Si tratta di un contributo che deve essere propriamente diretto e qualitativamente idoneo a produrre stabilità attraverso strategie complessive rivolte ad assicurare l’efficienza, la persistenza e lo sviluppo dell’associazione.
I capi o i dirigenti dell’associazione sono, invece, coloro che, partecipando all’associazione, esercitano continuamente funzioni di direzione ed in generale poteri autoritativi, diversi dalla mera gestione organizzativa, sull’intera associazione o su una parte di essa, purché quest’ultima sia di per sé autosufficiente in termini di identità lesiva.
Concorso eventuale e partecipazione: la sentenza Demitry
Sorge a questo punto una domanda: può rispondere per concorso eventuale chi non fa parte di una associazione di tipo mafioso ma comunque presta la sua attività per la realizzazione di uno o più reati, fornendo un contributo alla vita dell’ente, o è punibile solo chi è legato all’organizzazione da rapporti di stabilità?
La questione, in altre parole, concerne la configuarbilità o meno del concorso esterno nel delitto associativo.
Essa riguarda soprattutto il concorso materiale.
Il concorso morale è, invece, generalmente ammesso senza difficoltà dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento all’associazione di tipo mafioso. Illuminante a tal proposito è l’esempio classico del padre, ex capomafia, che istiga il figlio ad entrare nell’organizzazione criminosa.
Già a partire dal 1969 vi era stata una pronuncia giurisprudenziale con riferimento al reato associativo previsto dall’art. 305 c.p. (cospirazione politica mediante associazione), la quale individuava nell’ingresso nell’associazione l’elemento discretivo tra la partecipazione ed il concorso esterno tramite l’adozione della coppia concettuale stabilità – occasionalità. Si tratta della sentenza Muther, nella quale si afferma che “l’appartenente alla associazione prevista dall’art. 305 c.p. è l’accolito del sodalizio, cioè colui che, conoscendone l’esistenza e gli scopi, vi aderisce e ne diviene con carattere di stabilità membro e parte attiva, rimanendo sempre al corrente dell’interna organizzazione, dei particolari e concreti progetti, del numero dei consoci, delle azioni effettivamente attuate o da attuarsi, sottoponendosi alla disciplina delle gerarchie ed al succedersi dei ruoli. La figura del concorrente, invece, è individuabile nell’attività di chi – pur non essendo membro del sodalizio, cioè non aderendo ad esso nella piena accettazione dell’organizzazione, dei mezzi e dei fini – contribuisce all’associazione mercé un apprezzabile e fattivo apporto personale, agevolandone l’affermarsi e facilitandone l’operare, conoscendone la esistenza e le finalità, ed avendo coscienza del nesso causale del suo contributo”.
Nella successiva esperienza giurisprudenziale, il concorso esterno nel reato associativo ha trovato significative applicazioni in alcuni processi per il delitto di cui all’art. 306 c.p. (banda armata) relativi ad organizzazioni terroristiche di matrice politica.
In questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto che le norme sul concorso eventuale di persone nel reato possono trovare applicazione rispetto al reato di partecipazione a banda armata, ed ha specificato che commette il delitto di concorso in banda armata, e non già quello di favoreggiamento, il difensore che svolge il ruolo di tramite fra i terroristi detenuti e quelli liberi, al fine di comunicare notizie utili all’esistenza della banda in quanto tale.
Ma tali impostazioni, le quali distinguono la partecipazione dal concorso eventuale, non sono state condivise, con specifico riferimento all’ipotesi dell’associazione di tipo mafioso, da alcune pronunzie della Suprema Corte, le quali hanno definito la condotta partecipativa sulla base del paradigma del contributo dato all’illecito sodalizio.
Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 si può notare che se, da un canto, non accenna a tramontare quella giurisprudenza la quale, più in generale, per ritenere integrato il reato associativo si limita a richiedere l’affectio societatis scelerum, ossia un vincolo associativo e un programma indefinito di delitti, senza la necessità che venga accertata una vera e propria organizzazione con gerarchie interne e distribuzione specifica di cariche criminose, e tenendo comunque in conto che la prova di simili società, mancando ovviamente un atto costitutivo, può e deve essere desunta per facta concludentia; dall’altro canto, individuata come soglia minima di punibilità la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del comune programma delinquenziale, la Cassazione insiste nel richiedere per la configurabilità della partecipazione la volontà di par parte di essa recando così un contributo concreto al raggiungimento del programma associativo.
Si tratta di requisiti a carattere psicologico i quali portano alla deduzione della partecipazione a partire dal coinvolgimento di un soggetto nei reati fine del sodalizio.
Soltanto nel 1985 la Cassazione affronta specificamente il problema della definizione della condotta di partecipazione associativa in modo nuovo rispetto al passato, sottolineando il nucleo strutturale indispensabile per integrare la condotta punibile di tutti i reati di associazione, il quale non si riduce in un semplice accordo di volontà ma richiede un quid pluris che con esso deve saldarsi e che consiste, nel momento della costituzione dell’associazione, nella predisposizione di mezzi concretamente finalizzati alla commissione di delitti e, successivamente, da quel minimo di contributo effettivo richiesto dalla norma incriminatrice ed apportato dal singolo per la realizzazione degli scopi dell’associazione.
Muovendo dal presupposto che la rilevanza penale di una condotta di partecipazione interna al reato associativo implichi necessariamente l’acquisizione del ruolo precostituito e formale di «associato», possono aprirsi vuoti di tutela in tutti i casi nei quali il soggetto che attua comportamenti vantaggiosi per l’associazione non sia estraneo ad essa: per colmare questi vuoti di tutela penale non rimane, di conseguenza, che ipotizzare un concorso eventuale esterno, ex art. 110 c.p., nel reato associativo.
A metà degli anni Novanta le Sezioni Unite della Cassazione erano intervenute per risolvere il contrasto interpretativo creatosi sulla questione della configurabilità o meno del concorso eventuale nel delitto di associazione di stampo mafioso: è la sentenza Demitry.
“È configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso per quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano – sia pure mediante un solo intervento – un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche limitatamente ad un determinato settore, onde poter perseguire i propri scopi (Nella specie, è stato ritenuto configurabile il concorso esterno rispetto alla condotta di un soggetto che ha svolto una attività di intermediazione tra un capo camorrista e un magistrato per influire sull’esito di un processo penale a carico del primo).
Il concorso esterno così fa il suo ingresso nel nostro ordinamento pienamente legittimato dalle Sezioni Unite sia nella forma del concorso morale che materiale.
Nel pronunciarsi in senso positivo, le Sezioni Unite avevano sottolineato la diversità di ruolo tra il partecipe all’associazione e il concorrente eventuale materiale: il primo è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza; è, insomma, colui che agisce nella “fisiologia”, nella vita corrente quotidiana dell’associazione, mentre il secondo è, per definizione, colui che non vuol far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a far parte, ma al quale si rivolge sia per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo, sia, soprattutto, nel momento in cui la fisiologia dell’associazione entra in fibrillazione, attraversando una fase patologica che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un soggetto esterno.
Secondo tale impostazione, l’affermazione giurisprudenziale in base alla quale la partecipazione esterna, che, ai sensi dell’art. 110 c.p., renderebbe responsabile colui che abbia prestato al sodalizio un proprio ed adeguato contributo con la consapevole volontà di operare perché lo stesso realizzasse i suoi scopi, si risolve in realtà nel fatto tipico della partecipazione, andrebbe letta come una forzatura della tipicità della condotta di partecipazione all’associazione, frutto di contingenti istanze di politica criminale.
La condotta tipica consiste nel far parte dell’associazione, il che comporta che una condotta, per essere considerata aderente al tipo previsto dall’art. 416 bis c.p., deve rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale tale da potersi sostenere che egli faccia parte di esso, vi sia stabilmente incardinato, con determinati, continui, compiti, anche per settori di competenza.
Ora, se un soggetto avvantaggia l’associazione non realizzando una condotta avente queste caratteristiche, vuol dire che non è parte di essa, ma si limita a porre a disposizione di altri il proprio contributo il quale, proprio perché per definizione non è caratterizzato dalla stabilità, non può essere circoscritto nel tempo e che, comunque, deve consentire agli altri di continuare a dar vita alla condotta tipica, alla stabile permanenza del vincolo. Ne consegue che tale contributo atipico non è sovrapponibile alla condotta tipica del partecipe.
La sovrapponibilità tra partecipazione e concorso esterno nell’associazione non regge, secondo le Sezioni Unite, neanche riguardando la questione sotto il profilo soggettivo, del contegno psicologico occorrente per la punibilità a titolo associativo.
Dal punto di vista psicologico, infatti, il dolo specifico di chi fa parte di una organizzazione criminale e quello di chi da un contributo ad essa in qualità di concorrente esterno è diverso: il partecipe si muove con la volontà di entrare a far parte dell’organizzazione, di contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa, il concorrente esterno no; egli presterà il suo contributo, ma con la consapevolezza di “essere fuori” dall’associazione.
Inoltre i giudici delle Sezioni Unite hanno considerato la possibilità del dolo generico nei reati a dolo specifico, configurando l’ipotesi in cui il concorrente eventuale, pur cosciente del contributo offerto alla organizzazione, possa tuttavia disinteressarsi della strategia complessiva utilizzata da quest’ultima e dai fini perseguiti dalla stessa.
Se da un lato le Sezioni Unite hanno per la prima volta ammesso la configurabilità del concorso materiale ex art. 110 c.p., dall’altro lato lo hanno fatto secondo uno spazio assai ristretto: lo spazio, appunto, della “patologia”, dell’emergenza nella vita dell’associazione, non lo spazio della “normalità”, occupabile da uno degli associati.
La sentenza Villecco
A riaprire le ostilità riguardanti il concorso eventuale interviene nel 2001 la VI Sezione della Suprema Corte con la Sentenza Villecco.
Essa sottopone a vaglio critico l’intero apparato argomentativo nonché le conclusioni della sentenza Demitry del 5 ottobre 1994, in tal modo preparando il terreno per una nuova remissione della questione alle Sezioni Unite le quali, il 30 ottobre 2002, pur in assenza di un vero e proprio contrasto giurisprudenziale, si pronunceranno nel processo Carnevale in senso ancora una volta favorevole all’ammissibilità del concorso esterno.
La sentenza Villecco presenta una particolare anomalia, non attribuibile alla VI Sezione. Infatti, tranne che nel Foro Italiano, la decisione è stata massimizzata nelle altre riviste specializzate in termini non corrispondenti al principio di diritto in realtà affermato dalla Corte, dal momento che si è fatto leva prevalentemente sulle censure mosse nella motivazione alla configurabilità del concorso nel reato associativo secondo l’impronta data alla questione dalle Sezioni Unite del 1994.
La vera massima, quella appunto proposta dal Foro italiano, è la seguente: “La realizzazione di una condotta punibile ai sensi dell’art. 648 ter c.p., pur se aggravata dal fine di agevolare l’associazione mafiosa, non è di per sé sufficiente ad integrare in capo ad un soggetto non facente parte del sodalizio gli estremi del concorso esterno nel reato di cui all’art. 416 bis c.p., a meno che non si traduca in un intervento di sostegno all’organizzazione criminale tendente a farle superare una situazione di momentanea difficoltà, e sia comunque dimostrato che l’agente si sia avvalso della forza di intimidazione del vincolo associativo di tipo mafioso e dello stato di assoggettamento che ne deriva”.
Secondo la ricostruzione della VI Sezione, l’elemento oggettivo del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso è costituito dalla condotta di partecipazione, intesa come la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori. L’elemento soggettivo, a sua volta, si incentra nel dolo specifico, nella cosciente volontà di partecipare all’associazione per delinquere con il fine di realizzare il particolare programma – che si realizza, nel concreto, attraverso sia condotte illecite, sia condotte di per sé lecite, ma penalmente perseguibili perché realizzate con le modalità descritte dall’articolo 416 bis c.p. – con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione delle comuni finalità delinquenziali con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa. Il concorrente eventuale deve, dunque, agire con la “volontaria consapevolezza” che detta sua azione contribuisce alla ulteriore realizzazione degli scopi della societas sceleris; il che non differisce dagli elementi – soggettivo ed oggettivo – caratterizzanti la partecipazione e, quindi, il concorso necessario, attesa la natura di reato plurisoggettivo qualificante la fattispecie di cui all’articolo 416 bis c.p.; con la conseguenza che non è possibile ipotizzare la figura del concorrente eventuale, che, estraneo all’organismo criminoso, pur tuttavia concorre, con la sua condotta, alla realizzazione della fattispecie.
Le Sezioni Unite argomentano, quindi, che l’elemento materiale del reato di cui all’articolo 416 bis c.p. è costituito dalla condotta di partecipazione ad associazioni di tipo mafioso e che per partecipazione deve intendersi la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori. La condotta tipica consiste, dunque, nel far parte della associazione, il che importa che una condotta, per essere considerata aderente al tipo previsto dall’art. 416 bis, deve rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte del sodalizio, vi sia stabilmente incardinato, con determinati, continui, compiti anche per settori di competenza.
Se le Sezioni Unite del 1994 avevano definito il concorso esterno nell’ipotesi del contributo fornito nel caso di “fibrillazione”, nella sentenza Villecco si parla dell’eventualità in cui il soggetto estraneo all’organizzazione fornisca il suo contributo ad essa pur non sapendo di tale stato di “emergenza”.
In essa, seppur a fatica, dato il carattere confusionario della sentenza in esame, da un lato, si conferma l’impianto concettuale ed argomentativo della precedente pronuncia e, dall’altro lato, si afferma che la fattispecie concettuale sussiste anche prescindendo dal verificarsi di una situazione di anomalia nella vita dell’associazione, con ciò abbandonando esplicitamente i parametri della “fibrillazione” e della “patologia”.
La sentenza Carnevale
La critica mossa dalla sentenza Villecco alla sentenza Demitry sembra aver spinto le Sezioni Unite del 2002 a cimentarsi in funzione correttiva stavolta sul versante dei requisiti soggettivi della condotta del concorrente esterno.
“Assume la qualità di concorrente esterno nel reato di associazione di tipo mafioso la persona che, priva dell’affectio societatis e non essendo inserita nella struttura associativa dell’associazione, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, dotato di effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione.
Quanto al profilo soggettivo, il concorrente esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è tale quando, pur estraneo all’associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che “sa” e “vuole” sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.”
Sgomberato il campo da possibili equivoci provocati da una (ritenuta) falsa interpretazione della sentenza Demitry, la Corte si accosta a quello che ritiene il “vero problema”, la fissazione cioè della soglia, a partire dalla quale la prestazione dell’estraneo assume effettiva rilevanza causale in termini di conservazione o rafforzamento del sodalizio-matrice.
Con tale sentenza la configurabilità del concorso esterno nei delitti associativi è stata ammessa in generale, con riferimento al contributo all’esistenza e all’attività dell’associazione, considerata in generale.
La sentenza tenta una sorta di sintesi fra modello organizzatorio e modello causale, affermando, da un lato, che in base al tenore letterale dell’art. 416 bis c.p. deve intendersi che “fa parte” di questa chi si impegni a prestare un contributo alla vita del sodalizio, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti, facendo così intendere di identificare, sul piano oggettivo, il nucleo di tipicità della fattispecie partecipativa nella manifestazione di impegno a contribuire alla vita del sodalizio; dall’altro lato, però, i giudici di legittimità precisano che una espressione come “far parte” non può che alludere ad una condotta che può assumere forme e contenuti diversi, variabili, così da delineare una tipica figura di reato a forma libera, consistendo in un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione, e quindi, alla realizzazione dell’offesa tipica, inclinando verso una ricostruzione del reato incentrata sul contributo causale all’associazione, quale elemento indefettibile per il giudizio di tipicità sulla condotta punibile.
Tuttavia, tale sentenza è ancora abbastanza legata al modello causale contraddicendolo allo stesso tempo. Infatti il singolo contributo – che si tratta appunto di definire – non può essere considerato in generale rilevante in quanto necessario ovvero sufficiente alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio criminoso. Questo contributo rileva nei termini generali, piuttosto, della “utilità”, quindi della funzionalità.
La sentenza Mannino
Con la sentenza Mannino le Sezioni Unite confermano il principio giurisprudenziale espresso nelle sentenze Demitry e Carnevale, secondo il quale anche per il delitto di associazione di tipo mafioso è configurabile il concorso esterno.
La Corte distingue la figura del partecipe da quella del concorrente esterno. Essa, infatti, definisce partecipe colui il quale, risultando inserito stabilmente ed organicamente nella struttura organizzativa della associazione, non solo “è” ma “fa parte” nel senso che “prende parte” alla stessa. Tale locuzione è da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate dalla medesima.
Definisce, invece, concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’affectio societatis, fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
La Corte ha inoltre specificato che non è sufficiente una valutazione ex ante del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un apprezzamento ex post, in esito al quale sia dimostrata l’elevata credibilità razionale dell’ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente.
Siffatta operazione ermeneutica postula ovviamente che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso esterno, ovvero, da un lato, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi, e, dall’altro lato, che il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale, sia stato condicio sine qua non per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, il quale nella specie è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione di delitti-scopo del programma criminoso.
La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire con le condotte altrui alla produzione dell’evento lesivo del medesimo reato. E sotto questo profilo, nei delitti associativi, si esige che il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis, sia altresì consapevole dei metodi e dei fini dell’associazione e si renda compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione.
La condotta tipica rileva penalmente semplicemente perché prende parte all’offesa al bene giuridico realizzata dagli autori indicati nella fattispecie di reato: il soggetto esterno all’organizzazione concorre quindi non necessariamente ma solo eventualmente nel reato altrui.
Non occorre che il concorrente utilizzi la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che da quella deriva, che adoperi, in altri termini, il c.d. metodo mafioso; è sufficiente che sia cosciente e consapevole che tale metodo è adoperato dagli associati.
Gli elementi del concorso nella associazione criminosa non corrispondono quindi a quelli tipici del reato base. In particolare manca nel concorrente la consapevole volontà di essere membro dell’associazione. Ciò comporta che il suo contributo non è essenziale, ma soltanto utile.
Conclusioni sul concorso eventuale
Nel corso di questo scritto ho cercato di sottolineare come la figura del concorso eventuale nel delitto di associazione di tipo mafioso sia stata in principio negata e in seguito accettata dalla giurisprudenza.
Ma, se si può sostanzialmente ritenere che la giurisprudenza è ormai ferma nell’affermare la diversità fra partecipazione e concorso esterno, in dottrina ciò non si può dire con certezza in quanto esistono ancora numerose e diverse posizioni a riguardo.
Per semplicità accennerò a due posizioni estreme: una contraria ed una favorevole all’ammissibilità dell’istituto del concorso esterno.
Sul versante delle tesi contrarie all’applicazione dell’art. 110 c.p. alle fattispecie associative una parte della dottrina (Fiandaca-Musco), partendo dal presupposto che la rilevanza penale di una condotta di partecipazione interna al reato associativo implichi necessariamente l’acquisizione del ruolo precostituito e formale di “associato”, sostiene che possono aprirsi vuoti di tutela nel caso in cui qualcuno realizzi in modo stabile o sistematico comportamenti che ridondano a vantaggio dell’associazione.
Per colmare tali vuoti di tutela non rimane che ipotizzare un concorso eventuale esterno, ex art. 110 c.p., nel reato associativo che di volta in volta viene in questione.
Ma la configurabilità del concorso esterno risulta controversa in quanto, mentre sembra meno discutibile un concorso eventuale nella forma meno frequente di concorso morale, dubbia appare l’ammissibilità di un concorso esterno nei termini di un concorso materiale.
Già sul piano dogmatico è difficile distinguere fra casi di partecipazione “interna” e casi di partecipazione “esterna” in quanto se la prima, secondo la definizione tradizionale, consiste in un qualsiasi contributo significativo all’esistenza o alla conservazione dell’organizzazione criminosa, allora ogni condotta del terzo estraneo, la quale si traduca in un contributo apprezzabile alla vita dell’associazione, finisce infatti necessariamente con l’integrare, nel contempo, gli estremi della partecipazione “interna” al reato associativo.
Tale tesi afferma che, ai fini della configurabilità di una partecipazione “interna”, potranno essere punibili come associati anche soggetti “esterni” all’associazione criminosa, purché autori di comportamenti che obiettivamente l’avvantaggiano e purché sia presente il relativo elemento soggettivo di partecipazione.
Secondo un’altra parte di dottrina (Aleo), il contributo all’associazione può non essere costitutivo della partecipazione, la quale evoca la caratteristica di stabilità della relazione personale di carattere funzionale dell’organizzazione, sia per la mancanza di stabilità della relazione, e quindi, della possibilità dei membri dell’associazione di farvi “affidamento”, da non poter essere considerato elemento organizzativo, sia per la diversità del dolo, inteso come tipo di interesse personale.
È, infatti, criterio generale del concorso di persone nel reato la situazione secondo la quale il dolo del concorrente possa essere diverso da quello specifico costitutivo della figura delittuosa.
Il concorso eventuale è costituito dal contributo dato alla dimensione generale organizzativa dell’associazione ed è privo del ruolo all’interno della stessa. Tale contributo, infatti, può essere costituito anche da una prestazione unica.
Tale situazione si basa sulla funzionalità del contributo esterno che solo in termini appunto funzionali può essere inteso come rilevante, in quanto non costituisce condicio sine qua non della esistenza dell’associazione.
In contrapposizione alla tesi causalistica di tipo binario il metodo funzionale viene a cogliere contributi “utili” anche se non essenziali, per compiere i quali il soggetto non abbia chiesto e/o non voglia chiedere l’affiliazione all’organizzazione criminale.
Personalmente mi sento più vicina a questa ultima tesi in quanto capace di cogliere la realtà nella sua complessità. Essa, intendendo e valutando il contributo nei parametri dell’utilità fornita all’associazione, fa sì che non rimangano vuoti di tutela collegabili alla sola partecipazione all’organizzazione. In tal modo ritengo si possono distinguere più agevolmente le situazioni di partecipazione, favoreggiamento e concorso esterno.
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