Diritto camerale e compatibilità con la normativa comunitaria: rinvio alla Corte di Giustizia Europea

“I diritti camerali annuali per l’iscrizione al registro delle imprese non sono un’imposta indiretta e, dunque, non sono vietati dalla Direttiva Ue 2008/7 (concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali) che impone agli Stati membri di non applicare imposte indirette sulla registrazione o su qualsiasi altra formalità preliminare all’esercizio dell’ attività di una società di capitali.”

Sono queste le conclusioni presentate il 12 gennaio 2012 cui è giunto l’avvocato generale della Corte di Giustizia Ue, Juliane Kokott, cui si era rivolta la sezione fallimentare del Tribunale di Cosenza dopo che la locale Camera di Commercio aveva chiesto l’ammissione al passivo nel fallimento di una società (Grillo Star) del credito di 200 euro dovuto dall’ impresa per la quota annuale.

E’ questo uno spunto per tornare ad analizzare una questione sorta da qualche tempo sulla compatibilità o meno del diritto camerale italiano con la normativa comunitaria.

Si precisa da subito che su tale questione non si rilevano ancora utili dimostrazioni di interesse da parte tanto della dottrina quanto della giurisprudenza nazionale.

In primo luogo, l’articolo 18, comma 4, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, come modificato dall’articolo 1, comma 19, del D.Lgs. 15 febbraio 2010, n. 23 stabilisce che il diritto camerale annuale è il tributo dovuto ad ogni singola Camera di Commercio da ogni impresa, iscritta o annotata nel Registro delle Imprese, e da ogni soggetto iscritto nel Repertorio delle notizie Economiche e Amministrative (REA).

Al fine di valutare la compatibilità comunitaria dell’articolo 18 della legge n. 580/1993, disciplinante, appunto, il versamento del diritto annuale, dovrà in particolare aversi riguardo a due delle disposizioni della Direttiva del Consiglio 12 febbraio 2008 n. 71: l’art. 5, comma 1, lettera c), e l’art. 6, comma 1, lettera e).

L’ art. 5, comma 1, lett. c) della Direttiva sopra citata dispone che gli Stati membri non possano assoggettare le società di capitali ad alcuna forma di imposizione indiretta, tra l’altro, per le operazioni di registrazione o qualsiasi altra formalità preliminare all’esercizio di un’attività alla quale una società di capitali può essere soggetta a causa della sua forma giuridica. Peraltro, in deroga a quanto previsto dal precedente articolo 5, ai sensi dell’art. 6 comma 1 lett. e) possono essere applicati diritti di carattere remunerativo.

A questo punto prima ancora di valutare se il diritto camerale possa configurare una forma di imposizione vietata dall’art. 5, e, in tal caso, verificare se configuri o meno un diritto di carattere remunerativo nell’accezione prevista dall’art. 6, è utile approfondire la qualificazione della natura del diritto camerale.

La qualificazione giuridica di tale diritto non è mai stata data in modo esplicito dal Legislatore.

Certamente il diritto camerale dovuto dalle imprese alle Camere di Commercio, sebbene non rientri nella nozione di “tributo locale”, ha natura di entrata tributaria. Questo è quanto ha statuito la Corte di Cassazione SS.UU. con sentenza n. 13549 del 24 giugno 2005 secondo la quale le relative controversie appartengono, a seguito della L. 28 dicembre 2001, n. 448, alla giurisdizione delle Commissioni tributarie ai sensi dell’ art. 2 del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Secondo alcuni i diritti camerali devono essere qualificati, nell’ambito dei tributi, in quanto prestazioni patrimoniali imposte dalla legge, come “manifestazione del potere autoritativo dello Stato” e perché sono finalizzati ad acquisire risorse per lo svolgimento di un servizio pubblico. La natura di tassa discenderebbe proprio dallo spirito commutativo della stessa: a fronte della diminuzione dal punto di vista patrimoniale che subiscono le imprese, queste riceverebbero una serie di benefici dalle attività svolte dalle Camere di Commercio.

Altri, poi, hanno sostenuto la riconducibilità dei diritti in questione ai “diritti di carattere remunerativo” ammessi dall’art. 6 della Direttiva quali prelievi commutativi fondati sul principio del costo specifico del pubblico servizio. Secondo i sostenitori di tale interpretazione, atteso che prima della riforma operata dalla Legge n. 488 del 1999 (legge Finanziaria per il 2000) l’entità del prelievo relativa all’imposta in parola era commisurata all’ammontare del capitale sociale, se ne poteva dedurre l’incompatibilità comunitaria. A seguito della riforma del 1999, viceversa, il prelievo è stato adattato al volume d’affari ed esteso a tutte le imprese, sicché la differenziazione del prelievo sulla base del volume d’affari troverebbe giustificazione dei maggiori costi generati dalle dimensioni dell’impresa, assumendo così la veste di prestazioni a carattere remunerativo.

A sostegno di tale tesi, condivisibile a parere di chi scrive, soccorrono le indicazioni fornite da parte della normativa comunitaria, che ha definito diritti a carattere remunerativo, i “prelievi commutativi fondati sul principio del costo specifico, per i quali, cioè la prestazione imposta al privato è determinata in base al costo della specifica operazione attraverso cui è erogato il servizio pubblico, a nulla rilevando la qualificazione del prelievo (come corrispettivo, tariffa, prezzo pubblico o tributo)”.

La giurisprudenza di merito che al riguardo si è sviluppata, come sopra precisato, non è copiosa e non è univoco l’orientamento.

Il problema è stato sollevato dapprima con la sentenza n. 142/2004 della Commissione tributaria Provinciale di Foggia con la quale il Collegio provinciale pugliese ha disapplicato la normativa italiana contenuta di cui all’art. 18 della L. n. 580/1993, senza rimettere la questione alla Corte di Giustizia Ue.

Si trattava, nello specifico, di stabilire se tali diritti potessero o meno essere considerati come una forma di imposizione collegata all’iscrizione delle società di capitali tendente a limitarne il libero insediamento in un paese dell’Unione, oppure se essi potessero essere ritenuti diritti di carattere remunerativo. Secondo quanto osservato dal Collegio pugliese i diritti camerali italiani non possono, contrariamente a quanto dedotto in giudizio dalla Camera di Commercio resistente, essere assimilati agli omologhi diritti olandesi, giudicati dalla Corte di Giustizia Ue pienamente compatibili con il diritto comunitario nella nota sentenza Denkavit. I Giudici pugliesi, avendo stimato tali diritti in eccesso rispetto al servizio reso ed aver concluso per la non remuneratività e la natura di imposta indiretta del diritto camerale, hanno annullato l’atto impositivo emesso dall’Ufficio per contrasto del tributo in parola con la Direttiva Ue 2008/7.

I Giudici tributari, dopo la sentenza del Collegio pugliese, hanno nuovamente affrontato la questione.

Infatti, la prima sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Benevento, con ordinanza n. 473/01/10, condividendo la tesi dei giudici della Commissione Tributaria di Foggia, ha rimesso gli atti alla Corte di Giustizia Ue per ottenere una pronuncia pregiudiziale circa la compatibilità del diritto camerale italiano con la citata Direttiva del Consiglio 12 febbraio 2008 n. 7.

Nel caso esaminato dalla Commissione tributaria di Benevento, i ricorrenti hanno evidenziato come gli articoli 5, comma 1, lettera c), e 6, comma 1, lettera e) della Direttiva comunitaria vietino agli Stati membri dell’Unione europea di applicare alle imprese imposte sulla raccolta di capitali. Il relativo procedimento risulta ad oggi ancora pendente.

Fra queste due pronunce si inserisce, poi, la sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta n. 326 del 21.12.2005 secondo la quale il diritto camerale annuale non è in alcun modo assimilabile alle forme di imposizione vietate dall’art. 5, comma 1, lett. c) della Direttiva Ue 2008/7. Ne consegue che esso è legittimo e dovuto.

In particolare, la Corte di Appello di Caltanisetta ha puntualizzato che il “diritto camerale annuale non è in alcun modo assimilabile alle forme di imposizione vietate all’art. 10, lett. c) della Direttiva CEE n. 69/335 essendo queste ultime attinenti ad adempimenti antecedenti l’esercizio dell’attività di impresa, ossia l’immatricolazione o qualsiasi altra formalità preliminare all’esercizio di un’attività imprenditoriale”.

“Il diritto camerale, invece, si riferisce ed è correlato alla fase successiva all’iscrizione ed alla costituzione dell’impresa, trovando giustificazione nell’attività di promozione, di consulenza e di supporto prestata dalle Camere di Commercio alle imprese. Il presupposto del tributo sorge, quindi, successivamente all’iscrizione dell’impresa e si rinnova periodicamente a cadenza annuale essendo suscettibile di subire modificazioni anche in relazione alle eventuali trasformazioni del regime societario”.

Non ci resta, dunque, che attendere che la Corte di Giustizia Europea si pronunci sulla dibattuta questione e possiamo affermare che le conclusioni dell’avvocato generale Juliane Kokott, sebbene non vincolino in alcun modo la Corte, contribuiscono sicuramente a creare un favorevole orientamento verso la compatibilità e legittimità del diritto camerale italiano con la normativa comunitaria.

Lecce, 29 marzo 2012

1 Si precisa che la Direttiva 2008/7 ha riformulato la Direttiva n. 69/335/CEE. Per ragioni di chiarezza, visto che quest’ultima era stata oggetto in passato di ripetute e profonde modifiche, il Consiglio ha optato per una sua riformulazione, ma sostanzialmente essa riprende la direttiva precedente.

Avv. Villani Maurizio

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