Nella tradizione giuridica italiana, la famiglia veniva vista come un’isola che il diritto, per usare un’espressione di A. C. Jemolo, può lambire, e lambire soltanto.
Insomma, nei rapporti interni tra familiari potevano applicarsi solo le regole previste dal diritto di famiglia, con l’esclusione di ogni altra forma di tutela, prima fra tutte quella aquiliana; viceversa, fin dal codice del 1865, che a sua volta trovava un precedente nel Code Napoléon, nei rapporti verso i terzi la famiglia si presentava come un blocco compatto, in cui i genitori venivano chiamati a rispondere del fatto illecito commesso dai figli, sottomessi al padre attraverso l’istituto della potestà.
Le vicende sociali e giurisprudenziali più recenti hanno portato a ribaltare il primo assunto e a rivedere il secondo: infatti, con le sentenze della Cassazione n. 9801 del 2005, per i rapporti fra coniugi, e n. 7713 del 2000, per i rapporti fra genitori e figli, è stata sancita l’applicabilità del rimedio risarcitorio generale anche nell’isola della famiglia, finché l’introduzione dell’art. 709-ter nel codice di procedura civile ha definitivamente consacrato tale conquista; per quanto riguarda, poi, la responsabilità dei genitori verso i terzi, nonostante la giurisprudenza continui a mantenere un notevole rigore, non può non ravvisarsi un contrasto fra l’idea che sta alla base di tale tipo di responsabilità (quella per cui i genitori possono controllare i figli e quindi prevenire i loro illeciti) e una realtà sociale che lascia sempre più larghi spazi di libertà ai minori.
Ora, per quanto riguarda la responsabilità nei rapporti interni tra familiari, il sistema tradizionale previsto dal codice civile offriva, come si è detto, dei rimedi specifici, che escludevano tutti gli altri. In linea di massima, può dirsi che il rimedio alla violazione dei doveri coniugali fosse dato dall’addebito della separazione (art. 151 c.c.) e quello alla violazione dei doveri verso i figli dalla sospensione o dalla decadenza della potestà (art. 330 c.c.), cui si sono aggiunti recentemente altri rimedi specifici e maggiormente efficaci, come, ad esempio, gli ordini di protezione contro gli abusi familiari (artt. 342-bis e 342-ter c.c.).
Tuttavia tale sistema, specie prima dell’introduzione degli ordini di protezione, era insufficiente, per lo meno nei casi più gravi, in quanto finiva per rendere leciti, o comunque per sottoporre ad un trattamento di minor rigore, quegli stessi comportamenti lesivi di diritti della persona perpetrati da un familiare nei confronti dell’altro che invece, ove fossero stati commessi da estranei, avrebbero potuto essere sanzionati in maniera più efficace attraverso il ricorso alle regole generali della responsabilità extracontrattuale.
Ora, com’è noto, la teoria generale della responsabilità civile parla di danno patrimoniale e non patrimoniale.
Nel diritto italiano, se ovviamente la definizione del danno patrimoniale non ha mai creato particolari problemi, la definizione del danno non patrimoniale sì.
Alla luce delle fondamentali quattro sentenze dell’11 novembre 2008 in materia e della giurisprudenza che vi ha fatto seguito, possiamo però dire che tale danno è, da un punto di vista ontologico, unitario, ma, da un punto di vista logico, vi possono essere individuate tre diverse voci: danno morale, danno alla salute e danno da lesione di diritti costituzionali.
La Suprema Corte ha così definitivamente chiarito che, se da una parte il danno non patrimoniale deve essere risarcito nei soli casi previsti dalla legge (art. 2059 c.c.), dall’altra non si può pensare che la lesione di diritti di rango costituzionale resti priva di sanzione. Dunque, se il risarcimento del danno morale trova il proprio fondamento nell’art. 185 c.p., negli altri casi tale fondamento sarà dato dalle stesse norme costituzionali, e in particolare, fra gli altri, dall’art. 32, per il danno alla salute, e all’art. 2, che parla dei diritti fondamentali della persona.
E la giurisprudenza in materia di responsabilità civile in famiglia ha alla base proprio questi presupposti: nel caso di aggressione ai diritti fondamentali della persona costituzionalmente sanciti, vi deve essere il risarcimento del pregiudizio non patrimoniale subito. E ciò a prescindere dal fatto che l’aggressore sia o meno un familiare: insomma, la famiglia deve cessare di essere un’isola che il diritto può soltanto lambire, le vittime delle aggressioni intrafamiliari non sono “meno uguali” delle altre.
Così, per il caso dei rapporti fra coniugi, se la violazione “semplice” dei doveri coniugali darà luogo all’addebito della separazione, una violazione “grave” e reiterata comporterà la violazione dei diritti fondamentali della persona del coniuge di cui all’art. 2 della Costituzione e, dunque, potrà dar luogo al risarcimento del danno non patrimoniale. Per il caso dei rapporti fra genitori e figli, varrà lo stesso principio, per cui dalla violazione dei doveri parentali potrà derivare al figlio un danno ai suoi diritti fondamentali in quanto persona di cui all’art. 2 della Costituzione, e anche ai suoi diritti in quanto figlio di cui all’art. 30 della Costituzione. Così, la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione, di cui agli artt. 30 della Costituzione e 147 del codice civile, e degli altri doveri “impliciti”, come quelli di cura, correzione e custodia, darà luogo non soltanto all’applicabilità dei rimedi propri del diritto di famiglia, e nemmeno soltanto ad un danno patrimoniale, ma anche ad un danno non patrimoniale, da lesione di diritti fondamentali della persona, quando la violazione sia grave e comporti un significativo peggioramento delle condizioni di vita (intendendo, ovviamente, non soltanto i bisogni materiali, ma anche, e soprattutto, i bisogni affettivi dei figli).
La giurisprudenza in materia, comunque, è interessante non solo per l’affermazione del principio di responsabilità extracontrattuale dei genitori verso i figli, ma anche perché finisce per creare nuovi diritti dei figli verso i genitori. Si arriva a parlare, ad esempio, di un “diritto all’amore”, o ancora, si risarcisce il danno in un caso di riconoscimento non veritiero di paternità, con ciò implicitamente riconoscendo un diritto del figlio a conoscere le proprie reali origini.
E ancora, si sancisce la risarcibilità dei doveri di frequentazione e di visita, previsti nel caso di separazione o divorzio dei genitori o, ancora, la risarcibilità del pregiudizio patito dal genitore o dal nonno che si sia visto ostacolato nel suo rapporto col figlio o col nipote a causa della condotta dell’altro genitore.
Proprio l’ambito della responsabilità fra genitori separati è quello che ha dato luogo ad una novità legislativa importante, l’introduzione, nel codice di procedura civile, dell’art. 709-ter, sul quale vale la pena di soffermarsi, poiché rappresenta la prima conferma, in un testo normativo, del cammino giurisprudenziale di cui si è parlato prima volto a escludere l’immunità dal mondo della famiglia. Leggiamo innanzitutto il testo della norma:
“In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, [il giudice] può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”.
Com’è evidente, si parla, finalmente, ed esplicitamente, di risarcimento, nei confronti del minore o nei confronti dell’altro genitore, e la norma è applicabile nei casi di separazione (o divorzio) e di controversie fra genitori naturali.
Se ammonizione, modifica delle modalità di affidamento e pagamento della sanzione amministrativa sono ritenute misure di carattere sanzionatorio, il dibattito è aperto, in dottrina e in giurisprudenza, a proposito del risarcimento di cui si parla nella norma.
Una prima tesi parla infatti di danni punitivi: il risarcimento avrebbe dunque non la funzione classica di ristorare il pregiudizio patito, ma quella di punire il trasgressore, scoraggiando l’inadempimento attraverso la minaccia di un pregiudizio maggiore rispetto a quello che gli deriverebbe dall’adempimento.
Tale tesi, però, si scontra con un precedente della Corte di Cassazione del 2007 che ha decisamente negato che, nell’ordinamento italiano, possano trovare spazio i danni punitivi. E non si tratta di un problema solo squisitamente teorico, avendo invece importanti conseguenze sull’onere della prova: se si trattasse di danni punitivi, non sarebbe necessaria la prova di aver patito un pregiudizio; se, invece, si trattasse di un’ipotesi “classica” di risarcimento del danno, esso andrebbe provato, per lo meno per presunzioni. Sebbene la giurisprudenza di merito sia, come si è detto, oscillante, finché non vi sarà un’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte, a mio parere l’art. 709-ter non potrà essere considerato altro che l’esplicitazione, nel settore della famiglia, del risarcimento del danno di cui agli artt. 2043 e seguenti del codice civile (quelli, appunto, dedicati alla responsabilità civile).
C’è però un settore, che unisce famiglia e responsabilità civile, che si è tradotto in un dato normativo fin dai tempi del Code Napoléon, all’art. 1384, e che ha le proprie radici addirittura nelle actiones noxales del diritto romano: si tratta della responsabilità dei genitori per il fatto dei figli. Se lo sviluppo della responsabilità civile endofamiliare, cioè nei rapporti interni tra familiari, nasce dallo sfaldarsi dell’idea di famiglia come monolite a favore di una visione costituzionalmente orientata, in cui l’interesse del gruppo viene subordinato allo sviluppo della personalità dei suoi membri, la responsabilità genitoriale verso i terzi si basa proprio sul principio opposto: sull’idea, cioè, che il padre, grazie alla potestà, cioè alla sua autorità sui figli, possa controllarne i comportamenti.
Dunque, se uniamo questo principio ad un altro principio di base, questa volta della responsabilità civile, abbiamo un risultato ibrido: una responsabilità per colpa nell’esercizio del potere di controllo sul minore, come ha osservato la forse più acuta osservatrice sulle origini della norma, Francesca Giardina, in un testo (“La condizione giuridica del minore”) piuttosto risalente (è del 1984) ma che tuttora stupisce per la quantità di spunti e riflessioni sempre stimolanti. L’esito di un simile processo è dato appunto dall’art. 2048 del codice civile italiano, che stabilisce appunto una responsabilità dei genitori per l’illecito commesso dai figli salvo che i genitori non provino di non aver potuto evitare il danno: e su questa formula, e sul fondamento della responsabilità prevista dalla norma, si sono sviluppate diverse teorie, raggruppabili, semplificando, fra coloro che propendono per una responsabilità diretta e coloro che, invece, parlano di una responsabilità oggettiva o, comunque, indiretta. Per i primi, i genitori risponderebbero per un fatto colposo proprio (non aver esercitato una sorveglianza efficace sul figlio), per i secondi, invece, i genitori risponderebbero, in sostanza, in virtù del loro stesso status genitoriale, a prescindere da un’effettiva colpa: sarebbero, in sostanza, la “tasca profonda”, per usare un’espressione da analisi economica del diritto.
Si è detto, i genitori. Ma in realtà la norma è più ampia, e riflette, ancora una volta, una concezione autoritaria della famiglia.
Infatti, se al primo comma si parla dei genitori coabitanti con il figlio minore, al secondo comma si parla di precettori e maestri d’arte: insomma, i continuatori dell’autorità paterna, coloro ai quali il figlio è affidato per essere istruito o per imparare un mestiere, e ai quali vengono trasferiti, per un tempo limitato, i poteri che il padre (e, oggi, la madre) ha sui figli.
Vi è poi un’altra norma riguardante la responsabilità di genitori e insegnanti: è l’art. 2047, il quale parla della responsabilità del sorvegliante. Dunque, in tale norma, genitori e insegnanti rispondono del fatto del minore non in quanto tali, ma, appunto, come sorveglianti. Il discrimine fra l’applicabilità dell’art. 2047 e quella dell’art. 2048 è dato dalla capacità del minore: il primo si applica al minore incapace (o anche al maggiore d’età incapace), la seconda al minore capace, dovendo poi essere la capacità valutata caso per caso.
Vediamo ora di approfondire il tipo di responsabilità previsto dalle due norme. Entrambe parlano di responsabilità “salvo che provi di non aver potuto impedire il danno”. Ma, in realtà, l’onere della prova richiesto è diverso: per l’art. 2047 si parla di culpa in vigilando, di colpa, cioè, nell’esercizio del dovere di sorveglianza; per l’art. 2048 gli insegnanti rispondono solo per culpa in vigilando, ma i genitori anche per culpa in educando, cioè per colpa nell’esercizio del dovere di educazione.
Dunque, volendo accogliere la tesi della natura diretta della responsabilità di cui agli artt. 2047 e 2048, può tracciarsi un parallelismo fra responsabilità verso i figli e responsabilità verso i terzi. L’educazione, infatti, è, lo si è visto, uno dei doveri genitoriali previsti dall’art. 30 della Costituzione e dall’art. 147 del codice civile; la sorveglianza sui figli rappresenta uno dei cosiddetti “doveri impliciti”, quelli non previsti esplicitamente in alcuna norma, ma comunque esistenti. Dunque, il fondamento della responsabilità genitoriale è lo stesso nei due casi: la violazione dei doveri verso i figli.
Il genitore che non educa adeguatamente il figlio, o non vigila su di lui, incorre così, prima di tutto, in una responsabilità verso il figlio stesso.
Ma potrà incorrere, altresì, in una responsabilità verso i terzi ove quel figlio, in quanto maleducato o mal sorvegliato, commetta un illecito.
Questo, appunto, ove si accolga la tesi della responsabilità diretta. Se invece si accoglie la tesi della responsabilità oggettiva, alla base della responsabilità di cui agli artt. 2047 e 2048 vi sarà lo stesso status genitoriale.
E, anche in tal caso, sarà possibile tracciare un parallelo con la responsabilità dei genitori verso i figli. Infatti, una recente sentenza della Cassazione, la n. 22909 del 2010, ha chiarito che fra doveri genitoriali e potestà la correlazione, pur normalmente esistente, non è affatto necessaria: essi persistono, così, oltre ed indipendentemente dalle vicende della potestà, e sono invece collegati, esclusivamente, allo status di genitori.
Dunque, anche qui, il fondamento alla base dei due tipi di responsabilità è lo stesso: il fatto biologico di essere genitori comporta una responsabilità sia verso i figli sia verso i terzi.
Ora, scegliere quale delle due tesi sia preferibile sulla natura della responsabilità di cui agli artt. 2047 e 2048 è oltremodo difficile, e forse, l’unica soluzione è parlare di responsabilità oggettiva di fatto, come ha sostenuto Ferrante.
Ci si deve, per il momento, limitare a constatare che, se la soluzione che emergerebbe in base al dato letterale delle due norme fa pensare alla possibilità della prova liberatoria, e dunque escludere, se non la tesi della responsabilità indiretta, almeno quella della responsabilità oggettiva, la giurisprudenza in materia è estremamente rigida, e ha riconosciuto la responsabilità di genitori anche in casi in cui era praticamente impossibile evitare il verificarsi del danno e non era ravvisabile alcun comportamento colposo, se non per una sorta di fictio juris, dei soggetti garanti.
Volendo offrire un quadro sintetico della giurisprudenza in materia, si può dire, innanzitutto, che la prova negativa di non aver potuto impedire il fatto è stata trasformata, nella prassi, nella prova positiva di aver adottato tutte le misure idonee per impedirlo.
Le sentenze, comunque, valutano caso per caso l’adeguatezza di tali misure, in base a circostanze oggettive (tempo, luogo, ambiente) e soggettive (età e grado di incapacità del danneggiato), ed escludono la responsabilità del sorvegliante solo laddove dimostri di non aver lasciato permanere situazioni di pericolo e, più in generale, nei casi in cui l’evento lesivo sia stato talmente repentino da non essere concretamente prevedibile e, quindi, evitabile.
Ciò, appunto, in una valutazione da farsi caso per caso, per cui più il minore è stato ben educato, e appare dunque capace di autodeterminarsi, meno concreto è il rischio che, in base ad una valutazione ex ante, possa compiere un illecito e, dunque, meno intenso si fa il dovere di sorveglianza, in una sorta di proporzionalità inversa con il dovere di educazione. Educazione che dovrà, anch’essa, essere valutata in base alle condizioni concrete, economiche e sociali, della famiglia.
Di fatto, comunque, la prova liberatoria tende ad essere estremamente severa, tant’è che, addirittura, alcune sentenze, accogliendo la tesi della responsabilità indiretta, ritengono che il sorvegliante sia comunque responsabile, a meno che non riesca a dimostrare il caso fortuito o la forza maggiore. Addirittura, per quanto riguarda la responsabilità dei genitori per culpa in vigilando, si tende a ritenere che le modalità stesse del fatto, qualora esso sia di particolare gravità, siano di per sé sintomatiche e dunque costituiscano prova in re ipsa di una cattiva educazione: in tal modo, si finisce per escludere radicalmente ogni possibilità di prova liberatoria, e la responsabilità, nata per colpa, finisce per essere, di fatto, oggettiva, come appunto sostiene Ferrante.
Si tratta, in tutta evidenza, di una posizione che finisce per essere estremamente, troppo gravosa verso i genitori, tant’è che parte della giurisprudenza afferma, viceversa, che ci possono essere circostanze in cui, invece, le modalità stesse del fatto rivelino la bontà dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata (pensiamo, ad esempio, agli infortuni accidentali nel corso dell’attività sportiva).
Ora, esaminati in maniera sintetica, e certo non esaustiva, i fondamenti dei due tipi di responsabilità, possono tracciarsi alcune conclusioni, o meglio, delineare alcuni problemi aperti.
Si assiste, pur a fronte della possibilità di tracciare un parallelismo fra i due tipi di responsabilità, ad un’asimmetria evidente fra il rigore della responsabilità dei genitori verso i terzi e quella verso i figli.
In primo luogo, si assiste così ad una responsabilità verso i terzi ancora ad un’idea gerarchica della famiglia a fronte di una responsabilità verso i figli che trova il fondamento nell’abbandono di tale idea.
In secondo luogo, questi due tipi di responsabilità, fra i quali i parallelismo, come si è visto, sussistono, presentano ancora profonde differenze.
Una sentenza di merito (Tribunale di Messina, 31 agosto 2009), che può essere considerata una sintesi efficace dello “stato dell’arte” in materia di responsabilità all’interno della famiglia, da una parte vi sono le violazioni minime dei doveri coniugali e genitoriali, che trovano il loro rimedio nelle norme specifiche del diritto di famiglia; dall’altra vi sono violazioni gravi o reiterate, che ledono i diritti costituzionalmente sanciti del familiare (sia come persona, art. 2, sia come figlio, art. 30), che danno luogo all’applicazione delle regole generali della responsabilità civile, e ciò, come si è detto, per evitare che divenga lecito, o comunque maggiormente tollerato, in famiglia ciò che altrove è vietato.
Ma da ciò deriva appunto un’asimmetria: perché il genitore sia chiamato a rispondere del danno cagionato dal figlio minore a causa, se si accoglie la tesi della responsabilità diretta, della violazione dei doveri genitoriali espliciti (educazione) e impliciti (vigilanza), non è assolutamente necessario che la violazione sia grave, bastando dunque anche una violazione tale da non dar luogo ad una responsabilità di tipo extracontrattuale nei confronti dei figli (e, magari, neanche all’applicazione delle misure “speciali” previste dal diritto di famiglia).
Si tratta di un aspetto niente affatto teorico.
Infatti, se da una parte, accogliendo la tesi dei genitori (o anche degli insegnanti, pur con certi limiti) “garanti” del minore, e dunque della responsabilità oggettiva o comunque indiretta, possiamo parlare di una rivalsa totale (ove possibile) del garante sul garantito (ove questi sia minorenni, ma comunque capace, mentre nel caso del minore incapace l’art. 2047 parla di un’ equa indennità), nel caso in cui si accolga la tesi della responsabilità diretta vi sarà il problema di ripartire la colpa fra i genitori (o l’insegnante) e il minore.
Infatti, secondo la tesi della responsabilità diretta, la causa dell’evento lesivo non è semplicemente il comportamento del minore, ma anche il difetto di sorveglianza o di educazione da parte del genitore, che costituisce, così, a tutti gli effetti, concausa.
Ecco che allora si pone il problema della ripartizione dell’onere risarcitorio nei rapporti interni (fermo restando che, verso l’esterno, sono integralmente responsabili sia il genitore, o l’insegnante, che il minore stesso).
E la situazione può effettivamente verificarsi, e non soltanto nei rapporti fra insegnante e minore, dato che, comunque, non potendo certo esimersi da responsabilità il genitore che non coabiti con il figlio per propria colpa, ben potrà verificarsi l’ipotesi di una separazione degli interessi e del patrimonio dell’uno rispetto all’altro.
La questione, però, non è affatto semplice, anche se pare che la dottrina e la giurisprudenza non sembrino rendersene conto.
Infatti, se è possibile, pur a costo di storcere il naso, tenere insieme un sistema in cui da una parte i genitori devono risarcire i figli solo in caso di violazioni particolarmente gravi ai loro doveri ma devono risarcire i terzi per fatto lesivi che rivelino violazioni anche ridotte a tali doveri, appare molto più difficile far convivere nella stessa norma, l’art. 2048 (o l’art. 2047) entrambi i tipi di responsabilità.
Come risolvere il problema? Quale parte della responsabilità, al netto della rivalsa, far rimanere sul genitore? Solo quella derivante da un suo grave inadempimento, la stessa che darebbe luogo ad una responsabilità verso il figlio, oppure anche una responsabilità più lieve, la stessa di cui ha risposto nei confronti del terzo?
E’ una domanda che dottrina e giurisprudenza non si sono neanche poste, e a cui, dunque, non hanno ancora dato una risposta.
Una domanda, peraltro, che nemmeno ci si dovrebbe porre qualora si accogliesse la tesi che l’art. 2048 (e il suo “doppione”, per usare l’espressione di Giardina, l’art. 2047) costituiscano un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in cui il genitore risponderebbe in virtù del suo status, a prescindere da una colpa.
Ma è una soluzione che non convince.
Infatti, se la giurisprudenza in materia è comunque particolarmente severa nei confronti del genitore, non può tacersi la differenza radicale fra gli artt. 2047 e 2048 da una parte e l’art. 2049, quello sulla responsabilità del datore di lavoro, dall’altra: quest’ultimo non prevede proprio la possibilità di andare esenti da responsabilità qualora si provi di non aver potuto impedire il fatto. Quest’ultimo, dunque, costituisce, senza dubbio, una vera ipotesi di responsabilità oggettiva, e la differenza sostanziale con i due articoli precedenti non può essere annullata dall’interprete. Del resto, nemmeno la giurisprudenza lo fa, dal momento che, pur a fronte del rigore, vi sono comunque delle sentenze che escludono la responsabilità dei genitori.
Comunque si guardi alla vicenda, i problemi, dunque, continuano a sussistere.
Probabilmente non esiste una soluzione, o perlomeno una soluzione coerente, essendo la contraddizione insita nell’art. 2048, nato, come si è detto, riprendendo le parole di Giardina, proprio dal contrasto fra la colpa come criterio generale di imputabilità degli atti e l’idea della potestà come controllo effettivo sui figli, idea che si va sempre più sgretolando di fronte all’evoluzione sociale della famiglia.
Ma il tessuto codicistico resta sempre lo stesso: non può dunque che auspicarsi un intervento legislativo che, dopo aver risolto il contrasto tra la famiglia autoritaria del codice civile pre-riforma e quella personalista della Costituzione, sappia risolvere i nuovi problemi nati da questa stessa evoluzione.
Sembra però che, nel settore della responsabilità dei genitori verso i terzi, nulla di nuovo si profili all’orizzonte, almeno sul versante legislativo, per cui non può che invocarsi l’intervento della giurisprudenza, che, una volta colti i problemi che si sono qui sintetizzati, riesca almeno a “smussare” gli angoli più “pericolosi”.
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