Con la sentenza che si annota, la Corte di Cassazione riafferma la natura permanente del reato di violazione delle prescrizioni contenute o richiamate nell’autorizzazione necessaria allo svolgimento di attività di gestione di rifiuti, di cui all’art. 256, comma 4, D.Lgs. n. 152/06 (c.d. Codice dell’ambiente).
L’imputazione dell’illecito in parola (precedentemente sanzionato dall’art. 51, comma 4, D.Lgs. n. 22/97), trae origine dal mancato ottemperamento – da parte del titolare di una ditta di demolizione, custodia e recupero di autoveicoli – alle prescrizioni della ordinanza commissariale che imponeva, tra l’altro, la realizzazione di una barriera di protezione dell’impianto di smaltimento con siepi e alberatura sempreverdi.
Secondo un consolidato orientamento, l’inosservanza contestata integra un reato formale e di pericolo astratto.
Come più volte evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, la sua natura di reato di mera condotta espunge dal campo d’indagine giudiziale qualsiasi valutazione in merito all’idoneità offensiva della condotta medesima (vedasi, ex multis, Cass. n. 6256/11) .
D’altronde, lo scopo del legislatore è quello di apprestare, in tema di reati ambientali, una difesa anticipata del bene giuridico protetto, relegando nell’ambito del penalmente irrilevante la sua lesione in concreto; assumendo, invece, ad elemento costitutivo della fattispecie criminosa, la semplice inosservanza di condotte eminentemente formali e non collegate alla tutela di un interesse esplicitamente indicato e neppure immediatamente percepibile (come chiarito in Cass. n. 35621/07).
L’epilogo di tale percorso ermeneutico è rappresentato dall’enunciato (dal tenore tendenzialmente tautologico) che individua il contenuto offensivo del reato nella stessa struttura della norma, rilevando come il legislatore, con una sua valutazione vincolante per l’interprete, possa ritenere che certe formalità debbano essere osservate con il suggello della sanzione penale (in tal senso, Cass. n. 10641/03).
Il suddetto asserto stride, ovviamente, con il c.d. principio di necessaria offensività che subordina l’applicazione della norma penale all’offesa (sia essa lesione o messa in pericolo) del bene giuridico protetto (nullum crimen sine iniuria).
Sebbene consapevole dell’inevitabilità di tale scelta tipologica, in un campo dove il danno, generalmente, assume rilevanza a fronte di attività seriali, parte della dottrina invoca da qualche tempo l’introduzione, in subiecta materia, della c.d. offensività in concreto (così come declinata dalla Corte Costituzionale con le sentenze n.225 e n.265 del 2008).
Siffatto innesto, eviterebbe, così, di stigmatizzare comportamenti che, seppur astrattamente conformi alla fattispecie tipica, non presentino, nella realtà, quella pericolosità pronosticata dal legislatore.
Il disposto normativo in commento (oggi, peraltro, assurto al rango di reato presupposto per la configurabilità della responsabilità degli enti ex D.Lgs. n. 231/01), rientra nel genus delle cc.dd. norme penali in bianco la cui operatività viene perimetrata e, quindi, modellata, dal contenuto del provvedimento autorizzatorio; dando così luogo a quel rapporto di necessaria accessorietà della norma penale rispetto al provvedimento amministrativo (c.d. “amministrativazione del diritto penale”).
In tale contesto esegetico, l’inosservanza in discorso comporta il permanere dell’antigiuridicità della condotta omissiva fino all’adempimento della prescrizione de qua (similmente, dovrà ritenersi cessata nelle ipotesi di interruzione dell’attività di gestione oppure di modifica o eliminazione del provvedimento che si assume violato).
Nel disattendere l’eccepita estinzione del reato (considerato prescritto dalla difesa dell’imputato), il Collegio ha confermato il principio in base al quale qualora la violazione delle prescrizioni, imposte dal titolo abilitativo, non si risolva soltanto in puntuali inosservanze modali circa l’esercizio dell’attività – eliminabili in qualsiasi momento senza particolari interventi -, ma si traduca nella mancata realizzazione di un’opera che sia stata prescritta come condizione per lo svolgimento dell’attività stessa, il reato deve ritenersi permanente.
Corollario del suddetto principio è la diversa allocazione dell’onus probandi, secondo il tipo di violazione accertata.
Invero, spetterà all’accusa provare che, dopo l’accertamento, il soggetto ha continuato a svolgere l’attività con modalità diverse da quelle amministrativamente previste; nel caso, invece, di mancata realizzazione dell’opera o dell’ intervento, incomberà sull’interessato l’onere di provare che la permanenza del reato è cessata con l’adempimento della prescrizione, come sopra imposta.
Cass. pen. Sez. III, 18-06-2012, n. 24100
Motivi della decisione
Il Collegio ritiene che il ricorso si risolva in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque manifestamente infondato.
Difatti, il punto decisivo del giudizio consiste nello stabilire se e quando l’imputato, dopo l’accertamento, avesse adempiuto alle prescrizioni dalla autorità amministrativa, e quindi se la permanenza del reato fosse cessata in una data anteriore a quella della sentenza di primo grado.
Deve invero confermarsi il principio che, qualora la violazione delle prescrizioni imposte dal provvedimento amministrativo non consista soltanto in puntuali inosservanze di modalità con le quali deve essere svolta l’attività (che possano essere eliminate in qualsiasi momento senza particolari interventi), bensì derivi dalla mancata realizzazione di un’opera che sia stata prescritta come condizione per lo svolgimento della attività stessa, il reato di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 256, comma 4, deve ritenersi permanente, essendo punita la protrazione della specifica condotta di smaltimento, recupero, trasporto od altro senza l’osservanza della prescrizione che imponeva la realizzazione dell’opera (cfr. Sez. 3, 14.4.2005, n. 16890, ********, in. 231649, la quale, con riferimento alla prescrizione di pavimentare l’area di stoccaggio dei rifiuti entro un certo termine, ritenne che il reato permaneva anche dopo la scadenza del termine). Pertanto, se potrebbe ritenersi che spetti all’accusa provare che, dopo l’accertamento, il soggetto abbia continuato a svolgere l’attività con modalità diverse da quelle previste, quando invece la prescrizione riguardi – come nel caso di specie – la realizzazione di un’opera o di un intervento, o l’utilizzazione di un macchinario speciale o casi del genere (come la pavimentazione di un’area o come, nella specie, la recinzione dell’impianto con una adeguata barriera di protezione ambientale, realizzata con siepi e alberatura sempreverde e d’alto fusto), spetta invece all’interessato provare che la permanenza del reato è cessata con la realizzazione dell’opera o dell’intervento.
Nel caso in esame, il giudice, con una apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha appunto ritenuto che l’imputato non avesse fornito tale prova e che anzi vi fosse la prova contraria, in quanto il teste T., all’epoca consulente dell’imputato ed incaricato della relazione tecnica necessaria per il rinnovo della autorizzazione regionale, aveva dichiarato che anche in seguito non era stata realizzata la barriera di protezione ambientale con siepi e alberatura sempreverde e d’alto fusto, e che sotto questo profilo l’imputato non si era conformato alle prescrizioni al riguardo dell’ordinanza. Il giudice ha invece ritenuto non attendibili le diverse dichiarazioni dei testi C. e Ch.. Allo stesso modo, il giudice ha ritenuto che l’imputato non aveva provato nemmeno di avere provveduto a recintare l’area in cui veniva svolta l’attività di custodia per separarla da quella di svolgimento della attività di recupero. Il giudice ha altresì osservato che la prova dell’avvenuto adempimento delle suddette prescrizioni non poteva automaticamente desumersi dalla emissione della successiva ordinanza n. 3493 del 2005, con la quale era stata rinnovata all’imputato l’autorizzazione allo svolgimento della attività, perchè da essa non emergeva in alcun modo che le prescrizioni fossero state rispettate ed anzi l’ordinanza imponeva le medesime prescrizioni previste dalla ordinanza precedente, dal che poteva presumersi esse fossero state reiterate perchè l’imputato non aveva ancora realizzato la barriera di protezione con siepi e alberatura sempreverde d’alto fusto e la recinzione dell’area per la custodia dei veicoli. Si tratta di una valutazione non manifestamente illogica e che quindi non può essere sostituita in questa sede di legittimità da una diversa valutazione più favorevole alla tesi della difesa.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento