CASSAZIONE PENALE, SEZ. IV, 20 GIUGNO 2011 N. 24573
Morte del paziente in ospedale a seguito di sinistro stradale – Non luogo a procedere in sede di udienza preliminare nei confronti di personale medico e paramedico – Assenza di posizione di garanzia in capo al personale paramedico – Manifesta illogicità della sentenza
Rientra nel proprium (non solo del sanitario, ma anche) dell’infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, sì da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, per un tempestivo intervento del medico, esplicando tale soggetto un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute del paziente – in quanto onerato di vigilare sul decorso post-operatorio, proprio ai fini di consentire l’intervento del medico –. In punto di responsabilità infermieristica, non è, pertanto, in discussione una comparazione tra gli spazi valutativi e decisionali del paramedico rispetto al medico, ma solo l’obbligo per il primo, anche solo in caso di dubbio ragionevole (nella specie, fondabile non foss’altro che per le reiterate indicazioni dei parenti), di chiamare ad intervenire il secondo – quando di turno –, cui compete la decisione ultima.
Nota di commento
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La giurisprudenza civile sulla responsabilità dell’infermiere: cenni
Si passeranno in rassegna alcuni dicta giurisprudenziali sulla responsabilità jure civili infermieristica, per poi trattare, seppure sommariamente della giurisprudenza penale.
Cass. 21 gennaio 2000, n. 632 (sul caso dello spostamento da parte dell’infermiere del paziente dal tavolo operatorio alla barella, indi al letto): in caso di lesioni subite dal paziente, ritenuto, sulla scorta delle valutazioni del c.t.u., che esse non siano da ricollegarsi eziologicamente all’intervento chirurgico, e mancando altresì la prova che il danno sia dipeso da una cattiva posizione anestesiologica, causa delle stesse è da rinvenirsi nelle probabili manovre di stiramento effettuate dagli ausiliari nello spostare il paziente subito dopo l’intervento chirurgico dal tavolo operatorio alla barella e da quest’ultima al letto di degenza, deve ritenersi obbligata al risarcimento la casa di cura ai sensi dell’art. 2049 c.c. (nella specie, con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità fra l’evento dannoso e la condotta colpevole – omissiva o commissiva -, del medico, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti)».
Cass. pen., 1 giugno 2005, n. 20560 (ricettiva della celeberrima cd. sentenza Franzese, Sezioni Unite penali, 11 settembre 2002, n. 30328): «è affetta da vizio di motivazione la sentenza del giudice di merito che, nell’escludere l’esistenza del rapporto di causalità tra il decesso per infarto di un detenuto e la condotta dell’infermiera della casa di reclusione che non abbia richiesto tempestivamente il ricovero, non proceda a giudizio controfattuale, ispirato a criteri di probabilità logica, verificando se l’evento si sarebbe potuto evitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, qualora l’infermiera avesse posto immediatamente in essere le manovre rianimatorie da lei esigibili e avesse richiesto l’intervento immediato ed urgente del medico del reparto della casa di reclusione».
In termini, Cass. pen., 13 settembre 2000, n. 9638 (conf., id., 29 aprile 1991, n. 4793) : «in tema di nesso di causalità ed in presenza di due soggetti obbligati al medesimo comportamento, l’omissione del secondo non vale ad escludere la rilevanza causale della precedente omissione laddove non sia ravvisabile nel comportamento successivo una eccezionalità atta ad interrompere la concatenazione causale (nella fattispecie, la mancata osservanza da parte dell’infermiere per ultimo subentrato dell’ordine impartito dal medico di chiamare un altro medico, interrompesse il nesso di causalità relativamente al comportamento dell’ infermiere del turno precedente che parimenti non aveva eseguito l’ordine in questione)».
Sulla cd. preponderanza dell’evidenza in materia civile (a anche regola ‘del più probabile che non’) differentemente dall’ambito penale, ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581 (in Resp. civ. e prev., 2008, 827): «il nesso di causalità è regolato, anche in materia civile, dall’applicazione dei principi generali che regolano la causalità di fatto, delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e temperati dalla “regolarità causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico configurabile; tale applicazione va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative della responsabilità civile. In particolare, muta la regola probatoria: mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza, o del “più probabile che non”» (contra, Trib. Milano, 11 luglio 2005, in Foro ambros., 2005, 3, 262: «nell’ipotesi di responsabilità per colpa medica di tipo omissivo, ove risultino provate, in modo inconfutabile, effettive, radicali e certe omissioni da parte del personale medico – nel caso di specie, medico anestesista ed infermiera professionale -, per ricollegare un dato evento ad una condotta omissiva, non occorre fare riferimento ai concetti di “alto grado di credibilità razionale o di elevata probabilità logica”»).
Sulla responsabilità per danni riportati da soggetti disabili, Cass., 10 novembre 1997, n. 11038 (in Arch. civ., 1998, 428), nel caso di invalidità riportata in conseguenza di un tentativo di suicidio, in assenza di personale ospedaliero, da un ricoverato per malattia mentale con la consegna di continua sorveglianza «ai fini della responsabilità di una U.s.l. per lesioni riportate per omissione di vigilanza da un paziente durante il ricovero ospedaliero è irrilevante il carattere volontario ed obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, non potendo quest’ultimo condizionare l’obbligo di sorveglianza da parte del medico e del personale sanitario, basato sulla stessa diagnosi dei sanitari, sulle precise prescrizioni affidate al personale infermieristico e sulla loro mancata osservanza; ne deriva che viola l’obbligo contrattualmente assunto di vigilanza e di assistenza, oltre il principio del neminem laedere, la casa di cura per malattie nervose che non riesca ad impedire al malato schizofrenico di nuocere a se stesso, dovendosi ritenere ampiamente prevedibile il comportamento irrazionale del ricoverato».
Ed ancora, Trib. Trani, 17 ottobre 2008 : «nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti di una casa di cura privata, vertendosi in punto di responsabilità contrattuale è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla struttura né ai suoi dipendenti».
Per il caso della sottrazione di neonato, Cass., 4 agosto 1987, n. 6707 (conf., App. Genova, 4 dicembre 1982): «la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo (art. 32, primo comma, Cost. ed art. 1 della legge n. 833/1978), non si esaurisce, per quanto attiene agli ospedali, nella mera prestazione delle cure mediche, chirurgiche generali e specialistiche (già compiti espressi degli enti ospedalieri a norma dell’art. 2 della legge n. 132/1968), ma include la protezione delle persone di minorata o nulla autotutela che siano destinatarie dell’assistenza ospedaliera. Per tali persone, la protezione è parte essenziale, a volte la massima parte, della cura sanitaria, sicché è implicita nello stesso concetto di “cura”, il quale dev’essere assunto come includente nel comportamento dovuto tutte le attività essenziali per l’effettiva realizzazione dell’utilità perseguita dall’obbligazione. «inquadrata la responsabilità dell’ente nell’inadempimento di un’obbligazione legale, addirittura istituzionale, di esso, non può esimere l’ente medesimo la circostanze che esso non si fosse autodeterminato mediante proprio regolamento all’adempimento specifico di cui si tratta. Nell’ipotesi, il diritto soggettivo conferito allo “individuo” dalla legge (persino costituzionale) esclude qualsiasi discrezionalità dell’ente obbligato, per quanto attiene all’estrinsecazione del comportamento dovuto, e l’assenza di normazione secondaria e sopperita, secondo il principio di correttezza, dalla regole elementari della particolare disciplina tecnica e dall’imprescindibile dovere di diligenza che presiedono comunque l’adempimento, anche quando reso da una pubblica amministrazione. Orbene, poiché è affatto ragionevole, e correttamente orientato in diritto, l’apprezzamento del giudice del merito, secondo cui la custodia – rectius – la protezione del neonato era nel contenuto dell’obbligazione dell’ospedale, la relativa responsabilità dell’ente, anche nell’eventuale profilo aquiliano, non è eliminata dalla mancanza di regolamentazione interna di quell’attività dovuta».
In termini più generici sulla responsabilità paramedica, cfr. Trib. Monza, 23 ottobre 2006: «posto che lo strumento processuale della c.t.u. può costituire fonte oggettiva di prova tutte le volte che opera come strumento di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche, ove la relazione peritale ha consentito di acclarare un evidente profilo di responsabilità del personale ausiliario e, più segnatamente, della infermiera professionale incaricata di porre la cd. piastra indifferente a contatto della coscia destra della paziente, deve affermarsi la responsabilità civile contrattuale ed aquiliana della struttura sanitaria. Più precisamente, è stato ravvisato un profilo di negligenza dell’ausiliaria consistito nell’aver causato l’ustione in conseguenza del posizionamento non corretto del braccio destro lungo il corpo della paziente, con esclusione di qualsivoglia responsabilità professionale dei chirurghi e dell’anestesista che ebbero ad eseguire l’intervento di rinosettoplastica, considerato che l’infermiera professionale deve essere in grado di eseguire correttamente i compiti, di sua pertinenza, che gli vengono affidati dai medici».
2. (Segue): la giurisprudenza penale
Cass. pen., 13 settembre 2000, n. 9638 (conf., id., 1 dicembre 2004 – 11 marzo 2005 n. 9739): «gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; l’obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro e, laddove si tratti di un compito facilmente eseguibile nel giro di pochi secondi, non è delegabile ad altri. Dal che discende che, in un pronto soccorso, ma, il discorso vale anche per ambiti sanitari diversi dal pronto soccorso, l’infermiere, cui sia stato impartito un ordine o che, prestando la propria opera, in un certo momento, in una determinata unità operativa, venga a sapere che, in quel momento, il dirigente dell’unità ha impartito un determinato ordine dalla cui esecuzione dipende l’intervento di un sanitario a favore di un paziente, assume, per quanto riguarda l’esecuzione di quell’ordine e, quindi, le conseguenze che la non esecuzione o la non tempestiva esecuzione di quell’ordine possono determinare, la posizione di protezione, che non può essere legittimamente trasferita ad altri quando l’ordine sia tale da non richiedere più di qualche secondo per poter essere eseguito e, dunque, perché l’infermiere che lo ha ricevuto, lo realizzi nel contesto del proprio orario di servizio Si perviene necessariamente a questa conclusione allorché si rifletta soprattutto, come questa S.C. ha già ripetute volte sottolineato (cfr. per tutte Cass., sez. IV 6 dicembre 1990, B. ed altri), che le cosiddette posizioni di garanzia, che sono inequivoche espressioni di solidarietà, hanno oggi, un indubbio retroterra, un innegabile punto di riferimento, in quella norma, art. 2, della Carta Costituzionale, che, ispirandosi, come da tutti riconosciuto in dottrina, al principio personalistico o del rispetto della persona umana nella sua totalità, esige nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale; norma che costituisce una indubbia chiave di lettura di tante altre norme tra le quali quella dell’art. 32 della stessa Carta, che esalta, come è noto, il diritto alla salute e, quindi, alla integrità psico – fisica e che ha condizionato e condiziona, tra l’altro, la legislazione antinfortunistica e la stessa legislazione sanitaria, ove si consideri che il primo comma dell’art.1 della L. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del S.s.n., altro non è che la testuale ripetizione del primo comma dell’art. 32 Cost. Se la posizione di garanzia è espressione di solidarietà costituzionalmente riconosciuta, è innegabile che gli operatori sanitari debbano questa solidarietà, la loro posizione di protezione, per l’intero tempo del loro turno di lavoro, con la conseguenza che non possono trasferire ai colleghi i compiti ad essi affidati, qualora li possano svolgere agevolmente nel loro turno, contribuendo, così, con quella esecuzione, alla tempestività degli interventi e ad evitare di caricare di compiti coloro che, nel momento in cui succedono nel turno, assumeranno la loro posizione di garanzia con pari e, magari, più gravosi compiti da svolgere».
Cass. pen., 22 luglio 1992, n. 8188: «giustamente è ritenuto responsabile del delitto di cui all’art. 323 c.p. il primario della divisione chirurgica di un ospedale che, benché nel reparto siano da tempo sospesi gli interventi di urgenza, disponga che un altro sanitario, degli infermieri ed un ausiliario prestino la loro opera in giorno festivo per l’esecuzione di un intervento chirurgico non urgente, consistente nell’asportazione di una cisti del cuoio capelluto, a persona a lui legata da vincoli di amicizia, che peraltro non sia ricoverata presso la struttura ospedaliera. In tal caso, infatti, rettamente l’ ‘abuso’ è identificato nel fatto di porre la sala operatoria ed il personale addetto a disposizione di un paziente non avente diritto all’intervento, perché non ricoverato nella struttura ospedaliera e, comunque, affetto da una cisti al cuoio capelluto che non determina alcuna urgenza».
In termini, Cass. pen., 5 febbraio 1993, n. 1213 (in Cass. pen., 1994, 149): «rettamente è affermata la responsabilità di un anestesista per la morte di una paziente dovuta ad arresto cardiaco per anossia acuta da oblio respiratorio conseguente all’effetto deprimente dei farmaci utilizzati per la narcosi, nel caso in cui costui, dopo l’intervento operatorio, abbia omesso di sorvegliare adeguatamente la paziente in fase di risveglio, affidando intempestivamente il relativo compito ad un’infermiera professionale non specializzata in anestesia, e conseguentemente, di intervenire con efficacia ai primi sintomi della turba anossica, poi divenuta irreversibile».
Cass. pen., 21 settembre 2009, n. 36554: «va assolta dall’imputazione di omicidio colposo, per inesistenza dell’elemento psicologico, l’infermiera, di scarsa esperienza e giovane età, la quale – senza aver mai utilizzato in precedenza un farmaco endovenoso rivelatosi letale per il paziente, e non essendo mai stata informata circa le modalita’ d’uso dello stesso –, in esecuzione di un preciso ordine scritto del medico che, per la qualifica professionale ricoperta e per l’ultra trentennale esperienza, le aveva impartito di praticare l’iniezione di detto farmaco, non avrebbe giammai potuto pretendere posizioni di controllo della decisione adottata dal medesimo medico, apparsagli del tutto affidabile. Di conseguenza, la condotta della stessa, materialmente esecutiva dell’endovena letale, deve dirsi essere stata determinata da errore indotto dal medico, al quale deve esclusivamente ascriversi ogni responsabilita’ per l’accaduto. Né può, in contrario, invocarsi, a supporto della di lei, la violazione della circ. Min. san. 12 aprile 1986 n. 28, nella parte in cui prescrive l’obbligo, da parte del personale infermieristico, di attivarsi, nel caso di dubbi sulle modalita’ di somministrazione endovenosa di un farmaco, al fine di richiamare l’attenzione del medico ed ottenerne le opportune precisazioni, atteso che l’obbligo de quo presuppone la sussistenza di dubbi sulle modalita’ di somministrazione del farmaco, laddove, nel caso di specie, l’imputata non poteva nutrire dubbi di alcun genere, per averle il sanitario già per iscritto e con precisione indicato tali modalità, di guisa che non vi era alcuna necessità di chiedere ulteriori chiarimenti»
Cass. pen., 9 luglio 1999, n. 8837: «in tema di rifiuto di atti di ufficio, in base all’art. 13, comma 3°, d.p.r. n. 41/1991, il medico che effettua il servizio di guardia è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano richiesti direttamente dall’utente; e se è pur vero che non può negarsi al sanitario il compito di valutare la necessità di visitare il paziente sulla base del quadro clinico prospettatogli, considerando che il rifiuto rilevante a norma dell’art. 328, comma primo, c.p. deve riguardare un atto indifferibile il cui mancato compimento può comportare un pregiudizio irreparabile, è anche vero che una tale discrezionalità può bene essere sindacata dal giudice di merito sulla base degli elementi di prova sottoposti al suo esame».
Cass. pen., 16 ottobre 2003, n. 39108: «in tema di rifiuto di atti d’ufficio, il medico che effettua il turno di guardia notturna presso una struttura specializzata ad alto rischio, non può invocare la discrezionalità tecnica per giustificare comportamenti omissivi, quando si è in presenza di una specifica doverosità d’intervento».
Cass. pen., 6 agosto 2009, n. 32291: «accertato che lo specialista abbia omesso di diagnosticare tempestivamente il possibile o prevedibile distacco della placenta, nonché che abbia lasciato priva di assistenza una degente allontanandosi per oltre due ore (malgrado un collega piu’ anziano lo avesse consigliato di, restare in reparto per seguire l’evolversi della situazione) senza impartire alcuna istruzione all’infermiera ostetrica di servizio e che, quindi, non abbia preso in considerazione una sofferenza cardiaca fetale già in atto e rilevata, ben può affermarsi la sua responsabilità a titolo di omicidio colposo».
Cass. pen., 15 aprile 1998, n. 4407: «il ricovero in una casa di cura o in una comunità terapeutica, frequentemente disciplinate da rigide regole interne, comporta, infatti, l’obbligo di cura e di custodia, gravante su plurimi soggetti – direttore sanitario, medico, primario, terapeuta, infermiere – ma anche limitazioni all’incapace, le quali, liberamente accettate con un valido consenso o non contrastate da un evidente dissenso, non sono penalmente apprezzabili per la non antigiuridicità del fatto, funzionale alla terapia, se in tali limiti contenuto. Dal destinatario dell’obbligo, quindi, non si può pretendere né una sorveglianza che, per la sua consistenza e per le invasive modalità, costituisca violazione delle regole generali di rispetto della dignità e della libertà della persona, né una custodia che travalichi i termini terapeutici e le finalità ed i tempi del volontario ricovero. E, invero, per gli alienati, la soluzione del problema non può prescindere dalle profonde innovazioni introdotte dalla Legge 13 maggio 1978 n. 180 e dalla legislazione che la integra, istitutiva anche del servizio sanitario nazionale, atteso che per essi l’incapacità di provvedere a sé stessi discende dall’incapacità di autodeterminazione. Queste norme, che esaltano la dignità e la libertà del malato, confinando a casi del tutto eccezionali la terapia coercitiva e intramuraria, non possono non incidere sull’obbligo di custodia e sulla definizione del concetto di abbandono». Prosegue la motivazione: «ciò che è vietato non è soltanto la coercizione in sé, che è insita anche in un ricovero sine die, ad arbitrium et nutum, ma anche la coazione strutturale, relativa all’ambiente che, oggettivamente coattivo per l’isolamento interno ed esterno, per le strutture e i servizi e l’anacronistico sistema di sbarramento di porte e finestre, finisce con trasformare una casa di cura in una casa di reclusione, finisce, cioè, con il reintrodurre una realtà manicomiale che la Legge ha voluto eliminare – artt. 6, 7 e ss. – . La custodia va adeguata, quindi, alla nuova normativa che prevede, nel trattamento sanitario volontario, sintomaticamente il ricovero dell’ammalato in strutture aperte, e va attuata con servizi alternativi, forse meno economici, ma più funzionali alla finalità perseguita. Realizzate misure adeguate, non è giuridicamente possibile far derivare la responsabilità, a norma dell’art. 591 cod. pen., dall’omissione di sbarramenti strutturali contra legem. La questione è, quindi, se e in quali limiti sia legittimo, nell’ambito del trattamento sanitario non obbligatorio, trattenere, nell’esercizio del potere – dovere di cura e custodia, il soggetto che manifesti, eventualmente anche con la fuga, l’intenzione di allontanarsi dal luogo di ricovero “volontario”, sia pure con una volontà viziata dalla malattia, che è pur sempre presupposta dalla normativa che privilegia la libertà terapeutica. Si tratta di conciliare, in una superiore sintesi, la forza autoritativa della custodia, finalizzata a soddisfare esigenze di ordine individuale, sociale e giuridico, comprese quelle della prevenzione di atti autolesivi ed eterolesivi, con la libertà terapeutica e la dignità del malato». In tali casi, sarà, quindi, impiegabile soltanto una brevis et modica vis «. . . imposta dalle circostanze, anche in via putativa, per un soccorso di necessità, per sottrarre l’incapace al pericolo di gravi danni e per pretendere la sottoscrizione dell’atto di formale interruzione della degenza contro la volontà del medico, l’uso della quale vis, stante la natura dell’incapacità, rientra nei doveri di custodia onde apprezzare l’urgente necessità di trasformare in obbligatorio il trattamento volontario, soprattutto se il paziente dimostri di vivere una fase acuta della malattia e, con un comportamento incongruo e non necessario, quale la fuga, di volersi sottrarre ad una terapia volontaria».
Conforme, per il caso del suicidio, Trib. Brindisi, 5 ottobre 1989 (in Foro it., 1990, II, 273): non sono responsabili di omicidio colposo i medici, gli infermieri, il direttore del servizio dipartimentale di salute mentale, il direttore sanitario nonché il coordinatore sanitario i quali, ciascuno per le proprie funzioni, abbiano omesso di adottare le misure atte ad impedire i ripetuti suicidi di pazienti ricoverati nel reparto di psichiatria, essendo ormai al tramonto, a seguito della l. n. 180 del 1978, una visione della malattia mentale che si traduce nell’assistenza al malato, estrinsecantesi fondamentalmente nella vigilanza stretta del paziente per impedire che possa arrecare danno a sé stesso ed agli altri, prevalendo ormai un’assistenza principalmente di tipo terapeutico».
Cass. pen., 14 ottobre 1986, n. 10841 (conff., ex plurr., idd.,18 gennaio 1983, n. 332 , 22 gennaio 1981, n. 337): «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 591 cod. pen., l’esposizione a pericolo della persona abbandonata può essere anche meramente virtuale e non resta esclusa né dalla temporaneità della condotta determinante l’abbandono né dalla possibilità di eventuali soccorsi “aliunde” inidonei ad una supplenza vicaria delle attività di custodia o di cura facenti carico al soggetto attivo del reato»; ed ancora: «integra gli estremi del reato di abbandono di persone incapaci ex art. 591 cod. pen., il repentino allontanamento di tutte le assistenti infermiere di una casa di ricovero per anziani e menomati psichici, essendo irrilevante, ai fini della sussistenza dello stato di pericolo per l’incolumità delle persone predette, la presenza in loco di inservienti civili – idonei, quantitativamente e qualitativamente, alla necessaria assistenza infermieristico – sanitaria o i successivi interventi che consentano di evitare l’aggravamento dei ricoverati».
Cass. pen, 26 maggio 2004, n. 39062: «in ipotesi di mancata rimozione dall’addome di un paziente di una pinza chirurgica, spezzatasi ed in parte scivolata nelle anse intestinali, la responsabilità va ascritta all’intera èquipe operatoria, cioè ai medici, cui compete il controllo della rimozione dei ferri, aventi la responsabilità del buon esito dell’operazione anche con riferimento a tutti gli adempimenti connessi, e non può essere delegato al solo personale paramedico, avendo gli infermieri funzione di assistenza, ma non di verifica».
Cass. pen., 15 dicembre 1983, n. 10868: «l’art. 4 d.p.r. n. 225/1974 demanda agli infermieri professionali specializzati in anestesia, tra l’altro, anche le mansioni di preparazione e controllo delle apparecchiature e del materiale necessario per l’anestesia generale e di sorveglianza della regolarità del funzionamento degli apparecchi di respirazione automatica e tali disposizioni sono applicabili anche agli infermieri professionali che, benché non specializzati in anestesia, sono destinati specificamente alle mansioni di fatto degli specializzati in anestesia. Sussiste, pertanto, la responsabilità di costoro per colpa nel caso di somministrazione nel corso di intervento chirurgico di protossido di azoto anziché di ossigeno a causa dell’inversione di innesto di tubi portanti i detti gas, anche se l’inversione è stata materialmente effettuata da altri».
Cass. pen., 6 maggio 1992, n. 5359 (in Giur. it., 1994, II, 377): «secondo l’art. 41, primo comma, d.p.r. n. 128/1969 – che regola l’ordinamento interno dei servizi ospedalieri – il caposala “… controlla il prelevamento e la distribuzione dei medicinali, del materiale di medicazione, e di tutti gli altri materiali in dotazione”… tra i quali devono ricomprendersi le sostanze venefiche. Vero è che l’art. 1 d.p.r. n. 225/1974, alla lettera f) affida all’infermiere professionale il compito di custodia dei veleni, ma, non avendo tale disposizione abrogato, la già citata precedente disposizione di legge, è da intendere che il compito di custodia dell’infermiere professionale concorra con l’identico compito del caposala senza, ovviamente, escluderlo. L’art. 63, quinto comma, D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo stato giuridico del personale delle U.S.L., specifica che al Primario competono esclusivamente “funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura” ed è, dunque, esclusivamente in relazione a tali funzioni che egli deve impartire “istruzioni direttive” ed esercitare “la verifica inerente all’attuazione di esse”. Esulano, dunque, dai compiti assegnati al Primario, quelli manageriali e di organizzazione aziendale che spettano ai vertici amministrativi delle U.S.L. (nella specie, dotazione di contenitore di sostanze venefiche immediatamente distinguibili esteriormente da quelli destinati alla conservazione di medicamenti), così come, in particolare, esula quello della custodia dei veleni, che spetta ad altri soggetti».
Cass. pen., 24 luglio 2009, n. 30936: «va affermata la responsabilità di un massaggiatore, ancorché infermiere specialista, per violenza sessuale commessa in ambito sportivo in danno di un infraquattordicenne, che peraltro manifesti la sua disapprovazione a toccamenti intimi, che non potrà apprezzarsi quale intento dell’indagato di elargire consigli igienici, bensì come atto sessuale, e ciò tanto più se le condotte sono avvenute non già in un contesto corale quale avrebbe potuto essere uno spogliatoio comune, bensì in una stanza idromassaggio individuale in cui l’indagato si trovava solo con l’adolescente privo di vestiti» (conf., Cass. pen., 9 settembre 2009, n. 34871: «ai fini dell’apprezzamento della condotta di violenza sessuale realizzata da un infermiere in danno di una paziente, l’esigenza di riferirsi alle complessive modalita’ di commissione della condotta impone che non debba aversi riguardo solo al gesto in se’, ma anche all’intero contesto realizzativo»).
Cass. pen., 24 maggio 1990, n. 7186:«l’esimente putativa – nella specie consenso dell’avente diritto -, può trovare applicazione solo quando sussista un’obiettiva situazione – non creata dallo stesso soggetto attivo del reato -, che possa ragionevolmente indurre in errore tale soggetto sull’esistenza delle condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della scriminante».
Cass. pen., 30 aprile 1988 n. 5190 (id., 23 dicembre 1986 n. 14649): «commette il reato di esercizio abusivo di una professione l’infermiere generico che pratica prelievi ematici consentiti soltanto agli infermieri professionali».
Cass. pen., 22 dicembre 2003, n. 49116: «in assenza di prescrizioni positivamente previste in ordine alla necessità del diploma di specialità, quale condizione per l’esercizio dell’applicazione della professione medica, il medico chirurgo è abilitato all’esercizio di qualsivoglia branca della detta professione dal conseguimento, dopo la laurea dell’abilitazione all’esercizio della professione. Indipendentemente, dunque, dal riconoscimento ufficiale della qualifica di specialista, e salvo quanto imposto dalla legge per talune specialità (quale quella del radiologo), non rientrante nel caso de quo, nulla vietava a chi è in possesso dell’abilitazione all’esercizio della medicina di scegliere la branca di essa da praticare, escludendone altre. Ne deriva che la speciale abilitazione da parte dello Stato, cui fa riferimento l’art. 348 c.p., senza il quale l’esercizio di un’attività professionale è abusivo, cioè illegale, per la professione medica deve pertanto identificarsi nell’iscrizione all’albo dei medici, in quanto titolo costitutivo per l’esercizio della professione. Nulla quindi può impedire che un medico chirurgo, abilitato all’esercizio della professione, svolga attività, esclusiva o connessa, di fisioterapia, non essendo previsto da alcuna legge dello Stato (così come per i radiologi, gli anestesisti e gli odontoiatra), che per i medici iscritti all’albo professionale sia necessario ulteriore diploma o specializzazione per l’esercizio di tale specialità».
Cass. pen., 29 novembre 2006, n. 39486 (conf., id., 11 maggio 1998, n. 5482): «integra la fattispecie del rifiuto di compiere un atto di ufficio il comportamento di una infermiera che richiesta da un paziente di procedere alla sua pulizia per motivi di igiene e sanità, la ritardi in quanto impegnata nell’attività di distribuzione del vitto, in quanto l’operazione di pulizia personale rivestiva carattere d’urgenza e la prescrizione di tale compito non necessitava di un ordine specifico del medico, sussistendo una direttiva emanata ai sensi dell’art. 6 del d.p.r. n. 225/1974, impartita in via generale e sulla base di turni di servizio».
Cass. pen., 7 luglio 1999, n. 8651: «il reato di cui all’art. 340 c.p. è reato di evento, la cui consumazione richiede un pregiudizio effettivo della continuità o della regolarità di un servizio pubblico o di pubblica necessità. Ne consegue che la mera inosservanza di istruzioni interne o di ordini di servizio, potenzialmente rilevante sotto il profilo disciplinare, è priva di rilievo sotto il profilo penale quando non produttiva dell’evento di danno richiesto dalla norma in questione».
Cass. pen., 11 luglio 2001, n. 27850 (in termini, idd., 5 settembre 2000, n. 9443, 28 settembre 1999, n. 11095, 8 giugno 1998, n. 6753): «in tema di peculato dell’incaricato di pubblico servizio, ai fini della configurabilità del reato, la “ragione del servizio” giustificatrice del possesso non è da identificare solo in quella che rientra nella specifica competenza funzionale agente, ma si riferisce anche al possesso del danaro o della cosa mobile altrui derivante, oltre che da norme di regolamento, da prassi e consuetudini. Ne consegue che integra gli estremi del delitto la condotta dell’ausiliario socio-sanitario dell’Asl – addetto a svolgere il proprio servizio pubblico di infermiere di sala operatoria di un ospedale –, che si appropri di alcune siringhe – monouso, rientranti nella dotazione del reparto presso cui lavora ed alla quale abbia libero accesso, in ragione del ruolo rivestito, a prescindere dalla responsabilità della formale custodia del materiale sanitario, di competenza del capo sala».
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