La Corte di Cassazione, con la sentenza in argomentato, ha affermato che la “richiesta di riesame proposta dal difensore del terzo interessato alla restituzione del bene in sequestro, ove sia rilevato il difetto di procura, non può essere dichiarata inammissibile, perchè è fatto obbligo al giudice, in tal caso, di assegnare alla parte un termine perentorio per munirsi di una valida procura”.
Nel caso di specie, il Tribunale del riesame ha dichiarato inammissibile l’istanza proposta ex art. 324 c.p.p. posto che la difesa non ha prodotto nell’interesso del terzo, la procura speciale ai sensi dell’art. 83 c.p.c. .
Ebbene, la Corte di Cassazione, per quello che interessa in questa sede, ha osservato che “quand’anche il Tribunale avesse ritenuto tale procura inidonea ai sensi dell’art. 83 c.p.c. avrebbe dovuto rimettere in termini la parte – come correttamente osservato nel ricorso – in applicazione del disposto di cui all’art. 182 c.p.c., comma 2 nel testo modificato dalla L. n. 69 del 2009 che prevede per il giudice l’obbligo di assegnare alle parti – laddove venga rilevato un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione o altro vizio comportante la nullità della procura – un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o assistenza”.
Da tale premessa di diritto, la Corte, quindi, è giunta alla conclusione secondo la quale tale omissione comporta la “violazione di legge in relazione al disposto di cui all’art. 182 c.p.p., comma 2”, c.p.c. .
In conseguenza di ciò, quel provvedimento impugnato è stato annullato con rinvio al fine di verificare l’ “esistenza in atti della procura speciale e della sua eventuale conformità ai requisiti richiesti dall’art. 83 c.p.c.” nonché allo scopo di assegnare contestualmente “in caso di verifica negativa, un termine alla parte per munirsi della prescritta procura speciale, così come previsto dall’art. 182 c.p.c., comma 2 nella sua nuova formulazione”.
Ciò premesso, tale sentenza è sicuramente di notevole interesse scientifico siccome garantisce in qualche modo alla difesa, evitando un eccessivo rigorismo formale, di poter sanare eventuali vizi inerenti la procura e dunque, garantendo in tal guisa, la trattazione delle questioni sollevate sotto il profilo sostanziale.
Una volta definiti i passi salienti di questa decisione, è necessario altresì analizzare quell’orientamento nomofilattico sotteso a questa pronuncia (in quanto inscindibilmente collegato a tale indirizzo interpretativo) secondo cui il “terzo interessato alla restituzione di cose sequestrate, al pari dei soggetti considerati espressamente dall’art. 100 c.p.p., è portatore di interessi civilistici, con la duplice conseguenza, da un lato, che, anch’esso, in conformità a quanto previsto per il processo civile (art. 83 c.p.c.), non può stare personalmente in giudizio, ma ha un onere di patrocinio, che è soddisfatto attraverso il conferimento di procura alle liti al difensore”[1].
I Giudici di “Piazza Cavour”, infatti, sono pervenuti a tale considerazione tecnico – giuridica dato che, “in mancanza di esplicite disposizioni relative alla figura di terzo, indicata nell’art. 325 c.p.p., comma 1”[2], non può farsi riferimento all’art. 96 c.p. il quale si riferisce al “difensore dell’imputato, il quale, essendo assoggettato all’azione penale esercitata nei suoi confronti, sta in giudizio di persona (fatta eccezione per il giudizio di cassazione), avendo solo necessità di munirsi di un difensore, che, oltre ad assisterlo, lo rappresenta ex lege (salvi i casi di atti personalissimi) in ogni attività processuale (art. 99 c.p.p.)”[3].
In conseguenza e in sostanza, dunque, la Cassazione, partendo dal presupposto secondo cui nessuna “previsione di carattere generale è dettata per il terzo sequestrato il quale ritenga di aver diritto alla restituzione del bene, soggetto che è estraneo al rapporto processuale penale”[4], è pervenuta alla conclusione secondo la quale, per l’appunto, si rende necessario che il terzo conferisca procura speciale ai sensi dell’art. 83 c.p.c. al suo difensore.
Ciò posto, lo scrivente, a suo umile avviso, reputa tale secondo approdo ermeneutico non condivisibile per le seguenti ragioni.
Innanzitutto, è ovvia la constatazione secondo la quale in casi di questo tipo, per quanto si tratti di soggetti portatori di interessi di natura civilistica, tuttavia questi si rivolgono ad una autorità giudiziaria penale.
Di talchè ne consegue che il richiamo ad una norma processualcivilistica appare essere ultroneo al giudizio de quo anche perché, ogniqualvolta il legislatore ha ritenuto necessario l’intervento del giudice civile, l’ha statuito espressamente.
Infatti, com’è noto, l’art. 263, co. III, c.p.p. prevede che in “caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate”, il giudice penale “ne rimette la risoluzione al giudice civile del luogo competente in primo grado, mantenendone nel frattempo il sequestro”.
Del resto, la stessa Corte a Sezioni Unite, pur trattando il diverso istituto della riparazione per ingiusta detenzione, ha comunque avuto modo di affermare:
che il codice di procedura penale offre “ogni possibilità di colmare le lacune (ove ve ne siano) nella disciplina dello stesso rendendo, così, coerente il discorso normativo prima di tutto col riferimento al sistema proprio in cui l’istituto è collocato”[5];
che è “lo stesso sistema del codice di procedura penale a smentire i fautori del ricorso alle norme processualcivilistiche, come è dimostrato dall’esercizio dell’azione civile nel processo penale, dalla citazione e, soprattutto, dall’intervento del responsabile civile che, pur instaurando rapporti esclusivamente civilistici, sono governati integralmente della regole del processo penale”[6].
In secondo luogo, l’assenza di una norma processualpenalistica ad hoc che contempli una situazione di questo tipo, fa sì che, un indirizzo interpretativo di questo tenore, contrasti con quell’orientamento nomofilattico secondo cui le norme che conferiscono il potere certificatorio generale al difensore “(art. 100 c.p.p., 39 disp. att. c.p.p. e 83 c.p.c.) hanno carattere eccezionale e non possono, pertanto, essere applicate al di fuori dei casi tassativamente previsti”[8].
In terzo luogo, l’art. 324, co. VI, c.p.p., com’è risaputo, prevede che il procedimento di riesame “si svolge in camera di consiglio nelle forme previste dall’art. 127” c.p.p. .
Da ciò consegue che la mancanza della procura speciale al difensore non può essere considerata causa d’inammissibilità dell’impugnazione, visto che la norma da ultimo richiamata non esige che il difensore sia munito di procura speciale.
Ad ogni modo, comunque si voglia considerare tale questione interpretativa, la sentenza in commento è sicuramente condivisibile posto che contribuisce a mitigare, come suesposto, un rigore formalistico che, a date condizioni, potrebbe determinare una compromissione del diritto di difesa (anche perché, come evidenziato in questo libello, non v’è una norma processualpenalistica che imponga un onere di questo tipo al difensore).
[1] Cass. pen., sez. VI, 17/03/08, n. 18696.
[2] Ibidem.
[3] Cass. pen., sez. VI, 13/03/08, n. 16970.
[4] Ibidem.
[5] Cass. pen., Sez. Un., 27/06/01, n. 34535.
[6] Ibidem.
[7] Cass. pen., sez. I, 27/03/98, . 5303.
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