Il licenziamento individuale è senza dubbio, da sempre, l’atto giuridico soggetto a maggiori critiche da parte dell’opinione pubblica.
In questa sede ci interessa analizzare quella che è la disciplina attuale del licenziamento individuale alla luce della recente riforma dell’ambito giuslavoristico.
In un rapporto di lavoro subordinato standard (ex art. 2094 c.c.), il potere di licenziamento costituisce l’esercizio del diritto di recesso da parte del datore di lavoro.
Originariamente l’atto giuridico di licenziamento operava ad nutum, senza che il lavoratore ne ricevesse alcun preavviso; successivamente con l’elaborazione della disciplina protettiva e inderogabile posta a tutela dei lavoratori subordinati (es. Statuto dei Lavoratori) sono state introdotte delle importanti limitazioni a tale potere.
Nello specifico la L. 604/1966 e le successive modificazioni contenute nella L. 108/1990, hanno stabilito che l’atto giuridico di licenziamento individuale deve essere espressamente motivato, a pena di nullità, e deve essere comunicato con un certo preavviso al lavoratore.
Inoltre la sua legittimità è legata all’accertamento di tre elementi giuridici: la giusta causa, il giustificato motivo soggettivo e oggettivo.
Infatti qualora il lavoratore dovesse ritenere di essere stato illegittimamente licenziato può presentare ricorso; si apre così un processo civile speciale, il processo del lavoro, che, dopo un eventuale tentativo di conciliazione facoltativa (ex art. 31 della L. 183/2010) non risolutivo, si svolge davanti al giudice del lavoro (tribunale monocratico).
Se alla conclusione di tale procedimento il giudice del lavoro dovesse accertare l’illegittimità del licenziamento, allora può applicare nei confronti del lavoratore (ricorrente) due regimi di tutela: la tutela obbligatoria e la tutela reale.
La tutela obbligatoria, disciplinata dall’art. 8 della L. 604/1966, stabilisce che in caso di licenziamento adottato in difetto di una giusta causa o un giustificato motivo, il datore di lavoro deve decidere se riassumere il lavoratore o se corrispondergli, in sostituzione, un’indennità che può essere quantificata da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione percepita (se il lavoratore ha prestato servizio per oltre dieci anni, avrà diritto a 10 mensilità); il requisito dimensionale generale per l’applicazione della tutela obbligatoria è, a livello aziendale, un numero di dipendenti non superiore a 15.
La tutela reale, disciplinata dall’art. 18 L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), stabiliva originariamente che in caso di licenziamento adottato in difetto di giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro doveva procedere alla reintegrazione del lavoratore e contestualmente corrispondergli tutte le retribuzioni spettanti dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva riabilitazione (in ogni caso non può essere inferiore a 5 mensilità); il requisito dimensionale generale per l’applicazione della tutela reale è, a livello aziendale, un numero di dipendenti superiore a 15.
Attualmente la disciplina della tutela reale ha subito delle modifiche con l’entrata in vigore della L. 92/2012; nello specifico la nuova riforma del lavoro ha riformato l’art. 18, limitandone il campo di applicazione sulla base di fattispecie di licenziamento ben distinte:
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Licenziamento discriminatorio: in caso di licenziamento illegittimo per comportamento discriminatorio del datore di lavoro (es. ragioni di credo politico, religioso), l’atto giuridico di licenziamento è nullo e si applica la tutela reale originaria, ossia la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento del danno pari ad un’indennità corrispondente alle retribuzioni spettanti dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva riabilitazione.
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Licenziamento disciplinare: è il licenziamento motivato da un comportamento del lavoratore tale da configurare una giusta causa, quando si verifica una circostanza così grave da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro e un giustificato motivo soggettivo, in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali. Il giudice può accertare l’illegittimità del licenziamento se il fatto non sussiste o se il fatto può essere punito con una sanzione di diverso tipo; con sentenza può quindi decidere se applicare come sanzione la reintegrazione con risarcimento limitato ad un massimo di 12 mensilità, oppure il pagamento di un’indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità.
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Licenziamento economico: è il licenziamento motivato da un giustificato motivo oggettivo, ossia per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro. Se il giudice dovesse accertare l’illegittimità del licenziamento in quanto non ricorrono gli estremi per il giustificato motivo oggettivo, applica come sanzione un’indennità, da 12 a 24 mensilità; se però dovesse ritenere che l’atto è manifestatamente infondato, allora applica la stessa sanzione della reintegrazione prevista per il licenziamento disciplinare.
Tuttavia l’attuale riforma del lavoro, ha già fatto sorgere alcuni dubbi proprio in merito all’applicazione del nuovo art. 18 della L. 300/1970; nello specifico il Tribunale di Bologna sezione lavoro con sentenza n° 2631 del 15 ottobre 2012 ha evidenziato come in materia di illegittimità del licenziamento disciplinare, il 4° comma della stessa norma, che come sappiamo prevede in questi casi la reintegrazione del lavoratore con un risarcimento pari ad un’indennità quantificata nel massimo a 12 mensilità, riguardando sia l’insussistenza del fatto sia la possibilità di infliggere sanzioni conservative, includa così la maggior parte della casistica legata a tale fattispecie.
Pertanto il 5° comma, che prevede per le altre ipotesi diverse dalle precedenti la sanzione di un’indennità da 12 a 24 mensilità, risulterebbe avere un carattere decisamente residuale sul piano applicativo.
Concludendo la nuova formulazione dell’art. 18 ha posto, pone e porrà dei problemi di carattere sostanziale, in quanto la tipicità delle fattispecie create è caratterizzata da requisiti generali più che specifici.
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