La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha affermato che, alla luce di quanto previsto dall’art. 1 della legge, 26/07/75, anche gli imputati “sono sottoposti ad un “trattamento” penitenziario”.
Secondo gli Ermellini, infatti, si deve tener conto, ai fini dell’applicazione del d.p.r. n. 230/2000, non solo di chi è condannato definitivamente, ma anche di colui che si trova in custodia cautelare in attesa di giudizio.
Quindi, sostiene la Corte, anche coloro che non sono stati ancora giudicati con sentenza definitiva, possono “essere ammessi a partecipare ad attività educative, culturali, ricreative e lavorative (art. 15, comma 3, ord. pen.)”.
A conferma di tale assunto, i Giudici di “Piazza Cavour” hanno evidenziato inoltre come tale equiparazione fosse comprovata anche alla luce di quanto previsto dall’art. 2 del d.p.r., 10/07/85, n. 421[1].
Infatti, come è noto, questa norma giuridica prevede che il “direttore dell’istituto, con provvedimento motivato da trasmettere in copia al Ministero, può ammettere gli imputati, che abbiano tenuto regolare condotta, ed i condannati e gli internati, che, oltre ad avere tenuto regolare condotta, abbiano collaborato attivamente all’osservazione scientifica della personalità ed al trattamento rieducativo attuati nei loro confronti, alla fruizione di ulteriori due colloqui mensili, nonchè di due telefonate mensili al di là dei limiti stabiliti dal secondo comma dell’art. 37, da concedere dalle autorità competenti ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 18 della legge ed ai sensi del primo comma del presente articolo e del primo comma dell’art. 37″ ”.
La Cassazione, dunque, alla luce di tali valutazioni, ha affermato l’illegittimità dell’ordinanza impugnata atteso che, nel caso di specie, la riduzione operata dei colloqui telefonici, in quanto facente parte del trattamento penitenziario, aveva inciso “in maniera peggiorativa sullo stesso trattamento”[2].
Ebbene, tale interpretazione ermeneutica è sicuramente corretta.
Tale approdo argomentativo, infatti, trova conferma anche alla luce di altre disposizioni legislative e tra queste, corre l’obbligo di richiamare:
1)l’art. 18 o.p. il quale prevede che, fermo restando quanto previsto dall’art. 18 bis, anche gli imputati possono avere permessi di colloquio e effettuare conversazioni telefoniche;
2)l’art. 21 ter della legge n. 354 del 1975, inserito dall’art. 2, comma I, della legge, 21 aprile 2011, n. 62, il quale statuisce per gli imputati in stato di detenzione, il diritto a recarsi a visitare il figlio minore infermo “nel caso di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute” del minorenne nonché quello di assistere il figlio minore di anni dieci qualora costui debba sottoporsi a “visite specialistiche, relativa a gravi condizioni di salute”;
3)l’art. 30 dell’o.p. che stabilisce il diritto dell’imputato di recarsi a visitare il parente o il convivente nel caso in cui questi versi in un “imminente pericolo di vita”.
Tale filone interpretativo, peraltro, non rappresenta un episodio isolato nel panorama nomofilattico.
In effetti, già in precedenti pronunce, seppur risalenti nel tempo, la Cassazione ha rilevato che anche gli imputati in stato di custodia cautelare sono “soggetti ad una forma di “trattamento” (art. 1 comma 5 della l. n. 354/75) e destinatari di norme quali, ad esempio, quelle in materia di colloqui, di corrispondenza, di remunerazione, di peculio, di permessi per gravi eventi familiari”[3] e quindi, anch’essi possono essere ammessi, a loro richiesta, “ai sensi dell’art. 15 comma 3, della stessa legge, a partecipare ad attività anche di carattere espressamente definito come “educativo” ”[4].
A riprova di tale assunto, vi è una sentenza con la quale, il Supremo Consesso ha affermato che il detenuto imputato, al pari di quello condannato, ha il diritto di essere informato qualora la corrispondenza a lui diretta venga trattenuta[5].
Tale orientamento ermeneutico, per di più, è perfettamente conforme sia al dettato costituzionale sia a quello comunitario.
Infatti, a livello di diritto domestico, una interpretazione della locuzione “trattamento penitenziario” riservato solo a coloro che sono stati condannati in via definitiva, sarebbe chiaramente lesiva dell’art. 3 Cost. siccome irragionevole e arbitraria.
Una ermeneutica di questo tipo, in effetti, produrrebbe come principale conseguenza, quella di trattare casi analoghi in maniera differente.
Da ciò ne dovrebbe discendere una palese violazione dell’art. 3 Cost. posto che tale norma giuridica é violata ogniqualvolta vi siano “arbitrarie distinzioni normative tra situazioni omologhe”[6].
Allo stesso modo, per quanto concerne il diritto comunitario, è evidente che colui che è ristretto in attesa di essere giudicato, non può ricevere un trattamento diversificato rispetto a quello previsto per il condannato.
La Corte EDU ha stabilito a tal proposito, che la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e, segnatamente, l’art. 3, CEDU, “impone allo Stato di accertarsi che ogni persona reclusa sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione del provvedimento non provochino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in modo adeguato, in particolare attraverso la somministrazione delle necessarie cure mediche”[7].
Dunque, va da sé che secondo la giurisprudenza comunitaria, i diritti fondamentali devono essere garantiti in sede carceraria a chiunque sia ristretto dato che il diritto sancito dall’art. 3 di non essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti, non solo “consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche”[8] ma costituisce, altresì, “un diritto assoluto che non subisce alcuna deroga in nessuna circostanza”[9].
Infatti, “secondo l’orientamento giurisprudenziale adottato dalla Corte europea, il campo di applicazione del divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti si estende a qualsiasi forma e titolo di restrizione della libertà (esecuzione di pena, misura di sicurezza, di prevenzione, cautelare, fermi e arresti di polizia, ecc.)”[10].
In effetti, “la stessa Corte di Strasburgo ha più volte avuto occasione di ribadire che lo status di persona in vinculis non può comportare per il soggetto la privazione delle garanzie dei diritti e delle libertà affermati dalla stessa Convenzione”[11] che, a loro volta, “rappresentano principi di civiltà giuridica per ogni società democratica e, in quanto tali, devono trovare ingresso anche nelle porte del carcere in favore dei soggetti ivi detenuti”[12].
Del resto, lo stesso legislatore italiano, con una recente novella legislativa, ha evidenziato come i diritti e i doveri debbano essere riconosciuti al detenuto in quanto tale a prescindere dal motivo di restrizione.
Difatti, il d.p.r., 5/06/12, n. 136 (pubblicato sulla g.u. il 14/08/12) nello statuire, novellando l’art. 69, co. II, del d.p.r., n. 230/00, che, all’ “atto dell’ingresso, a ciascun detenuto o internato e’ consegnata la carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati, contenente l’indicazione dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati, delle strutture e dei servizi ad essi riservati”, evidenzia per l’appunto come il trattamento carcerario da riservare alla persona ristretta debba essere lo stesso.
Tuttavia, il condannato, in alcune specifiche situazioni, può essere “favorito”.
Ad esempio, il diritto dell’imputato detenuto di poter lavorare, può ricevere un grado di tutela diverso da quello riferibile al condannato, “in conseguenza del particolare status che caratterizza i detenuti in attesa di giudizio e in riferimento alla differente posizione assunta dagli organi penitenziari nei loro confronti”[13].
Ciò emerge confrontando “la formula legislativa « salvo giustificati motivi » relativa agli imputati (articolo 15, comma 3, O.P.) con la corrispondente « salvo casi di impossibilità » relativa ai condannati e agli internati (articolo 15, comma 2, O.P.)”[14] in cui “si evince come il dovere gravante in capo all’amministrazione penitenziaria di attivarsi mediante l’offerta di adeguati posti di lavoro, venga configurato in maniera più intensa riguardo agli internati e ai condannati rispetto a quanto lo sia nei confronti degli imputati”[15].
Orbene, l’art. 15 o.p., pur favorendo il condannato rispetto all’imputato nel trovare un lavoro, non può di per sé però determinare, come conseguenza, una condizione carceraria differenziata.
Infatti, il trattamento riservato al condannato – fermo restando le peculiarità proprie di chi sta scontando una pena – deve essere comunque lo stesso serbato all’imputato in stato di custodia cautelare in carcere, sia alla luce di quanto richiesto dalla nostra Legge Fondamentale, che in virtù di quanto previsto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Da ultimo, per dovere di completezza espositiva, corre l’obbligo di richiamare quel diverso indirizzo interpretativo il quale, ritenendo come vi siano invece “delle differenze riscontrabili nella condizione carceraria tra imputato e condannato”[16], perviene alla conclusione secondo cui il “regime dei colloqui degli imputati è diverso rispetto a quello dei condannati in via definitiva”[17].
Ebbene, tra le due opzioni interpretative, è preferibile la prima, siccome frutto, come suesposto, di una lettura dell’art. 1 della legge n. 354 del 1975 costituzionalmente e comunitariamente orientata.
[1] Norma che, a sua volta, aveva modificato a sua volta l’art. 35 del d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431.
[2] Anna Teresa Paciotti, “Nessuna discriminazione”, http://www.studiolegalelaw.net/consulenza-legale/43412.
[3] Cass. pen., sez. I, 3/06/94, Fonti: Cass. pen. 1995, 2281 (s.m.), Mass. pen. cass. 1994, fasc. 10, 58.
[4] Cass. pen., sez. I, 23/05/94, Cass. pen. 1995, 2690 (s.m.), Mass. pen. cass. 1994, fasc. 9, 95; in senso conforme Cass. pen., sez. I, 16/04/86, Cass. pen. 1987, 1459 (s.m.), Giust. pen. 1987, III,248 (s.m.), Giust. pen. 1987, III,608: “a mente dell’art. 1 comma 4 citato d.P.R. è prevista anche per essi (ovvero gli imputati ndr.) una forma di trattamento”.
[5] Cass. pen., sez. VI, 13/10/09, n. 47009.
[6] Relazione sulla Giurisprudenza costituzionale del 2008; Parte II, Profili sostanziali; Capitolo I, Principi fondamentali; par. 1, I principi di eguaglianza e di ragionevolezza (tratto da: http://www.cortecostituzionale.it/ActionPagina_1090.do).
[7] Corte europea dir. uomo sez. grande chambre, 26/10/00, n. 30210, Kudla C. Polonia. In senso conforme: Corte europea dir. uomo sez. grande chambre, 8/07/04, n. 48787, Ilascu e altro C. Moldova e Russia: “L’art. 3 della Convenzione impone allo Stato di accertarsi che ogni persona reclusa sia detenuta in condizioni che siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non provochino nell’interessato uno sconforto o un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in maniera adeguata”.
[8] Corte europea dir. uomo sez. grande chambre, 21/11/11, n. 35763, Al-Adsani – Regno Unito.
[9] Ibidem.
[10] Canepa – Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2004, p. 39.
[11] Marilena Colamussi, La qualità della vita del detenuto nel sistema del giusto processo, Cass. pen., 2006, 06, 2312.
[12] Ibidem. In tale senso: Cour eur. D.H., arrôt 28 giugno 1984, Campbell &Fell c. GB, in Recueil, Serie A) n. 80, § 69; Cour eur. D.H., arrôt 21 febbraio 1975, Golder c. GB, in Recueil, Serie A) n. 18).
[13] Giuliana Vanacore, Lavoro penitenziario e diritti del detenuto, Dir. rel. Ind., 2007, 04, 1130.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Cass. pen., sez. I, 18/07/94, Giur. it. 1995, II, 154 (nota di: MARGARITELLI).
[17] Trib. Sorveglianza Nuoro, 21/01/03, Redazione Giuffrè 2005 (s.m.).
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