Patto di non concorrenza ed arbitrio del datore di lavoro (Cass. n. 212/2013)

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Massima

La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative. Infatti la limitazione allo svolgimento dell’attività lavorativa deve essere contenuta – in base a quanto previsto dall’art. 1255 c.c., interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 Cost., – entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo e compensata da un corrispettivo di natura altamente retributiva, con la conseguenza che è impossibile attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita.

 

  

1. Questione

La Corte d’Appello ha parzialmente riformata la pronuncia di primo grado, rigettando la domanda proposta dal lavoratore di condannare l’azienda al pagamento della somma dovuta a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza concluso fra le parti.

Avverso la suddetta sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi:

1.     il ricorrente ritiene che la clausola contrattuale, siccome contenente una condizione meramente potestativa ad effetto risolutivo attribuente facoltà di recesso unilaterale al momento della risoluzione del rapporto, senza l’obbligo di pagamento del corrispettivo, era da ritenersi nulla per contrarietà a norma imperativa, in quanto finalizzata ad eludere l’obbligo di corrispettività di cui all’art. 2125 c.c.;

2.     il ricorrente denuncia violazione degli artt. 1362 – 1371 c.c., nonchè vizio di motivazione, assumendo che la Corte territoriale si era erroneamente fermata al significato letterale delle parole usate, senza indagare su quale fosse stata la comune intenzione delle parti.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso e ritiene fondato il primo motivo, in quanto esso è già stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, il quale arriva alla seguente conclusione: la risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative.

 

2. Art. 2125 c.c. ed orientamenti giurisprudenziali

L’art. 2125 cod. civ. viene violato non già dalla clausola che determina il patto di non concorrenza per il biennio successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, perchè questo è consentito dalla disposizione codicistica citata, stante la ricorrenza di entrambi gli elementi prescritti, ossia la delimitazione dell’impegno entro il termine prefissato dalla legge e la pattuizione di un corrispettivo per la compressione alla libertà contrattuale del lavoratore che ne consegue. L’art. 2125 in esame risulta invece violato dalla clausola con cui la società si è riservata la facoltà di recesso. Questa infatti – ancorchè legittima secondo i principi generali che presiedono ai contratti di cui all’art. 1373 c.c., essendo consentito ogni patto che preveda la possibilità di recesso dal contratto ad opera di una delle parti – confligge però con la disciplina specifica prevista per il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato, la quale limita l’autonomia contrattuale, sancendo che il patto venga “determinato nel tempo”. Si tratta di una condizione diversa da quella prescritta nell’ultimo comma dell’art. 2125 c.c., che ne delimita la durata massima, di talchè sarebbe contra legem solo una durata esorbitante da quei limiti, ma sarebbe consentita invece la clausola di recesso. Questa viceversa è vietata perchè la durata del patto deve essere, ai sensi del primo comma, “delimitata ex ante” e quindi non può essere soggetta ad una pattuizione che ne consenta il venire meno in ogni momento della sua durata, come nel caso di specie, in cui il patto era revocabile ad opera della società nell’ambito del biennio. La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all’intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa sull’esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della durata del vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero lente ostacolate ove il medesimo fosse soggetto alle determinazioni della controparte, anche considerando – nella specie – la forte penalità posta a suo carico in caso di inadempimento. Nè la liberazione dal vincolo può assumere per il lavoratore una utilità tale da compensare la situazione di precarietà sostanziale in cui verrebbe a trovarsi dopo la cessazione del rapporto, per essere costantemente soggetto alle determinazioni altrui.

Non appare quindi condivisibile l’orientamento risalente espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1686 del 10 aprile 1978, per cui l’art. 2125 c.c. lascerebbe il più ampio margine all’autonomia negoziale delle parti, di talchè la facoltà di recesso non sarebbe in contrasto con la norma di legge. Detti tesi inoltre è stata contraddetta dalla Cass. n. 9491 del 13 giugno 2003, cui si è uniformata la presente sentenza, che considera la facoltà di recesso datoriale stipulata in violazione della medesima disposizione codicistica.

 


Rocchina Staiano
Dottore di ricerca; Docente all’Univ. Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010; Avvocato. E’ stata Componente della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.

Sentenza collegata

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Staiano Rocchina

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