La prova della sussistenza dello stato di indigenza dell’inquisito, il quale si trovi agli arresti domiciliari, costituisce l’elemento fondamentale e, soprattutto, decisivo, per l’ammissione al lavoro esterno.
La Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione, chiamata a decidere in ordine ad un gravame interposto avverso una pronunzia del tribunale del riesame di Bologna, nell’interesse di una persona imputata di reati concernenti gli stupefacenti, ha ritenuto, quindi, (con la sentenza 6 dicembre 2012-11 gennaio 2013, n. 1480/13 – R.G. 18390/2012) che la delibazione – atto di natura sostanziale –, involgente la condizione economica dell’imputato (ed eventualmente del suo nucleo famigliare), prevalga su qualsiasi altra valutazione, soprattutto se di carattere formale.
E’ bene ricordare che la situazione soggettiva di cd. “indigenza” rappresenta una delle due condizioni essenziali che l’art. 284/3° c.p.p. (norma codicistica che governa l’istituto degli arresti domiciliari) prevede come elementi legittimanti il rilascio dell’autorizzazione lavorativa alla persona detenuta presso una struttura domestica.
Sullo specifico aspetto, la giurisprudenza ha seguito un percorso interpretativo, che, progressivamente, ha permesso di definire i caratteri del concetto di “indigenza”.
Un iniziale orientamento legava, infatti, la condizione di necessità, (che si ravvisa nell’indigenza), ad una definizione strictu sensu di “bisogni primari” della persona, limitando la stessa, quindi, a quelle spese concernenti il sostentamento personale dell’interessato [escludendo in linea di principio il nucleo famigliare – Cfr. Cass. Sez. I, 29-10-2002, n. 123 (rv. 222941), Organista, Riv. Pen., 2003, 788, Arch. Nuova Proc. Pen., 2003, 501] e circoscrivendole a quelle relative alla sua fisica sopravvivenza (vitto, vestiario e alloggio).
La giurisprudenza di legittimità ha, in progresso di tempo, dimostrato – attraverso una serie di significative pronunzie – di avere analizzato la nozione di “bisogni primari“, giungendo a calarla nella concreta evoluzione delle condizioni sociali di vita, sì da conferire a tale locuzione un significato preciso e privo di astrattezza.
In questo senso, dunque, si indirizzò la sentenza della Sez. IV, 29-01-2007, n. 10980 (rv. 236194), P.S., CED Cassazione, 2007, la quale si fece apprezzare e segnalare, in quanto, muovendo dalla premessa in fatto del raggiungimento della prova di un livello di indigenza di carattere assoluto, in capo all’imputato, sancì:
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che il lavoro è l’unica soluzione possibile, attraverso la quale risolvere la condizione di ristrettezza,
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che la nozione di bisogni primari va intesa in un’accezione maggiormente estensiva, vale a dire che essa comprende, ad esempio, anche le spese per l’educazione, quelle per la comunicazione o per il mantenimento in salute, in armonia con una trasformazione sostanziale delle prospettive e degli orizzonti della società in cui viviamo.
Si è trattato, quindi, di una chiara ed attualizzata estensione del novero di necessità ritenute meritevoli di tutela.
Lo sforzo di garantire il contemperamento delle esigenze di tutela della collettività (con l’adozione di una misura cautelare a carico di un soggetto indagato od imputato) a fronte di conclamate ed elementari necessità di sussistenza del singolo, pur nella sostanziale conferma del principio sopra indicato, ha portato i giudici di legittimità ad impostare il rapporto fra il concetto di “indigenza” e quello di “bisogni primari” in termini prospettici rigorosamente personali.
Vale a dire, che l’eventuale stato di ristrettezza economica, atto a giustificare la richiesta di dell’autorizzazione a svolgere un’attività lavorativa, in cui il singolo venisse a trovarsi, deve riguardare esclusivamente il soggetto-inquisito e non già il complessivo nucleo famigliare cui egli appartenga.
E’ stata, infatti, ad esempio, esclusa – seppur discutibilmente sotto il profilo del quantum considerato – l’assoluta indigenza dell’istante, atteso il reddito complessivo di euro 1.200 mensili goduto dal nucleo familiare di costui, composto da quattro persone [Cfr. Cass. Sez. III, 15-07-2010, n. 34235 (rv. 248228), CED Cassazione, 2010].
Si tratta di una posizione che induce a perplessità.
Opinando, infatti, in tal senso, appare ravvisabile una potenziale disparità di trattamento fra chi viva da solo la condizione di arresti domiciliari e chi, invece, viva la stessa all’interno di un gruppo famigliare, che, pur avendo gravi difficoltà economiche, presenti, comunque, minime risorse finanziarie.
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La sentenza della S.C., dunque, interviene con chiarezza sulla materia, ponendo punti di assoluta e condivisibile certezza e privilegiando (scelta, ancora troppo rara in diritto) una sana visione pragmatica e fumosi orpelli formalistici (l’indicazione – ad esempio – degli orari di svolgimento della prestazione lavorativa) ininfluenti sulla sostanziale validità della dichiarazione di disponibilità del datore di lavoro.
Rileva, dunque, decisivamente, l’indagine sulla validità della prova della condizione soggettiva del richiedente di versare egli in stato personale di indigenza, cioè di essere privo di risorse economiche e di non potere fruire di sostegno finanziario da parte di terzi (familiari e/o non).
Resta le necessità di un ulteriore approfondimento e dell’individuazione delle soglie economiche di reddito, in base alle quali sia possa ritenere escludere lo stato di indigenza.
Rimini, lì 14 gennaio 2013
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