L’inadeguatezza del welfare italiano è un dato di fatto difficilmente contestabile. Nel giro di poco tempo, senza alcuna gradualità, nel nostro paese si è passati dall’assistenzialismo più spinto alla sostanziale latitanza di uno stato sociale.
A questo, è il caso di dirlo, contribuisce una mentalità totalmente aliena rispetto a quella vigente negli altri paesi dell’Unione Europea. La maggior parte delle scarse risorse che il nostro Stato ha a disposizione per tutelare le fasce deboli della popolazione, infatti, viene impegnata per ammortizzatori sociali che oltre ad essere poco efficaci, non sono per nulla in linea con il sistema delineato in ambito U.E..
Il nostro paese, ad esempio, nonostante il Parlamento Europeo con la raccomandazione 92/441CEE, sulla falsa riga di quanto previsto nell’ambito del sistema americano, abbia chiesto l’introduzione del c.d. reddito di cittadinanza che garantisse ad ogni cittadino la soddisfazione dei bisogni primari aldilà del suo status lavorativo, ancora oggi non ha legiferato sull’argomento.
Questo “appello” del Parlamento Europeo, pur essendo stato lanciato con uno strumento “legislativo” non vincolante come la Raccomandazione, col tempo, è stato accolto dalla quasi totalità degli Stati Europei
Ad esempio In Belgio, questo strumento di welfare è chiamato minimax, ed è un diritto individuale che garantisce un reddito minimo di circa 650 euro a chi non dispone di risorse sufficienti per vivere. Ne può usufruire chiunque, anche chi ha appena smesso di ricevere il sussidio di disoccupazione. In Lussemburgo, c’è il revenue minimum guaranti, che è definito legge universale, ed è un riconoscimento individuale erogato “fino al raggiungimento di una migliore condizione personale”. L’importo è di 1.100 euro mensili. In Austria c’è la sozialhilfe, un minimo garantito che viene aggiunto al sostegno per il cibo, il riscaldamento, l’elettricità e l’affitto per la casa. In Norvegia c’è lo Stønad til livsopphold, letteralmente “reddito di esistenza”, erogato a titolo individuale senza condizione di età, con un importo mensile di oltre 500 euro e la copertura delle spese d’alloggio ed elettricità. In Olanda si chiama Beinstand, è un diritto individuale e si accompagna al sostegno all’affitto, ai trasporti per gli studenti, all’accesso alla cultura. Sempre in Olanda c’è il Wik, un reddito di 500 euro destinato agli artisti per “permettergli di avere tempo di fare arte”.
Insomma, anche senza una ricognizione completa dei sistemi di welfare di ogni Stato Membro, l’assenza di un tale strumento sociale in Italia, evidenzia oltremodo la lontananza del nostro Paese da quell’Europa che ha affrontato il tema della protezione sociale e del reddito garantito fin dall’inizio degli anni ’90.
Di fatto, in ambito Comunitario, vigono di 3 diversi modelli di reddito minimo: 1) quello centro europeo, che vede paesi come Belgio e Olanda attuare queste forme già dagli anni settanta del novecento; 2) il modello anglosassone, che ha nella sua specificità le ristrettezze dettate dal means test, che alcuni definiscono forma di controllo vero e proprio sugli individui percettori; 3) quello scandinavo che prevede un ampio ventaglio di interventi sociali tra i quali il sostegno al reddito è uno dei capisaldi.
Infine, vi è un quarto modello, quello mediterraneo, che vede l’Italia e la Grecia come gli unici due paesi europei a non avere alcuna forma di reddito minimo. Anche in Spagna, grazie al governo Zapatero, è stato avviato un dibattito nazionale che sta portando, pur con una certa lentezza, all’istituzione di una forma di reddito sociale.
Per non apparire “italiani felloni”, però, va detto che queste forme di protezione sociale sono perfettibili e che celano al proprio interno alcune contraddizioni. Ad esempio, il fatto che molti di questi modelli di welfare si siano trasformati in workfare, in cui esiste l’obbligo per i beneficiari ad accettare qualsiasi lavoro pena la sospensione del benefit, porta con se alcune conseguenze come quella di nutrire una grossa fascia di lavori a bassa qualificazione. In questo senso, ad esempio in Belgio, si sono definite delle forme di congruità, in cui un beneficiario del reddito minimo può rifiutare il lavoro offerto se non è congruo al suo inquadramento professionale precedente o alla sua formazione; una sorta di riconoscimento delle competenze acquisite che frena il ribasso professionale e salariale. Così come il means test di stampo britannico, rischia di essere, secondo alcuni commentatori, più una forma di controllo che di assistenza sociale. Bisogna però dire che il sostegno al reddito, le forme di protezione sociale, permettono tempi di vita sicuramente diversi e permettono ai cittadini di affrontare la propria quotidianità in modo sicuramente meno pressante e vessatorio, evitando, o quanto meno alleviando lo stato di frustrazione mentale che oggi attanaglia il disoccupato italiano.
Il tema del reddito garantito, minimo, di base, di cittadinanza è centrale nelle discussioni giuridico – politiche di quasi tutto lo scacchiere internazionale. Si pensi che anche in realtà in via di sviluppo come la Bolivia, questo istituto è diventato il punto cardine dell’intero sistema nazionale di Welfare.
In Italia, invece, Il dibattito intorno a questa tematica è, da sempre, abbastanza sterile; infatti, la storia parla di iniziative di legge popolare mai andate a buon fine e di un totale disinteresse per l’argomento da parte del Parlamento, sempre pronto ad accettare ogni diktat europeo in campo finanziario ma distratto, o volutamente inerte, nei confronti di una raccomandazione del Parlamento Europeo, come la citata 92/441 CEE, che caldeggia l’introduzione di quel reddito minimo che dovrebbe fare da volano per una riforma sostanziale di un sistema di Welfare che, come quello italiano, è fermo al ‘900 e, pertanto, inadeguato al periodo storico vigente.
Ad oggi, l’unica regione italiana (parzialmente) virtuosa in materia è il Lazio, dove è stato istituito un sussidio di circa 600 € mensili per chi, tra i 30 e i 44 anni, abbia un reddito annuo inferiore agli 8000 €.
Fortunatamente però, pare che anche la Sicilia possa a breve entrare nell’Europa del Welfare State; infatti, l’ARS, assemblea legislativa siciliana, è prossima alla discussione in merito all’istituzione di uno strumento denominato “reddito minimo di dignità”, che, date le ristrettezze delle casse dell’erario isolano dovrebbe avere un’entità economica compresa tra i 400 € e i 600 €; esso, pur inferiore a quello vigente in altre realtà europee, rappresenterebbe una vera e propria manna all’interno di un territorio martoriato da una situazione lavorativa che, già storicamente difficile, si è ulteriormente aggravata negli ultimi anni.
Il tema del reddito garantito, dunque, dovrebbe essere centrale all’interno di un paese democraticamente maturo come l’Italia; in cui, prendendo ad esempio le più virtuose esperienze comunitarie può essere rilanciato e riformulato come azione di contrasto alla precarietà, come modalità per evitare i contratti sottopagati, per porre un freno all’emergenza economica e al disagio di milioni di persone sottoposte al c.d. ricatto occupazionale. Si tratterebbe di un piccolo aiuto alle famiglie dei working poor che non riescono ad arrivare a fine mese. Sotto questo punto di vista le forme di reddito di base vigenti in molti paesi europei, che pure non vanno lette come la panacea per tutti i nostri mali, viste da quaggiù sembrano il bengodi del welfare.
C’è dunque assoluto bisogno di concretezza, non solo per rispondere alla continua evoluzione della nostra contemporaneità, ma anche perché l’erogazione di un reddito garantito in Italia, potrebbe farci sentire un po’ meno abitanti della periferia e un po’ più cittadini europei.
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