Scorrendo la sentenza in commento – depositata dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione lo scorso 18 marzo – appare naturale porsi il dubbio se, effettivamente, sia in corso, da parte della giurisprudenza di legittimità, un’auspicabile opera di revisione critica della struttura del concetto di offensività, sino ad ora utilizzata in tema di stupefacenti e, ancor più specificatamente, in materia di coltivazione di piante di cannabis, oppure se ci si imbatta in una petizione di principio destinata a non produrre effetti di sorta.
Con l’auspicio che prevalga la prima ipotesi, affrontiamo il tema sviluppato dalla sentenza.
Pare di potere osservare che i supremi giudici, anche se con indubbia cautela, si discostino da quell’indirizzo maggioritario che, sino ad oggi, configurava la sussistenza dell’offensività della condotta coltivativa – determinandone, così, la illiceità e la punibilità – solo ed esclusivamente in presenza di una situazione di assoluta inidoneità della sostanza prodotta dalle piante, che vengano rinvenute, a suscitare effetti droganti rilevabili.
Sono, infatti, ravvisabili, nella sentenza, alcuni pregevoli riferimenti (anche a profili involgenti la stessa legge sugli stupefacenti) che inducono a considerare ed a valutare il concetto di offensività in un’accezione di maggiore ampiezza e completezza, rispetto a quella sino ad oggi osservata.
La pronunzia, infatti, muove dalla adesione a quella procedura epistemologica, che fa della pregiudiziale e necessaria individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma il suo fulcro.
In pari tempo, la Suprema Corte riconosce la centralità ermeneutica del criterio indicato ed opera una approfondita ricognizione – in combinato disposto – sia della giurisprudenza costituzionale, che di quella di legittimità, onde sottolineare la necessità di svolgere, anche, una valutazione della effettiva lesività del fatto.
Ma vi è di più.
Di particolare interesse e rilevante, ai fini delle riflessioni che si intendono sviluppare, appare, in primo luogo, l’esplicito richiamo alla decisione delle SS.UU. 2 aprile 1998, Kremi, la quale, in riferimento alla condotta di cessione a terzi di stupefacenti contenenti principio attivo obbiettivamente inidoneo a produrre effetti psicotropi, ha affermato l’offensività di siffatta condotta, avendo ravvisato un concreto attentato al bene giuridico presidiato dalla norma.
La Corte, per vero, pur muovendo da premesse, quelle della giurisprudenza evocata, che legittimerebbero uno sviluppo del concetto in parola, di amplissimo respiro, rimane – piuttosto timorosamente – legata alla pregiudizialità che il connotato oggettivo, fondato sull’attitudine del prodotto a suscitare effetti psicotropi, manifesta nell’ambito dei reati previsti dal dpr 309/90.
Ad avviso di chi scrive, invece, appare evidente che il criterio interpretativo, evocato, nello specifico caso, dalla pronunzia giurisprudenziale che si commenta, debba superare il collegamento eziologico obbligatorio ed esclusivo con il limite dato dalla soglia drogante del prodotto stupefacente.
Una parafrasi che possa essere definita come corretta si deve incentrare, invece, sulla proiezione relazionale, di natura esterna e pubblica, della condotta in esame (lo spaccio o la cessione a terzi che dir si voglia), la quale appare naturalmente strumentale e sintomatica di una reale e tangibile diffusività della sostanza illecita, nell’alveo sociale.
In quest’ottica, dunque, assume significativo rilievo il dato soggettivo della effettiva condotta tenuta dall’agente.
Vale a dire che il giudizio sull’offensività, si sofferma e si incentra sulla concreta simbologia antigiuridica del gesto di cedere, pur a fronte di una alienazione di un prodotto inidoneo – in sé – a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato.
All’esito di queste considerazioni, risulta, quindi, una sostanziale modifica della prospettiva di base, sulla quale potere costruire la teoria dell’offensività concreta della condotta.
Il paradigma decisivo, infatti, viene trasferito dal piano strettamente obbiettivo (costituito dal superamento o meno del limite di idoneità drogante) a quello, invece, assolutamente subbiettivo (che pone in evidenza, a propria, volta la importanza della propagazione della circolazione di sostanza illecite).
Questo passaggio esegetico, che, come vedremo, si pone in un contesto mediano, rispetto ad ulteriori osservazioni contenute nella sentenza, permette, però, già di affermare la necessità di addivenire al superamento dell’orientamento, che possiamo definire – per le ragioni già esposte – puramente oggettivo, anche se questa modifica – forse – non costituisce ancora il fine prefissatosi dalla sentenza della Corte di Cassazione.
Metodologicamente, quindi, la formulazione del concetto di offensività non può e non deve avvenire, prescindendo da quelle componenti e da quei fattori di carattere soggettivo, che, comunque, risultano inevitabilmente fondamentali per la elaborazione dell’istituto.
La fusione di questi due profili offre, senza dubbi di sorta, una chiave di decodificazione giuridica della possibile concreta offensività del fatto ipotizzato come illecito, caratterizzata da elevata precisione, perchè permette una specifica, quanto approfondita, indagine sull’effettiva minaccia dei beni giuridici tutelati.
Vi è, però, un’ulteriore prospettiva che la sentenza affronta e che, ad avviso di chi scrive, introduce importanti argomentazioni, le quali rafforzano il convincimento della necessità del superamento dell’indirizzo attualmente vigente, attesa la incompletezza del suo taglio, che, come detto, risulta improntato all’oggettività assoluta.
La Corte si sofferma, infatti, sul rapporto che intercorre fra dettato normativo e fatto concreto, rilevando che queste due cuspidi, in talune occasioni, non coincidono.
Ne consegue che il fatto asseritamente illecito, pur rispondendo al tipo descritto nella norma e da essa punito, finisca per risultare, in realtà , privo di carattere offensivo.
A fronte della norma penale, la quale, dunque, introduce nell’ordinamento una indicazione precettizia di carattere squisitamente teorico (corredata da una sanzione per l’ipotesi di sua inosservanza), si contrappone il fatto, (l’evento o la condotta a seconda dei casi) che, invece, esprime un spessore di indubbia concretezza .
Or bene, il giudice di legittimità rileva che la condizione di non sovrapponibilità e di divaricazione fra l’idealità e la tipicità dell’illecito, così come disegnata dalla norma, da un lato, e l’effettività propria del fatto, dall’altro, costituisce una situazione del tutto naturale.
Esistono, infatti, comportamenti, i quali, pur formalmente ed apparentemente conformi alla tipologia descritta dalla previsione normativa, si rivelano, in concreto, inoffensivi.
L’illecito si viene a concretare sul piano del modello formale, ma non produce conseguenze reali di lesione del precetto contenuto nella norma incriminatrice.
La Corte opera, pertanto, un decisivo distinguo fra il “concetto di bene giuridico”, inteso come ragione generale che ha legittimato la promulgazione della legge (nella fattispecie la “tutela della salute della popolazione”) e la nozione di “scopo della norma”, intendendo individuare con questa locuzione il risultato cui è orientata sia la volontà, che l’intenzione ultima del legislatore (la “potenziale diffusione progressiva del mercato illecito e della circolazione di stupefacenti fra la popolazione”).
Si può affermare, dunque, che ci si viene a trovare dinanzi a due momenti di caratterizzazione della norma.
L’uno (la ratio di difesa del bene giuridico) che si può definire statico, mentre l’altro (il fine da ottenere attraverso la applicazione della norma) che si può definire dinamico.
Una condotta può, quindi, risultare soltanto formalmente sussunta nel nomotipo ideale, perchè, al contempo, la sua accertata inoffensività, esclude la sua conformità totale al modello legale e, parimenti, esclude la sua sanzionabilità.
Esempio tipico di questa situazione, si rinviene nella scriminante della detenzione ad uso esclusivamente personale di sostanze stupefacenti.
L’applicazione di tale causa di giustificazione, presuppone la dimostrazione che la condotta detentiva del singolo si sviluppa e si esaurisce nella sfera privatistica del possessore, legittima la operatività della causa di giustificazione.
Altro analogo modello si rinviene nella causa di giustificazione dell’uso di gruppo, riconosciuta dalle SS.UU., al termine di un duro conflitto giurisprudenziale, lo scorso 31 gennaio.
La condotta, che in origine poteva rientrare in un contesto di antigiuridicità, perchè confliggente con il divieto di circolazione di sostanze droganti, scopo perseguito dalla norma, appare, pertanto, priva di offensività.
La distinzione tra i due paradigmi appare, quindi, propedeutica ad introdurre l’elemento qualificante – ai fini che ci occupano – del ragionamento del Supremo Collegio, che consiste nella propugnazione della teoria della interpretazione teleologica (o finalistica) della norma.
In buona sostanza, tale forma di interpretazione normativa esalta il giudizio di comparazione [fra la condotta (evento o fatto illecito) – da un lato – e la meta finale che la norma intende perseguire e raggiungere] che il magistrato deve operare, onde da ciò inferire la esistenza di una condizione di reale offensività.
L’individuazione del fine che la norma si prefigge diviene, pertanto, la reale chiave risolutiva del tema dell’offensività concreta della condotta.
Calando le considerazioni che precedono, nel tema degli stupefacenti e, in special modo, nella problematica della coltivazione, appare evidente che lo scopo del dpr 309/90 anche dopo le modifiche apportate dalla L. 49/2006 deve essere individuato in quello di ridurre progressivamente la diffusione, la radicalizzazione e la espansione del mercato illecito e della circolazione di stupefacenti fra la popolazione (fino a pervenire ad un ipotetico futuro azzeramento del bacino di utenza).
I caratteri cui rapportare una coltivazione che si definisca strumentale all’uso personale devono, quindi, essere quelli dell’inidoneità della condotta
1. a costituire presupposto per l’inserimento sul mercato di nuovo prodotto stupefacente per soddisfare le necessità dei soggetti assuntori;
2. ad ampliare il quantitativo già circolante nel mercato illecito, aumentando, inoltre, il numero degli utilizzatori.
Attesa questa innegabile premessa, la successiva operazione ermeneutica consiste nel porre in rapporto la condotta tenuta dall’agente, la quale appare conforme al modello legale, disegnato dalla norma sanzionatoria, rispetto allo scopo perseguito da quest’ultima.
Si addiviene, in tal modo, alla cd. interpretazione teleologica della fattispecie incriminatrice, che – come precisato dalla S.C. – pone al centro della propria struttura la volontà che il legislatore ha espresso e gli scopi di tutela che egli si è prefissato.
Il criterio così richiamato, stabilisce, dunque, che il fatto – ipotizzato come illecito – possa essere ritenuto tipico ed offensivo, solo se esso sia “conforme al modello legale finalisticamente interpretato”.
La coltivazione, quando essa sia ad uso dichiaratamente personale e quando tale intento risulti concretamente dimostrato, esaurisce la propria funzione produttiva senza alcuna forma di proiezione esterna, tale da potere creare i presupposti per attentare agli scopi della legislazione in materia.
Vale a dire, quindi, che
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ove la coltivazione appaia circoscritta ad un numero di piante estremamente limitato e modico, comunque, del tutto incompatibile con il vero concetto di coltivazione, che coincide naturalisticamente, con quelle attività agrarie propriamente dette, le quali presuppongono caratteri completamente differenti da una coltura di natura domestica, (cfr. GUP Milano, 13 ottobre 2009, Nicastro, che sostiene che “coltivare significa governare un ciclo di preparazione del terreno, semina, sviluppo delle piante e raccolta del prodotto”),
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ove le modalità esecutive dell’azione non paiano particolarmente curate sul piano organizzativo o, comunque, esse non siano supportate dall’uso di strumenti tecnologici sofisticati
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ove l’ambiente, nel quale la coltivazione viene svolta, sia ubicato in contesti privati e/o abitativi, che precludono un agevole accesso a terze persone,
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ove il coltivatore dimostri di essere anche un consumatore non occasionale di derivati della cannabis,
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ove difettino – oggettivamente – gli ulteriori elementi probatori, per ritenere che la destinazione del prodotto ricavato dalla coltura possa essere (in tutto od in parte) quella della cessione a terzi,
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ove, in conclusione, si possa, sostenere che tutto il percorso coltivativo, inizi, prosegua e si concluda in un contesto assolutamente privatistico, precluso a persone estranee all’agente,
ci si deve considerare in presenza di una situazione di evidente inoffensività della condotta, per difetto di congruenza della stessa rispetto agli scopi che la norma persegue.
La discrasia che si potrebbe ravvisare fra i due termini di paragone (condotta materiale e legge formale), ove si avverino le condizioni sopra richiamate, priva l’azione – in astratto conforme al generico modello legale – di quello specifico carattere di tipicità, che la può rendere penalmente rilevante.
Questa è la conclusione cui si può ragionevolmente pervenire, all’esito delle considerazioni operate e che evidenzia, ancor più marcatamente. la vetustà, l’inadeguatezza e la limitatezza dei criteri sin qui utilizzati in giurisprudenza, per formulare il giudizio di concreta offensività della condotta di coltivazione di piante di cannabis.
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