Sintetica quanto esaustiva appare la decisione della Sesta Sezione della Suprema Corte, pronunziata all’udienza del 10 gennaio 2013 e pubblicata il 5 giugno 2013, n. 24542/13, che riguarda la materia della detenzione di sostanze stupefacenti a fini di uso personale.
Il Collegio, infatti, riformando la sentenza della Corte di Appello di Napoli ha assolto due giovani che detenevano un campione di cocaina pari a 2,6 grammi lordi (con un principio attivo del 56%) ed un campione di eroina pari a grammi 1.14 (contenente un principio a attivo del 40%).
Il giudice di legittimità, nella fattispecie, ha accolto sostanzialmente la tesi difensiva, ravvisando due profili.
1. Il primo concerne il fatto che i quantitativi delle due sostanze detenute rientravano entrambi entro i limiti stabiliti ex lege.
Sullo specifico punto si deve osservare che la Corte di Cassazione utilizza, in modo improprio, l’espressione “dosi medie giornaliere”.
Vertendo, infatti, in una situazione conclamata di mera detenzione, il paradigma ponderale strumentale alla valutazione della capacità diffusiva potenziale della droga sequestrata, avrebbe dovuto essere ancorato alla quantità massima detenibile e non già alla dose media giornaliera.
Il canone della quantità massima detenibile – che come si ribadisce, attiene al solo principio attivo – è, infatti, vocazionalmente correlato con condotte inerti, quale appare la detenzione o la coltivazione.
Vale a dire, quindi, condotte che non presentano, in re ipsa, il carattere necessario della diffusività dello stupefacente, a seguito di cessione a a terzi.
In special modo, la detenzione si coniuga concettualmente in modo naturale con la q.m.d. (criterio complesso costituito dalla moltiplicazione della d.m.g. – che per la cannabis è pari a mg. 25 – per un coefficiente pari a 20, ottenendosi così mg. 500).
Questa regola ermeneutica, infatti, è stata concepita inizialmente (ed impropriamente) dal legislatore del 2006, come forma di esclusivo canone/limite, atto a stabilire il quantitativo massimo di principio attivo di stupefacente detenibile dal singolo lecitamente (cioè senza che si ravvisi rilevanza penale).
Tale criterio ha, via, via, perduto l’originario carattere di elevata assolutezza – che la novella della L. 49/2006 aveva inteso conferirgli – per assumere, invece, una funzione maggiormente orientativa, idonea, cioè, ad aiutare l’interprete a comprendere – di volta in volta – se lo stupefacente posseduto potesse avere una effettiva destinazione ad uso personale o meno.
La d.m.g., a propria volta, invece, ha continua a fungere da metodo utile per potere determinare – sul piano quantistico – la potenzialità di diffusione di compendi droganti, laddove appaia plausibile che gli stessi – in toto od in parte – sia destinati alla collocazione sul mercato illecito in favore di terzi.
2. Il secondo che si era in presenza di una palese e dimostrata – già in sede di merito – condizione di tossicodipendenza in capo ai due imputati.
E’, ormai costante indirizzo giurisprudenziale quello che valorizza alcuni elementi di carattere soggettivo, ai fini della prognosi di destinazione dello stupefacente all’uso personale o meno del detentore.
Specifico rilievo assumono, dunque, la capacità economica dell’imputato, così come la prova di una condizione di tossicodipendenza, o, comunque, di costante e cadenzata assunzione della sostanza.
Va osservato, da ultimo, inoltre, che la Corte – implicitamente – ha ritenuto (giudicando illogica la ricostruzione della Corte territoriale in punto a possibile destinazione della droga alla cessione in favore di terzi) teoricamente plausibile che si possa ritenere compatibile con l’uso personale, anche l’ipotesi di una detenzione finalizzata all’uso di gruppo dei possessori.
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