Il Giudice Monocratico di Trento precisa, con una sentenza che si fa apprezzare per chiarezza e puntualità, (quale quella resa all’udienza dell’8 maggio 2013, nel procedimento penale Rg. 10038/13 Trib.), il limite che caratterizza il valore probatorio dell’esame dei liquidi biologici (nella fattispecie delle urine), svolto allo scopo di accertare, la sussistenza – al momento della guida – dello stato di alterazione determinato dal’assunzione di sostanza stupefacente, in capo al conducente di un’autovettura.
Tale esame, infatti, di per sè non può assumere valore di decisività e concludenza.
Decisiva, infatti, risulta la assenza di ulteriori verifiche tossicologiche, quale appare l’indagine ambulatoriale ematica, oppure l’omissione di eventuali preliminari verifiche empiriche cognitive dirette da parte delle forze dell’ordine, che permettano la sicura percezione di uno stato di alterazione psico-fisica (consistente nei noti e più volte ribaditi parametri offerti da comportamenti spiccatamente anomali, marcia irregolare e pericolose del veicolo, assenza di equilibrio nei movimenti, sudorazione, loquacità eccessiva, aggressività ingiustificata, incapacità di connettere il discorso etc.)
Il principio sancito dal giudice di merito tiene, infatti, in debito conto la circostanza che l’accertamento svolto utilizzando le sole urine “decreta solo l’esito positivo o negativo dell’esame che viene stabilito in base al riscontro nei campioni prelevati di ng/nl di sostanza superiore a 50”.
Siamo, dunque, dinanzi ad un accertamento di esclusiva natura qualitativa (esso non misura, infatti, l’intossicazione) e come tale, suscettibile – ad avviso della letteratura medica mondiale – di interferenze fatali, (idonee a falsarne il risultato), da parte dei più vari fattori, se non addirittura da parte di errori tecnici o procedurali.
Vi è, poi, un ulteriore dato che milita per privare di efficacia referente il test in questione, ove non suffragato da altri sicuri elementi di riscontro.
Esso consiste nel carattere di notevole permanenza stanziale che le droghe, in genere, ed i cannabinoidi – nella specie -, presentano nell’organismo umano.
E’, infatti, notorio che possono venire rinvenute tracce degli stessi nei campioni biologici anche ad apprezzabile distanza di tempo dall’atto dell’assunzione.
La cannabis, addirittura, è la sostanza che – per definizione – rimane presente nei liquidi biologici da un minimo di una settimana ad un massimo che può variare dai 40 ai 60 giorni, a seconda del livello e della cadenza delle assunzioni.
Deriva, pertanto, il concreto rischio, che il risultato dell’analisi, incentrata solo sulla prova di liquidi biologici, non risponda al quesito fondamentale, al fine di dirimere il dubbio nodale della violazione dell’art. 187 CdS e cioè quello “dell’attualità degli effetti dell’intossicazione” a seguito di sicura e pregressa assunzione di sostanze stupefacenti.
La metodica utilizzata nella fattispecie in commento, dunque, appare del tutto inidonea, perché non permette di raggiungere la prova dell’esistenza del reato supposto ed ha legittimato l’assoluzione dell’imputata.
Costei è certamente risultata positiva al test delle urine, ma come detto, questo esito – proprio per la sua incapacità ad assolvere alla dimostrazione dell’attualità dello stato di intossicazione (presupposto irrinunciabile per la contestazione del reato di cui all’art. 187 CdS) – è rimasto dato sterile e neutro ai fini procedimentali.
Il Tribunale, inoltre, offre anche una indicazione pregevole, in relazione a quel dato probatorio soggettivo, costituito dalle percezioni de visu e de auditu, cui, spesso, le forze dell’ordine verbalizzanti attingono, per potere contestare all’interessato l’ipotesi di reato in questione e che viene evocato a supporto dell’esame dei liquidi biologici.
In primo luogo, si deve osservare che si fa, nei verbali dell’autorità giudiziaria, un uso smodato – ai limiti dell’abuso – della dizione “pupille dilatate, stato di agitazione, nervosismo ingiustificato”.
Or bene, alcune considerazioni permettono di sottolineare non solo la assoluta indeterminatezza di tali criteri soggettivi, ma anche la equivocità degli stessi, che divengono meri stereotipi.
Non dimentichiamo, infatti, il carattere esasperatamente soggettivo dei riferimenti richiamati, che appare costituire limite intrinseco alla valenza degli stessi.
Senza nulla togliere al principio del “fidei facere”, seppur fino a prova contraria – vera e propria presunzione juris tantum – che assiste l’attività operativa e di verbalizzazione delle forze dell’ordine, appare opportuno che la soggettiva percezione di chi interviene, cui si attribuisce valenza probatoria di riscontro o di presupposto, non si ammanti di genericità assoluta, ma offra, invece, elementi che contengano profili di maggiore potere individualizzante.
D’altronde., risulta piuttosto evidente il carattere spiccatamente equivoco dei parametri che nella fattispecie sono stati valorizzati.
Essi, infatti, ben si coniugano con una naturale reazione emotiva, propria di chi – non avvezzo a dinamiche giudiziarie – si trovi in una situazione del tutto inusuale e caratterizzata da concitazione, quale è quella di un controllo – in ora notturna – da parte delle forze dell’ordine.
Il Tribunale, dunque, conformandosi all’indirizzo illustrato dalla Suprema Corte (Sez. IV, 18 gennaio 2013, n. 2762) impone, al dedotto fine di conferire valore sintomatico ai dati cognitivi raccolti de visu et auditu dalle forze dell’ordine, un quid pluris che renda maggiormente effettiva e concreta la ipotizzata situazione di attuale alterazione da assunzione di sostanze stupefacenti.
Tale elemento valutativo ulteriore viene individuato esemplificativamente in alcun paradigmi che possono riassumersi, tra gli altri, in “manovre di guida pericolose o irragionevoli, loquacità eccessiva, linguaggio sconnesso, etc.”.
La conclusione cui si deve addivenire è, dunque, nel senso di potere affermare che
- la dimostrazione di una precedente assunzione di stupefacenti non coincide necessariamente con uno stato di intossicazione attuale, tale da integrare la violazione dell’art. 187 CdS.
Si tratta, quindi, di situazioni che possono verificarsi tra loro in modo differente ed indipendente; - la prova della sussistenza di uno stato di intossicazione, che configuri il reato di cui all’art. 187 CdS, può essere desunta in due modi
- attraverso lo specifico esame ematico, che, di per sé, è idoneo a superare qualsiasi dubbio,
- attraverso anche il solo esame dei liquidi biologici, purchè esso venga supportato da inequivoche rappresentazioni testimoniali, che si fondino su riferimenti individualizzanti, le quali risultino idonee a certificare l’attualità e la persistenza di effetti alterativi, propri di un’assunzione di stupefacenti recentissima.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento