Un altro “uno due”, per usare un termine pugilistico, della Suprema Cassazione in materia di coobbligazione solidale dei Centri di Assistenza Doganale.
E’ la seconda volta in pochi mesi, infatti (la prima, fu con sentenza della Sezione V, n. 9248 del 17/04/2013, anch’essa commentata dal sottoscritto), che i giudici intervengono sullo specifico punto ribadendo la posizione di coobbligato solidale “de iure” del Centro di Assistenza Doganale S.r.l. il quale, operando necessariamente quale rappresentante “indiretto” dell’importatore, presenta la relativa dichiarazione doganale “in nome proprio” e, pertanto, è obbligato principale ex art. 201 § 3 regolamento (CE) n. 2913/1992 nell’obbligazione erariale unitamente al soggetto per conto del quale la dichiarazione stessa viene presentata.
Gli ermellini hanno rigettato tutte le eccezioni mosse dalla pur valente difesa di parte avverso la sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale di Genova che, confermando quella emessa dal giudice di prime cure, aveva riconosciuto la legittimità degli atti emessi dall’Ufficio Dogane territoriale sancendo la corresponsabilità solidale nel tributo da parte del C.A.D. indipendentemente dalla presenza di una specifica prova, anche indiretta, di una sua eventuale condotta colposa.
Con l’occasione, i giudici di Cassazione riprendono anche la vexata quaestio dell’applicazione del principio di “buona fede” in caso di revisione a posteriori effettuate dalle autorità doganali a seguito dell’accertamento della falsità, materiale o ideologica, dei certificati presentati all’atto dell’importazione. Nel caso di specie, oggetto di accertamento non è stato (come sovente accade) un certificato di origine preferenziale FORM-A o EUR-1, ma un certificato di importazione AGRIM.
Il decidente, dopo aver rammentato che per l’applicazione dell’art. 220 n. 2 lett. b) C.D.C. è richiesto un esame approfondito sulla ricorrenza della buona fede che deve essere dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla norma perché resti impedito il recupero daziario (ossia: a. un errore imputabile alle autorità competenti; b. un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c. l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente), ha chiarito che la sentenza oggetto di ricorso correttamente non ha ravvisato alcun errore commesso in via autonoma dall’autorità doganale in quanto l’errore in cui questa era incorsa è stato determinato dalla falsità (scoperta, fra l’altro, in un momento successivo rispetto all’assoggettamento fiscale) del certificato AGRIM fornito alla predetta autorità.
In particolare, il collegio – correttamente – osserva che, in materia di tributi doganali, le Autorità doganali devono procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi doganali, a meno che sussistano contemporaneamente tutte le condizioni poste dall’art. 220 § 2 lett. b) C.D.C.. L’errore determinante ai fini della concessione del beneficio della non contabilizzazione non può consistere nella mera ricezione di dichiarazioni inesatte dell’esportatore, e ciò in quanto l’amministrazione doganale non deve verificarne o valutarne la veridicità, ma richiede un comportamento attivo, perché il legittimo affidamento del debitore è protetto solo se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la sua fiducia, mentre la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli di comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori. Inoltre l’esenzione prevista dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Codice doganale comunitario, che preclude la contabilizzazione a posteriori dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore, presuppone la genuinità del certificato di origine, cioè la sua regolarità formale e sostanziale.
Sul punto, i medesimi giudici si erano già in precedenza espressi (ex multis) con sentenza n. 3531 del 07/03/2012 riconoscendo che: “A norma dell’art. 220, n. 2, lett. b) CDC le autorità competenti non procedono alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione qualora l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana. Nel testo … la nozione di errore delle autorità doganali, che individua nel rilascio di un certificato che <si riveli inesatto> quando non si basi <su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore>, salvo che le autorità doganali <erano informate, o avrebbero dovuto ragionevolmente esserlo, che le merci non godevano del trattamento preferenziale>. In base al par. 4^, il debitore può invocare la buona fede qualora possa <dimostrare che, per tutta la durata delle operazioni doganali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale>. In base dell’Accordo di libero scambio CE – Lettonia, pubblicato nella GU L026 del 2.2.1998 (Protocollo 3) il carattere originario dei prodotti oggetto del libero scambio viene provato dal certificato di circolazione EUR.1, rilasciato dalle autorità doganali del paese esportatore <su richiesta scritta compilata dall’esportatore o, sotto la sua responsabilità, dal suo rappresentante autorizzato> (art. 16); nel contesto delle misure di cooperazione amministrativa, è previsto il controllo a posteriori dei certificati EUR.1, effettuato per sondaggio o, come nella specie, su richiesta dello Stato di importazione, dalle autorità doganali del paese di esportazione le quali, entro dieci mesi dalla richiesta, comunicano se i documenti sono autentici, se i prodotti possono essere considerati originari e se rispondono agli altri requisiti del protocollo (art. 30). La giurisprudenza comunitaria ha più volte precisato1 che la contabilizzazione a posteriori dei dazi è possibile solo quando sussistono, contemporaneamente, tutte le condizioni poste dalla norma, e cioè i dazi non devono esser riscossi se determinati da un errore delle autorità competenti, tale errore deve esser di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede, il quale, infine, deve aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana. Deve aggiungersi che il nuovo testo dell’art. 220 CDC si limita ad esplicare le nozioni di errore delle autorità doganali già contenute nella versione originaria dell’art. 220, quali precisate dalla giurisprudenza della Corte2. Ne consegue che, come più volte ritenuto da questa Corte3, la mancanza anche di uno solo dei citati presupposti, basta ad escludere il diritto del debitore a non vedersi assoggettato al dazio. L’errore della dogana, secondo il tenore letterale dell’art 220, n. 2 lett. b par. 3, del CDC, non può consistere nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce- dato che le autorità stesse non debbono verificarne o valutarne la veridicità, mentre resta integrato da un comportamento attivo, che secondo la casistica – poi codificata nella seconda parte del citato par. 3, della lett. b) della norma in esame – si basa su un’errata interpretazione delle norme in materia di origine4 o di erronea classificazione doganale, risultante dal raffronto tra la voce dichiarata e la designazione delle merci secondo la nomenclatura5. In altri termini, il legittimo affidamento del debitore è degno della protezione prevista dall’art. 220 del CDC soltanto se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la fiducia del debitore, diversamente, costui è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo, vigendo il principio secondo cui la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori.
Corte di Cassazione, Sezione V
Sentenza n. 13306 del 29/05/2013
R.G. 19439/2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
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ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 19439-2011 proposto da:
CAD ********** SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del Liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in **********, presso lo studio dell’avvocato **********, rappresentato e difeso dall’avvocato ********** giusta delega a margine;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE DOGANE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in **********, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
e contro
AGENZIA DELLE DOGANE UFFICIO DOGANE DI LA SPEZIA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 111/2010 della COMM.TRIB.REG. di GENOVA, depositata il 28/05/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/03/2013 dal Consigliere Dott. **********;
udito per il ricorrente l’Avvocato ********** che ha chiesto la cassazione della sentenza;
udito per il controricorrente l’Avvocato ********** che ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore ************************* che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO:
A seguito di notifica di avviso di rettifica dell’accertamento, emesso dall’Agenzia delle Dogane Direzione di La Spezia in data 21 marzo 2007, con il quale era stato ingiunto il pagamento alla società CAD ********** SRL della somma complessiva di Euro 62.400,00 per recupero a posteriori del dazio (più iva) relativo ad un’operazione di importazione di aglio di origine cinese in esenzione del dazio specifico, la società CAD ********** SRL (Centro di assistenza doganale) presentava ricorso alla Commissione Tributaria provinciale di La Spezia. In particolare la società, esercente attività di spedizioniere doganale nell’ambito dell’importazione di prodotti, contestava la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, l’insussistenza della responsabilità solidale dello spedizioniere doganale per il pagamento dei tributi doganali nonché l’illegittimità dell’atto impositivo per contrasto con la normativa comunitaria ed asseriva che non era tenuta al pagamento dei maggiori diritti doganali richiesti a seguito dell’accertamento in ordine alla falsità dei certificati AGRIM francesi presentati a corredo della dichiarazione di importazione al fine di beneficiare del contingente tariffario in quanto, oltre agli altri motivi, sussistevano le condizioni di cui all’art. 220 Reg.CEE 2913/92.
La Commissione tributaria provinciale di La Spezia con sentenza nr. 134/04/08 rigettava il ricorso e confermava l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società.
Su ricorso in appello proposto dalla società importatrice, la Commissione tributaria regionale della Liguria, con sentenza nr.19/3/10 depositata in data 28/5/2010,confermava la sentenza di primo grado. Avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della Liguria ha proposto ricorso per cassazione CAD ********** SRL IN LIQUIDAZIONE con dieci motivi ed ha resistito l’Agenzia delle Dogane con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria (con documenti oltre limite di cui all’art. 372 c.p.c. e pertanto inammissibili anche in relazione all’art. 378 c.p.c.).
MOTIVI DELLA DECISIONE:
Con il primo e secondo motivo di ricorso la ricorrente CAD ********** SRL IN LIQUIDAZIONE lamenta violazione e falsa applicazione del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 in quanto la sentenza non contiene, nemmeno succintamente, l’esposizione dei fatti che hanno generato la controversia e delle ragioni di diritto sulle quali è fondata la decisione.
I due motivi sono infondati e devono essere respinti. Infatti la sentenza impugnata risulta conforme al disposto del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 in tema di contenzioso tributario, – secondo cui la sentenza deve contenere, fra l’altro, la “concisa esposizione dello svolgimento del processo” e “la succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto” – ed infatti contiene il minimo indispensabile necessario a dar conto del rigetto dell’appello attraverso la concisa esposizione dei fatti rilevanti della causa, rendendo possibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo.
Con il terzo e quarto motivo di ricorso la ricorrente CAD ********** SRL IN LIQUIDAZIONE lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 76 ed art. 201, comma 3 e art. 202 del REG.CEE n.2913 del 12/10/1992 C.D.C., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 in quanto la CTR ha ritenuto legittima la responsabilità in solido della società ricorrente per il pagamento dei diritti doganali unitamente alla società importatrice.
Il motivo è infondato e deve essere respinto. Occorre premettere che i CAD (Centri di Assistenza Doganali) istituiti con D.M. Finanze n. 549 del 1992, sono società costituite tra spedizionieri doganali, abilitate ad emettere dichiarazioni doganali, in rappresentanza sia diretta che indiretta, previa l’acquisizione ed il controllo formale della documentazione fornita dal proprietario delle merci.
Successivamente, in attuazione della L. n. 213 del 2000, con decreto del 7/12/2000 sono state disciplinate le procedure autorizzatorie e le modalità di esercizio delle procedure semplificate di cui all’art. 76 del Reg.to CEE nr. 2913/92, nonchè il rilascio delle medesime ai CAD. Nel caso di specie, avendo il CAD ********** SRL IN LIQUIDAZIONE operato in procedura domiciliata, ha agito in regime di rappresentanza indiretta e deve essere considerato dichiarante ai sensi dell’art. 76 sopra citato:
risponde quindi in solido con l’importatore di tutte le obbligazioni tributarie che scaturiscono dalle operazioni doganali.
La spendita da parte del CAD del proprio nome in qualità di dichiarante ai sensi dell’art. 201 CDC fa sì che la sua responsabilità sia perfettamente solidale con quella del mandante (importatore proprietario delle merci) e che tale responsabilità possa, quindi, essere fatta valere, come nella normale attività negoziale privatistica, nei confronti di terzi, fra cui sono comprese, ovviamente, le Pubbliche Amministrazioni.
Infatti l’art. 201 del REG. CEE n. 2913 del 12/10/1992 stabilisce la solidarietà passiva dello spedizioniere doganale o di chiunque presenti la merce per conto di altri con il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria quando, come nella fattispecie, agisce nell’ambito della rappresentanza indiretta, diventando lui stesso dichiarante e dunque responsabile solidale con il rappresentato nell’obbligazione doganale.
Pertanto appare del tutto giustificato ritenere nella fattispecie lo spedizioniere doganale professionale responsabile in solido con il debitore per il pagamento della pretesa erariale, come già più volte affermato da questa Corte, in quanto “In tema di tributi doganali, lo spedizioniere che abbia presentato merci in dogana per conto terzi, ma in nome proprio, beneficiando dell’ammissione alla procedura semplificata di cui alla L. n. 374 del 1990, art. 12, risponde, ai sensi dell’artt. 12 cit. e degli artt. 201 e 202 del Regolamento CEE n. 2913/92 (Codice doganale comunitario), in via solidale con il soggetto per conto del quale la merce medesima è stata presentata in dogana, di tutti i dazi, le imposte e gli accessori dovuti, a qualsiasi titolo, in relazione all’operazione commerciale, compresi gli interessi relativi, essendo tale figura di rappresentante indiretto, anche per la sua preparazione professionale, in grado di valutare la veridicità dei documenti trasmessigli, e dunque consapevole dell’irregolarità dell’introduzione delle merci nel territorio della Comunità (nella specie, dovuta a certificati d’origine poi accertati come contraffatti)” (Sez. 5, Sentenza n. 9773 del 23/04/2010, vedi anche V sez. nr. 1574 del 3/2/2012 e Sez. 5, Sentenza n. 3285 del 02/03/2012 secondo la quale “In tema di diritti doganali, il rappresentante fiscale ai fini dell’I.V.A. all’importazione, oltre ad essere coobbligato per gli obblighi derivanti dall’applicazione delle norme D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ex art. 17, comma 2, può rispondere in solido con il rappresentato anche per il pagamento dell’imposta doganale, quando risulti essersi oggettivamente ingerito nel perfezionamento dell’operazione di importazione, atteso che, a norma dell’art. 201, comma 3, del Regolamento CEE 2193/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992, quando una dichiarazione è resa in base a dati che determinano la mancata riscossione totale o parziale dei dazi dovuti per legge, le persone che hanno fornito i dati necessari alla stesura della dichiarazione e che erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza della erroneità possono essere parimenti considerati debitori conformemente alle vigenti disposizioni doganali, e che, in linea con la regolamentazione comunitaria, il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 38 vincola all’obbligazione tributaria tutti coloro comunque ingeritisi nell’operazione.
Con il quinto e sesto motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto non risulta rispettato il termine di 60 giorni tra la notifica del processo verbale e l’atto di accertamento.
Il motivo è infondato e deve essere respinto. Infatti la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12 esplicitamente si riferisce al comma 1 alle ipotesi di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriale ed agricole e pertanto il comma 7 che prevede il termine di 60 giorni non può che essere inteso nel senso che detto termine decorre dalla data di rilascio di una copia del processo verbale di chiusura delle operazioni di accesso, ispezione o verifica come indicate all’art. 12, comma 1 sopra riportato (Cass. 16354/2012).
In ogni caso è necessario precisare che l’inosservanza del termine fissato dalla L. n. 212 del 2002, art. 12, comma 7, non costituisce violazione dello Statuto del contribuente in materia doganale per i motivi già indicati da questa Corte in Cass. Sez. 5, n. 13890 del 28/05/2008 secondo la quale: “In materia di accertamento di tributi doganali, non costituisce violazione dello Statuto dei diritti del contribuente l’emissione dell’avviso di accertamento suppletivo prima della scadenza del termine di sessanta giorni previsto dalla L. 27 luglio 2002, n. 212, art. 12, comma 7, per la presentazione di osservazioni e richieste dopo il rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte dell’organo impositore. Ed infatti, da un lato la normativa sul riordino degli istituti doganali di cui al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374 prevede, nell’ambito del procedimento di revisione dell’accertamento, la possibilità di procedere a verifiche fiscali richiamando i poteri di accesso, ispezione e verifica in tema di IVA (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52), per cui, qualora l’Amministrazione si avvalga di tale strumento istruttorie, può scattare a favore del contribuente sottoposto a dette indagini il meccanismo delle garanzie previste dalla citata norma. Dall’altro lato, qualora (come nel caso di specie), l’Amministrazione non si avvalga di tale mezzo istruttorie, già il sistema doganale appresta una serie di garanzie peculiari per il contribuente, prevedendo la contestazione amministrativa, e la compilazione di un apposito verbale per raccogliere le osservazioni ed i motivi di reclamo del contribuente ai fini dell’eventuale controversia doganale, quali la possibilità di presentare osservazioni, di talchè il sistema complessivo previsto dal D. Lgs. n. 374 del 1990 è pienamente rispettoso dei criteri dettati dallo Statuto del contribuente in virtù del principio di leale collaborazione tra Amministrazione e contribuente”.
Con il settimo ed ottavo motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 e L. n. 212 del 2000, art. 7 nonché D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la CTR in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ha omesso di ravvisare il difetto di motivazione dell’atto impositivo per cui è causa non essendo stato comunicato al contribuente il rapporto OLAF né alcun altro documento dal quale emergerebbe l’invalidità dei certificati AGRIM. Il motivo è infondato. Questa Corte, infatti, ha più volte affermato che in tema di recupero dei diritti doganali, l’atto impositivo, ai sensi del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, artt. 81 e 82, è congruamente motivato con la sola indicazione della causale e della somma richiesta. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto congruamente motivato un avviso di rettifica della dichiarazione doganale che indicava quale causale le falsità dei certificati di importazione utilizzati ai fini della dichiarazione doganale ed il ruolo assunto dal destinatario nell’operazione doganale medesima, Sez. 5, Sentenza n. 1574 del 03/02/2012).
Deve infine essere rigettato il nono e decimo motivo di ricorso relativo alla violazione dell’art. 112 c.p.c. in riferimento alla omessa motivazione sui punti controversi e decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in quanto la CTR ha ignorato le ragioni ed i fatti lamentati nel ricorso in appello e non ha spiegato perchè gli elementi addotti dalla ricorrente non potessero ritenersi idonei e decisivi ai fini dell’applicabilità dell’esimente della buona fede ex art. 220, comma 2, lett. b) e art. 239 Reg. CE 2913/1992.
In ordine alla violazione e falsa applicazione dell’art. 220 CDC occorre premettere che “in tema di imposizione fiscale delle importazioni, l’esenzione prevista dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Reg. CEE n. 2913 del 1992 (cosiddetto Codice doganale comunitario), che preclude la contabilizzazione a posteriori dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore, intende tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare o meno i dazi. Per essere applicata, essa richiede un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buona fede che deve essere dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla norma perché resti impedito il recupero daziario, ed in particolare:
a) un errore imputabile alle autorità competenti;
b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore;
c) l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente. (Sez. 5, Sentenza n. 15297 del 10/06/2008).
A tale proposito la sentenza della CTR esattamente non ha ravvisato nella fattispecie un errore commesso in via autonoma dalle Autorità Doganali locali in quanto, nel caso in esame, l’errore è stato indotto dalla falsità (scoperta in un momento successivo all’assoggettamento daziario) del certificato Agrim fornito alle predette autorità, della cui regolarità resta comunque responsabile l’importatore, nel caso in cui se ne accerti la mancata corrispondenza al vero del contenuto.
Al fine di meglio comprendere la vicenda in esame occorre premettere che la società ricorrente aveva presentato, in qualità di spedizioniere presso la Dogana di La Spezia in nome proprio e per conto della società importatrice, una dichiarazione per l’importazione definitiva di aglio di origine cinese, nonché il certificato AGRIM attestante il diritto al trattamento daziario beneficiato previsto a favore dei paesi meno sviluppati ex art. 9 comma 1 Reg. CE 2501/2001.
Successivamente alla pubblicazione di un avviso agli importatori in ordine all’apertura di un’inchiesta relativa ad un ragionevole dubbio sulla genuinità dei certificati, il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria aveva avviato un’indagine nel mese di marzo 2005 e redatto processo verbale di constatazione dal quale risultava la falsità dei certificati Agrim nonché venivano avviate le procedure di emissione di diversi avvisi di accertamento suppletivi e di rettifica per la riscossione dei maggiori diritti doganali dovuti a seguito della falsità dei certificati di origine. Successivamente, in considerazione delle risultanze delle missioni OLAF nel quadro delle indagini effettuate dal 15/1 al 26/1/07 sulle frodi all’importazione nell’Unione Europea, veniva definitivamente stabilito, per una serie di operazioni di importazione, che i certificati di origine erano falsi. Nella successione di eventi sopra delineata si innesta la vicenda in esame e la notifica di avviso di rettifica dell’accertamento, emesso dall’Agenzia delle Dogane Direzione di La Spezia, con il quale era stato ingiunto il pagamento dei maggiori diritti doganali per recupero a posteriori del dazio più iva.
Osserva altresì il collegio che, in tema di tributi doganali, le Autorità doganali devono procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi doganali, a meno che sussistano contemporaneamente tutte le condizioni poste dall’art. 220, n. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913/1992 del Consiglio del 12 ottobre 1992, come sopra richiamate; in particolare, detto errore non può consistere nella mera ricezione di dichiarazioni inesatte dell’esportatore, dato che l’Amministrazione non deve verificarne o valutarne la veridicità, ma richiede un comportamento attivo, perché il legittimo affidamento del debitore è protetto solo se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la sua fiducia, mentre la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli di comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (Cass. 2012/4022). Inoltre l’esenzione prevista dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Codice doganale comunitario, che preclude la contabilizzazione a posteriori dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore, presuppone la genuinità del certificato di origine, cioè la sua regolarità formale e sostanziale. Di conseguenza spetta all’importatore che intende usufruire dell’esenzione dimostrare l’origine della merce che importa e, in ogni caso, il suo stato soggettivo di buona fede, mediante la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla citata norma, mentre all’Autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di dare dimostrazione delle irregolarità delle certificazioni presentate, atteso che qualsiasi certificato che risulti inesatto autorizza il recupero a posteriori, senza necessità di alcun procedimento intermedio che convalidi la non autenticità, provvedendo gli stessi organi dell’esecutivo comunitario a fornire tramite le disposte commissioni di inchiesta le conclusioni cui debbono attenersi le Autorità nazionali (Cass. 2009/13680).
In riferimento poi alla violazione e falsa applicazione dell’art. 239 cdc, denunciata nel decimo motivo di ricorso, per non avere la CTR ritenuto sussistere le condizioni di applicabilità della clausola di equità sancita dall’art. 239 cdc relativamente al rimborso o allo sgravio dei dazi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, occorre precisare che, in ordine alle condizioni di applicabilità dell’art. 239 cdc (che costituisce una clausola generale di equità a norma della quale il debitore ha diritto al rimborso od allo sgravio dei dazi quando, come nel caso di specie, la violazione contestata non deriva dalla volontà e dalla mancata diligenza dell’interessato), è sufficiente richiamare l’inesistenza dell’obbligo del giudice di motivare in ordine ad ogni singola eccezione dell’appellante, specie ove il richiamo a norme di legge appare generico e non supportato, come nel caso in esame, da adeguato apparato probatorio idoneo a comprovare le circostanze di fatto richieste dalla norma per la sua concreta applicazione, considerato anche che lo sgravio ex art. 239 CDC è atto assolutamente discrezionale di natura politico- amministrativa e pertanto il ricorrente non può dolersi di non averne usufruito (vedi a tal riguardo Cass. Sez. unite 15381/2002).
Per quanto sopra il ricorso proposto è infondato e deve essere respinto con condanna alle spese della società ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso proposto e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano in Euro 10.000,00 oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione 5 civile, il 25 marzo 2013.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2013
1 C.G.C.E. sentenza del 03/03/2005 in causa C-499/03, punto 46 ************************** GmbH; ********, sentenza del 14/05/1996 in causa C-I53/94 e C-204/94, punto 84, Faroe Seafood; C.G.C.E. sentenza del 11/10/2001 in causa C-30/00, punto 68, ************** & Sons; C.G.C.E. sentenza del 01/03/1993 in causa C – 250/91, punto 12 **********************
2 C.G.C.E. sentenza del 09/03/2006 in causa C – 293/04 punto 22, ************
3 Corte Cass., Sezioni Unite, n. 18190/2008; Corte Cass., n. 13680/2009; Corte Cass., n. 7837/2010.
4 C.G.C.E. sentenza del 14/11/2002 in causa C-251/00, Ilumitronica, punti 44 e 45.
5 C.G.C.E. sentenza del 01/04/1993 in causa C-250/91, punto 21, ******à **********************
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