Massima |
In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo. |
1. La questione
Il lavoratore, dipendente di una S.p.A. con la qualifica di quadro, adiva il Tribunale di Milano chiedendo l’annullamento del licenziamento in tronco a lui intimato dalla società il 19.3.2004 con le conseguenzali statuizioni ex art. 18 Stat. Lav. nonché l’accertamento della dequalificazione e del mobbing subito con condanna della società al risarcimento del danno biologico, esistenziale, professionale e morale. Il Tribunale separava le domande e, con sentenza n. 2791/2007, dichiarava inammissibile quella relativa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per la posizione assunta dal lavoratore nel giudizio ex art. 28 Stat. Lav. instaurato dal Sindacato (OMISSIS), del quale egli era dirigente e rappresentante sindacale, inteso all’accertamento della natura antisindacale – discriminatoria del licenziamento a lui irrogato, giudizio nel quale il lavoratore, secondo il Tribunale, non si era limitato a sostenere le ragioni del sindacato ma aveva proposto una vera e propria azione individuale autonoma.
Con successiva sentenza n. 3008/2007 il Tribunale rigettava anche la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione e mobbing. Avverso entrambe dette decisioni il lavoratore interponeva distinti gravami; la Corte di Appello di Milano, dopo averli riuniti, riformava la decisione n. 2791/2007 dichiarando legittimo il licenziamento sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo confermava la sentenza n. 3008/2007.
Ad avviso della Corte di merito, per quello che qui interessa, la domanda intesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento era ammissibile in quanto il lavoratore, nel giudizio ex art. 28 Stat. Lav. (conclusosi con il rigetto della domanda non essendo stato ritenuto il comportamento della società antisindacale) aveva spiegato intervento adesivo concludendo per l’accoglimento del ricorso proposto dalla segreteria del sindacato, ma dichiarando espressamente di volersi riservare l’azione individuale. Quindi, la successiva autonoma impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore era ammissibile a ciò non essendo di ostacolo l’identità dei fatti dedotti che ben potevano essere valutati a fini diversi in relazione ad una domanda con un diverso titolo ed un oggetto solo in parte coincidente con quello del precedente giudizio ex art. 28 Stat. Lav.
Ciò chiarito, la Corte territoriale riteneva legittimo il recesso intimato al lavoratore per essersi appropriato dell’indirizzario intero della società resistente con la sua password di accesso installandolo sul computer del Sindacato (OMISSIS) e, quindi, utilizzandolo per invio di e-mail, fatto questo qualificato nella lettera di licenziamento come ultimo grave episodio che si inseriva in “un comportamento tenuto per anni, caratterizzato da una costante radicale contrapposizione nei confronti della Direzione aziendale”. In particolare, secondo la Corte lo specifico fatto contestato, pur non potendo costituire una giusta causa di recesso in tronco, tuttavia, inserito in una situazione sempre più difficile espressamente richiamata nella missiva di licenziamento oltre che emergente dalle risultanze documentali agli atti, integrava un giustificato motivo soggettivo di recesso. Con la conseguenza che il rapporto di lavoro doveva considerarsi cessato solo allo scadere del preavviso.
Avverso tale sentenza il lavoratore propone ricorso per cassazione e la Società resiste e proponendo, a sua volta, ricorso incidentale.
La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi e rigetta sia quello principale che quello incidentale compensando le spese.
2. Licenziamento disciplinare è licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo?
In materia di licenziamento per ragioni disciplinari, anche quando la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice investito dell’impugnativa della legittimità del licenziamento deve comunque verificare l’effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore (Cass. Civ., Sez. lav., 26 giugno 2013, n. 16095). La giurisprudenza di legittimità ha oramai ben delineato i criteri sui quali deve fondarsi il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e sanzione inflitta dal datore di lavoro, indicando quali debbano essere gli elementi valutativi che il giudice di merito deve tenere in considerazione nell’ambito della formazione del proprio convincimento.In particolare, ai fini del giudizio di proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Il giudice del merito, quindi, deve valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro. (Cass. Civ., Sez. lav., 26 luglio 2010, n. 17514). A tal fine deve essere assegnato preminente rilievo alla configurazione che della mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua durata ed all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia.(Cass. Civ., Sez. lav., 22 giugno 2009, n. 14586).
La giurisprudenza di merito, chiamata a valutare la concreta sussistenza degli elementi idonei ad invocare il giustificato motivo soggettivo, ha correttamente sostenuto che la valutazione dei suddetti elementi deve essere effettuata tenuto conto del notevole inadempimento contrattuale ma non può prescindere – stante la natura disciplinare del recesso – dalla necessaria verifica della proporzionalità della irrogata sanzione. (ex multis, Corte Appello di Roma, Sez. lav., 24 aprile 2013, n. 2022).
Nel caso concreto, i giudici di merito hanno reputato che il comportamento tenuto dal lavoratore – consistito nell’avere estratto un indirizzario interno (contenente tutti gli indirizzi di dipendenti e collaboratori) ad uso aziendale al quale potevano accedere tutti i dipendenti della società resistente, nell’averlo averlo trasferito sul pc del sindacato del quale egli stesso era dirigente e rappresentante sindacale ed averlo utilizzato per l’invio di alcune e-mail, con volantini allegati, contenenti critiche verso la direzione aziendale – integrasse non solo una condotta rilevante dal punto di vista disciplinare, ma anche sintomatica di una crescente insofferenza del lavoratore rispetto alle indicazioni dei vertici aziendali. Tali fatti addebitati al lavoratore sono stati valutati di una gravità tale da integrare un giustificato motivo soggettivo di recesso.
D’altra parte, è pacifico per la giurisprudenza di legittimità che in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli atomisticamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutare complessivamente la loro incidenza sul rapporto di lavoro (Cass. Civ., Sez. lav., 27 gennaio 2009, n. 1890). Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Milano aveva operato una effettiva valutazione dei fatti concreti, avvalendosi anchedelle risultanze emersein sede di giudizio penale, tenendone conto soprattutto riguardo la loro incidenza sul rapporto fiduciario che lega lavoratore e datore di lavoro. Aveva concluso per la legittimità del licenziamento atteso che il fatto contestato al lavoratore – impossessamento e divulgazione dell’indirizzario aziendale – costituiva l’ultimo di una serie di episodi che denotavano da diverso tempo una contrapposizione del lavoratore alla direzione aziendale. La Corte di Cassazione, alla luce del consolidato orientamento secondo cui il giudizio di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata, non è entrata nel merito della questione, ma ha valutato esclusivamente la correttezza e la coerenza dell’iter logico giuridico seguito dai giudici di merito che li aveva portati a concludere per la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo di recesso. Ed ha reputato tale conclusione sorretta da motivazione immune da carenze e contraddizioni.
In conclusione, la Corte di Cassazione ribadisce ancora una volta che il criterio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e sanzione inflitta dal datore di lavoro deve essere posto alla base dell’analisi del giudice di merito cui spetta valutare l’incidenza e la rilevanza di tutti gli elementi dedotti in giudizio. Resta il dubbio che, in assenza di una chiave di lettura uniforme circa le modalità di valutazione di tali elementi, i giudici di merito pervengano, rispetto a fattispecie analoghe, a conclusioni disomogenee.
Avv. Giuliana Sangiorgi
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento