Il codice civile, nato nel 1942, detta una completa e sufficiente – seppur stringata – disciplina in materia di usucapione delle servitù prediali, con norme rimaste immutate nel tempo;
ciò nonostante, la Corte di Cassazione, chiamata regolarmente a pronunciarsi in materia, è costretta ogni volta a ripetere i medesimi principi che regolano l’acquisto per usucapione delle servitù di passaggio: segno evidente che le parti, o talvolta pure i giudici di merito, hanno difficoltà a comprendere appieno tale disciplina, confondendola con la ben diversa tutela possessoria.
Nella pratica quotidiana infatti, quando due parti controvertono in ordine all’esistenza di un diritto di passaggio (che, ovviamente, non sia stato costituito per atto pubblico od in virtù di una sentenza), è frequente che il proprietario del fondo gravato reagisca impedendo tout court l’esercizio dell’affermato diritto altrui, a suo avviso inesistente, apponendo una recinzione a tutela della sua proprietà;
così commettendo – però – uno spoglio e provocando, di regola, il ricorso del vicino all’azione di reintegrazione, offerta – a difesa del possesso – dall’art. 1168 del codice civile.
Senonché l’esito dell’azione di reintegrazione è prevedibilissimo, e nefasto per il proprietario del fondo c.d. servente, in quanto tale azione cautelare:
– non presuppone l’esistenza (e nemmeno il fumus) di un vero e proprio diritto in capo al possessore spogliato, essendo condizione sufficiente l’esercizio di un potere di fatto corrispondente in astratto al diritto di passaggio, e perfino un possesso abusivo;
– non consente al proprietario del fondo asseritamente servente di addurre, a difesa del proprio operato, la perfetta illegittimità del passaggio altrui (a meno che essa non sia stata accertata in giudizio), in quanto il codice civile subordina la proponibilità di ogni azione “petitoria” alla previa definizione dell’azione di reintegrazione, ed alla esecuzione del relativo provvedimento;
– richiede soltanto l’agevole prova, normalmente offerta a mezzo di testimoni, che vi siano stati atti di esercizio del passaggio, e che essi non siano anteriori di oltre un anno rispetto allo spoglio;
– si risolve normalmente in una plateale sconfitta del proprietario del fondo (asseritamente) servente, che dovrà rimuovere immediatamente le opere eseguite (con una spesa che si aggiunge a quella, inutile, già sostenuta per realizzarle), rifondere le spese del giudizio al vicino, pagare il proprio difensore e – quasi certamente – curarsi il fegato:
subendo uno smacco così cocente e penoso da indurlo, in più delle volte, a rassegnarsi al passaggio altrui, ponendo così le basi per una futura usucapione del corrispondente diritto.
Il proprietario del fondo “servente” dovrebbe, viceversa, guardarsi bene dal farsi giustizia da sé, e convenire in giudizio il vicino instaurando una “negatoria servitutis”: un’azione di merito, appunto, tendente a far dichiarare l’inesistenza della asserita servitù; lasciando al vicino l’onere probatorio di dimostrare (sia che si difenda semplicemente dalla “negatoria”, sia che proponga in via riconvenzionale una confessoria servitutis) di aver acquistato una servitù di passaggio.
Salvo il caso in cui una servitù di passaggio risulti costituita per atto scritto (forma indispensabile ai sensi dell’art. 1350 n. 4 cod. civ.), il vicino dedurrà normalmente di aver acquistato il diritto per effetto dell’usucapione, in virtù dell’art. 1158 del cod. civ., secondo il quale: “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per vent’anni”.
E’ importante evidenziare che una siffatta servitù ben può essere opposta anche all’attuale proprietario, che sia perfettamente ignaro della situazione di fatto tollerata da un precedente proprietario;
e che l’ultimo proprietario – al limite – potrà agire contro il proprio dante causa che gli abbia taciuto la situazione (ovvero abbia dichiarato, nell’atto di compravendita, la piena libertà dell’immobile), ma non certo sottrarsi alle conseguenze della usucapione, verificatasi magari moltissimi anni prima.
Tuttavia, mentre l’azione possessoria non richiede particolare abilità difensiva, nè implica questioni giuridiche di particolare rilevanza, e garantisce quindi una facile vittoria anche al più provinciale ed impreparato dei difensori, l’azione petitoria tendente al riconoscimento della usucapione di una servitù di passaggio richiede una difesa accurata ed uno studio approfondito.
Consapevole della estrema gravità del “peso” costituito da una servitù di passaggio, e dei rischi legati alla facilità di provare (anche falsamente) per testimoni l’esistenza del possesso (anche grazie alla presunzione di possesso intermedio di cui all’art. 1142 cod.civ.), il codice del 1942 si preoccupò infatti di precisare, con l’art. 1061 del cod.civ., che “Le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione o per destinazione del padre di famiglia. Non apparenti sono le servitù quando non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio”.
Non basta – in altri termini – la utilizzazione parziale di un fondo, da parte del vicino, per integrare un possesso utile all’usucapione di una servitù: ciò perchè – innanzitutto – è frequentissimo il caso che una tale utilizzazione discende dai normali rapporti di vicinato, ossia di quella amichevole “tolleranza” che l’art. 1144 cod. civ. esclude quale fondamento del possesso:
“(…) con la costituzione del diritto reale, si va incontro a bisogni o si realizzano utilità a cui sopperiscono talora anche senza convenzione i normali e reciproci rapporti di buon vicinato: ciò che si impedirebbe a un estraneo non si nega al vicino, tanto più in quanto gli si dovranno chiedere eventualmente analoghi servigi.
“Sorge, dunque, il sospetto o il dubbio che certe utilizzazioni parziali d’un fondo a favore d’un altro debbano considerarsi, invece che come possesso di un diritto di servitù, come atto o serie di atti tollerati jure familiaritatis: quanto meno appariscono come atti clandestini, ambigui ed equivoci.
“Per eliminare questo dubbio, il legislatore esige espressamente la presenza di opere visibili e permanenti destinate all’esercizio della servitù” (Giuseppe Branca, Servitù prediali, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1987, p. 307).
L’acquisto di un diritto per usucapione presuppone, invece, una protratta acquiescenza del titolare ad una situazione suscettibile di far sorgere un altrui diritto reale a proprio danno; e poiché non può configurarsi acquiescenza ove non vi sia consapevolezza, il codice civile richiede, per tutto il periodo necessario al compimento dell’usucapione:
– che vi siano opere visibili, essendo la visibilità delle opere condizione indispensabile per porre il proprietario del fondo servente in grado di rendersi conto della possibile costituzione di una servitù;
– che tali opere siano inequivocamente destinate all’esercizio della servitù, inutili essendo – a tal fine – opere che possano intendersi come destinate all’utilizzo da parte del proprietario del fondo asseritamente servente.
La giurisprudenza e la dottrina hanno pertanto, concordemente, chiarito che tali opere debbono:
– essere visibili e permanere per tutto il tempo necessario al compimento dell’usucapione;
– essere idonee, per struttura e funzione, a rendere manifesto l’esercizio di un potere corrispondente ad una servitù;
– avere, infine, una evidente ed inequivoca destinazione all’esercizio del potere corrispondente alla servitù.
In giurisprudenza, si vedano ex multis:
– la motivazione di Cass. 10/03/2011 n. 5733: “non è al riguardo sufficiente l’esistenza di una strada o di un percorso idonei allo scopo, essenziale viceversa essendo che essi mostrino di essere stati posti in essere al preciso fine di dare accesso attraverso il fondo preteso servente a quello preteso dominante e, pertanto, un quid pluris che dimostri la loro specifica destinazione all’esercizio della servitù” e le sentenze ivi menzionate (Cass., 11 febbraio 2009, n. 3389 Cass., 10 luglio 2007, n. 15447; Cass., 28 settembre 2006, n. 21087; Cass., 17 febbraio 2004, n. 2994);
– Cass. 27/04/2004, n. 8039: “Va confermata la decisione di merito che abbia escluso la configurabilità di una servitù apparente di passaggio, qualora i tracciati utilizzati dal proprietario del fondo confinante dovevano ritenersi funzionali alle esigenze del fondo che attraversano e, comunque, non erano destinati in modo inequivocabile alla sola utilità del fondo altrui.”;
– Cass. 14/01/1997 n. 277 (motivazione): “Sia ai fini dell’acquisto per usucapione, sia ai fini dell’acquisto per destinazione del padre di famiglia, l’art. 1061 c.c. esige espressamente la presenza di opere visibili e permanenti aventi un carattere strumentale nell’esercizio della servitù: la permanenza dell’opera vale a render palese che non si tratta di un’attività compiuta a titolo precario e senza l’animus possidendi, ma di un onere preciso, di natura stabile, e, perciò, corrispondente in via di fatto a una vera servitù; la visibilità poi deve poter mettere in evidenza, dinanzi a chiunque e senza possibilità di equivoco sulla destinazione, la presenza di una modificazione esteriore, rivolta appunto a determinare il vincolo di asservimento dell’uno dei fondi all’altro.”;
– Cass. 09/02/1995, n. 1456: “Il requisito dell’apparenza, necessario, ai sensi dell’art. 1061 c.c., per l’acquisto della servitù per usucapione e per destinazione del padre di famiglia non si esaurisce nella presenza di segni od opere che ne consentono l’esercizio ma richiede anche la manifesta destinazione delle stesse per l’esercizio della servitù, in modo che i segni o le opere, nel contesto in cui si collocano, costituiscono un inequivoco indice del peso imposto al fondo vicino. Tale esigenza, nel caso in cui si tratta di opere che ricadono interamente nel fondo servente, al quale servono o possono servire, implica quella della presenza di un segno di raccordo (non necessariamente fisico ma) almeno funzionale dell’opera con il fondo dominante in modo che risulti con chiarezza che l’opera è anche in funzione della utilità di questo.”;
– Cass. 07/08/1992 n. 9371: “Non è la “entità” delle opere che rileva ma le opere in quanto segno inequivoco della loro destinazione ad una determinata servitù. Ed è segno oggettivo che non si può mutuare da una prova per testimoni. A norma dell’art. 1061 c.c. le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione (o per destinazione del padre di famiglia) e non apparenti sono le servitù quando non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro servizio.
È necessario, per il requisito dell’apparenza, che esista una situazione di fatto la quale “inequivocabilmente” riveli per struttura e consistenza l’onere gravante su un fondo a vantaggio di un altro ancorché l’apparenza non debba estendersi in ogni caso all’opera nel suo complesso (cfr. tra le tante, Cass. 23.1.1959 n. 181; 3.4.1959 n. 998; 6.8.1962 n. 2398; 10.2.1984 n. 1028; 24.4.1990 n. 3441)”;
– Cass. 07/05/1984 n. 2768: “Il requisito dell’ apparenza, che condiziona l’usucapibilità di una servitù, non consiste soltanto nell’ esistenza di segni visibili e di opere permanenti, ma richiede altresì che queste, come mezzo necessario all’ esercizio della servitù medesima, siano, in pari tempo, un indice non equivoco del peso imposto al fondo servente, in guisa da fondare la presunzione che il proprietario di questo ne sia a conoscenza”.
In dottrina si vedano:
– Giuseppe Branca, op. cit.:: “(…) il codice vigente consacra l’interpretazione di gran lunga prevalente, per la quale non si può dire che basti la presenza di segni visibili (…) ma è necessario che essi abbiano un carattere, per così dire, funzionale e strumentale:
e cioè che si concretino in opere dirette ad esercitare la servitù e per la cui interpretazione non si renda necessario l’intervento di periti, o la presenza delle quali, quanto meno, faccia sorgere in qualunque osservatore il legittimo sospetto dell’onere che grava su un fondo”.
– Giuseppe Grosso e Giammaria Deiana, in Servitù prediali in Trattato di diritto civile, a cura di F. Vassalli, V, Torino 1963, pag. 310 e segg.: “La destinazione dell’opera all’esercizio della servitù deve importare che in modo non equivoco tale opera realizzi l’esercizio della servitù o almeno vi sia strumentale: il requisito della visibilità riguarda anche questa strumentalità; occorre cioè che questa sia evidente.”
“(…) il criterio può essere fissato con una certa precisione: l’equivocità, il fatto che l’opera possa essere interpretata come rivolta a scopi diversi, così che non risulti decisamente la sua strumentalità all’esercizio della servitù, esclude l’apparenza della servitù. Così, per es., una strada o un sentiero sarà elemento di apparenza di una servitù di passaggio in quanto il collegamento mostri chiaramente che esso serve per il passaggio a quel dato fondo, così che non lo si possa intendere puramente come un sentiero che serva per l’uso del fondo a cui appartiene; analogamente, per l’apparenza di una servitù di passaggio su una strada privata occorreranno opere permanenti e visibili strumentali a tale passaggio (…).
“In proposito si è messo in risalto che l’apparenza deve sussistere erga omnes, che non basta che essa sia relativa a dati soggetti, che quindi non può dipendere dalle circostanze in cui l’opera è stata costruita nè dal fatto che quelle circostanze siano palesi per il proprietario; tutto ciò si riassume nel rilievo che l’apparenza forma una qualità obbiettiva della servitù stessa, e deve essere inerente alla strumentalità dell’opera con cui si esplica. (…)”.
E’ appunto la necessità dell’apparenza, nonostante le dette norme siano rimaste immutate sin dalla promulgazione del codice civile del 1942, che la Corte di Cassazione, con incredibile regolarità, è costretta ancor oggi a dover ricordare a parti, avvocati o giudici, che reclamano (o affermano) la usucapione di servitù prediali con leggerezza e faciloneria.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento