Ancora una volta la Corte Costituzionale è stata chiamata, nel caso specifico dal Tribunale di Nocera Inferiore con ordinanza depositata il 24 marzo 2011, iscritta al n. 59 del registro ordinanze dell’anno 2013, in cui ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, ed al canone della ragionevolezza intrinseca riconducibile all’art. 3, secondo comma della Costituzione, degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato), a dirimere l’annosa vicenda della compatibilità tra la professione di avvocato e lo svolgimento di lavoro pubblico anche solo part-time.
Il precitato Tribunale, ed anche la Corte di Cassazione SS.UU. ( ordinanza n. 24689 del 6 dicembre 2010) ha dedotto nel suo rinvio che la normativa, e le disposizioni in materia, violerebbero, oltre agli articoli della Costituzione anzi citati, più principi e motivi di ordine generale.
Innanzitutto, secondo le precitate Corti, si violerebbe il principio della ragionevolezza intrinseca radicato nell’art. 3, secondo comma della Costituzione Italiana, perché si costringerebbe il professionista/dipendente pubblico a rinunciare al mantenimento nel tempo alla condizione di avvocato part-time maturato da tutti i dipendenti pubblici che si sono avvalsi da parecchio tempo della possibilità di mantenimento di entrambi le attività in quanto prevista dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), peraltro già reputata costituzionalmente legittima attraverso una propria sentenza, la n. 189 del 2001.
Di poi, una dicotomia, così accertata, sconvolgerebbe quella consolidata situazione giuridica radicatasi in capo a quei professionisti che avevano realizzato, in forza del regime legislativo previgente, investimenti intellettuali ed economici per l’avvio della nuova attività professionale, oltre a sobbarcarsi di pesanti mutamenti della propria impostazione di vita, al prezzo di inevitabili rinunce per il miglioramento delle prospettive di carriera nell’ambito della pubblica amministrazione in cui inseriti, anche se solo in modalità part-time.
Infine la probabile lesione di tutta una serie di consolidate aspettative e di affidamento nel valore costituzionalmente protetto della certezza del diritto e della sicurezza giuridica, che le previste misure non sarebbero palesemente inidonee a salvaguardare a causa della limitata durata nel tempo, peraltro in ambiti di rilevanza costituzionale come quelli del lavoro e della libera iniziativa imprenditoriale.
Bisogna però dire che la Corte Costituzionale già in passato aveva frantumato simili elementi di tutela di un “diritto acquisito” con le sentenze sentenze n. 166 del 2012 e n. 390 del 2006 dichiarando non fondate le questioni sostanzialmente sovrapponibili di denunciata violazione degli artt. 4 e 35 e 41 della Costituzione, poiché i primi due articoli, nel garantire il diritto al lavoro, ne affidano l’attuazione per modalità e tempi alla discrezionalità del legislatore, che nella specie verrebbe però esercitata in modo non irragionevole e dell’ultimo perché non viene nella fattispecie in rilievo un’attività economica, ma una modalità di espletamento di un servizio presso enti pubblici ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione della prestazione di lavoro pubblico in termini rispettosi dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione ai sensi dell’art. 97 della medesima Costituzione, nonché ad un corretto esercizio della professione forense, secondo i dettami dell’ordinamento deontologico forense.
Ovviamente la questione in questo caso diventa ridondante in quanto fruisce di avvenimenti normativi e giurisprudenziali di accomodamento e di situazioni transitorie createsi nel tempo, difatti, come peraltro inteso nella sentenza in oggetto, il Giudice delle Leggi ha rilevato sul punto del dubbio di legittimità che: “ la normativa transitoria dettata dall’art. 2 della legge in oggetto […] soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa di carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla legge n. 339 del 2003. Scelta inevitabilmente destinata a produrre effetti, proprio per la sua portata generale, anche sulle posizioni dei dipendenti pubblici part-time legittimamente trovatisi ad esercitare in concomitanza la professione di avvocati.
Essi, infatti, anziché cadere immediatamente sotto il divieto, hanno potuto beneficiare di un termine di trentasei mesi per esprimere la decisione dell’attività cui dedicarsi in futuro in via esclusiva (con diritto al tempo pieno in caso di opzione per il mantenimento del rapporto d’impiego pubblico) e, nell’ipotesi di una prima manifestazione optativa per la professione forense, di un ulteriore quinquennio per l’esercizio dello ius poenitendi, tale da garantire loro il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno (entro tre mesi dalla richiesta) con il solo limite della sospensione, nelle more, dell’anzianità”.
In buona sostanza afferma che dopo una fase di accomodamento non è più possibile transigere sulla permanenza in essere di situazioni difformi da quelli previsti deontologicamente (per quanto attiene alla professione forense) e dalla Costituzione (per quanto attiene i principi d’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione) e che gli interessati hanno avuto tempi e modi sufficienti ad ogni tutela e adeguamento alle norme previste, che ormai disvela no una interdizione effettiva, categorica e generalizzata allo svolgimento contemporaneo delle due attività, senza ulteriore possibilità di poter addurre situazioni cogenti, personali e familiari tali per orientare la propria scelta nella direzione del mantenimento del rapporto di lavoro pubblico, piuttosto che in quella dell’esercizio esclusivo della professione legale e con la disponibilità di uno “spatium deliberandi” supplementare a beneficio dell’opzione per la più solida posizione lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione, in caso di preferenza inizialmente manifestata per la più aleatoria attività libero-professionale.
Infine, a supporto della propria decisione, che rigetta la proposizione di fondata e manifesta illegittimità, la Corte Costituzionale ha tenuto a sottolineare che già con propria sentenza (n. 374 del 1994) ha ribadito il principio che raccomanda di evitare diversità di trattamento diffuse e indeterminate nel tempo, “non potendosi lasciare nell’ordinamento sine die una duplicità di discipline diverse e parallele per le stesse situazioni” e che il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), non ha sollevato dubbi alcuni sull’incompatibilità dell’esercizio della professione forense con l’impiego pubblico part-time, anzi è stata dal legislatore rafforzata nell’espressa inconciliabilità con qualsiasi attività di lavoro subordinato, anche se con orario di lavoro limitato attraverso, l’art. 18, lettera d), della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense).
Supportata in tale senso, anche dalla Suprema Corte in materia di legittimità, a Sezioni Unite (Corte di Cassazione – Sezioni Unite, n. 11833 del 16 maggio 2013), e poichè dal giudice a quo non sono stati proposti nuovi profili di censura, o ragioni o argomenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già sottoposti al Giudice delle Leggi e valutati nella richiamata precedente pronuncia di non fondatezza con la sent. n. 166 del 2012, la Corte Costituzionale si è espressa ancora una volta per la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza, significando che è preclusa per l’avvocato la possibilità di poter svolgere contestualmente, anche solo part-time, qualsiasi opera o prestazione di natura pubblica.
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