Il patto di non concorrenza nella giurisprudenza

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1. Nozioni generali; 2. Casistica giurisprudenziale

 

1. Nozioni generali

 

Secondo l’articolo 2125 c.c. il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto , se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.

L’ art. 2105 impone al prestatore l’obbligo di non fare (divieto di concorrenza e obbligo di riservatezza) e ciò in ottemperanza al dovere di fedeltà che è obbligazione accessoria a quella principale di lavorare.

Ai sensi dell’art. 2125 c.c., i limiti di oggetto, di tempo e di luogo ivi indicati debbono essere considerati, in relazione alla concreta professionalità dell’obbligato, nel loro complesso, ovvero nella loro reciproca influenza, con la conseguenza che il patto deve ritenersi nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità acquisita dal lavoratore e ciò a maggior ragione qualora sia previsto a favore del lavoratore un corrispettivo irrisorio rispetto al sacrificio derivante dal patto (1). (Trib. Milano 12 luglio 2007).

Altra giurisprudenza ha precisato che il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c., pur potendo riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non debba, quindi, limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, è nondimeno nullo allorchè la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore nei limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale (2).

L’art. 2125 cod. civ. viene violato non già dalla clausola che determina il patto di non concorrenza per il biennio successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, perchè questo è consentito dalla disposizione codicistica citata, stante la ricorrenza di entrambi gli elementi prescritti, ossia la delimitazione dell’impegno entro il termine prefissato dalla legge e la pattuizione di un corrispettivo per la compressione alla libertà contrattuale del lavoratore che ne consegue.

L’art. 2125 in esame risulta invece violato dalla clausola con cui la società si è riservata la facoltà di recesso. Questa infatti – ancorchè legittima secondo i principi generali che presiedono ai contratti di cui all’art. 1373 c.c., essendo consentito ogni patto che preveda la possibilità di recesso dal contratto ad opera di una delle parti – confligge però con la disciplina specifica prevista per il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato, la quale limita l’autonomia contrattuale, sancendo che il patto venga “determinato nel tempo” (3).

 

 

2. Casistica giurisprudenziale 

 

Con sentenza n. 212 del 8 gennaio 2013, la Cassazione ha affermato la nullità del patto di non concorrenza nel caso in cui la risoluzione del patto del patto stesso è rimessa unicamente al datore di lavoro.

Secondo la Suprema Corte non può essere “attribuito al datore di lavoro il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, così vanificando la previsione della fissazione di un termine certo”, inoltre, non può prevedersi che l’attribuzione patrimoniale pattuita possa essere caducata dalla volontà del datore di lavoro; “la grave ed eccezionale limitazione alla libertà di impiego delle energie lavorative risulta compatibile soltanto con un vincolo stabile, che si presume accettato dal lavoratore all’esito di una valutazione della sua convenienza, sulla quale fonda determinate programmazioni della sua attività dopo la cessazione del rapporto” (4).

 

La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro costituisce una clausola nulla per contrasto con norme imperative. Ciò per evitare, da un lato, che al datore di lavoro sia attribuito il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, sì da vanificare la previsione della fissazione di un termine certo e, dall’altro lato, che l’attribuzione patrimoniale pattuita a favore del lavoratore in merito all’obbligo di non concorrenza possa venir meno solo in virtù della volontà del datore di lavoro.

Cass. 8 gennaio 2013 n. 212, in Lav. nella giur. 2013, 308 

 

Ai sensi dell’art. 2125 c.c., il patto di non concorrenza deve prevedere, a pena di nullità, un corrispettivo predeterminato nel suo preciso ammontare, al momento della stipulazione del patto, giacché è in tale momento che si perfeziona il consenso delle parti, e congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore in quanto costituisce il prezzo di una parziale rinuncia al diritto al lavoro costituzionalmente garantito; pertanto, viola la norma la previsione del pagamento di un corrispettivo del patto di non concorrenza durante il rapporto di lavoro, in quanto la stessa, da un lato, introduce una variabile legata alla durata del rapporto di lavoro che conferisce al patto un inammissibile elemento di aleatorietà e indeterminatezza e, dall’altro, facendo dipendere l’entità del corrispettivo esclusivamente dalla durata del rapporto, finisce di fatto per attribuire a tale corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipulazione del patto.

Trib. Milano 28 settembre 2010, in D&L 2010, 1080

 

 

In caso di violazione del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. può essere concessa al datore di lavoro la tutela inibitoria volta all’immediata cessazione della condotta illecita, non ostando al riguardo né il disposto dell’art. 1453 c.c. – che, nell’attribuire al contraente adempiente il potere di chiedere, tra l’altro, l’adempimento del contratto, non distingue tra obbligazioni positive (di facere) e negative (di non facere) – né i principi generali del nostro ordinamento, atteso che la tutela preventiva, proprio perché idonea ad attribuire agli interessi giuridicamente garantiti uno strumento diretto alla remissione in pristino, è strumento preferibile a quello risarcitorio e indispensabile per dare concretezza al principio costituzionale della tutela giurisdizionale.

Trib. Lodi 20 luglio 2009,  in D&L 2009, 706

Note

 

1)    Nella fattispecie è stato ritenuto nullo il patto di non concorrenza che prevedeva il divieto per il lavoratore di svolgere l’attività di programmatore informatico a favore sia di imprese clienti della ex datrice di lavoro – società di fornitura di servizi informatici – sia di imprese che utilizzassero un comune software fornito dalla stessa, nei territori di Lombardia, Lazio e Campania

2)    Corte app. Milano 17 marzo 2006 in Lav. nella giur. 2006, 1138

3)    Cfr. Staiano R. Patto di non concorrenza ed arbitrio del datore di lavoro, Cass. n. 212/2013, in , Diritto.it, https://www.diritto.it/docs/34503-patto-di-non-concorrenza-ed-arbitrio-del-datore-di-lavoro-cass-n-212-2013

4)    http://www.dplmodena.it/cassazione/sentenze/varie_subord/212-13.html

 

Rinaldi Manuela

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