La consumazione rappresenta la fase finale del progetto criminoso, ossia il momento in cui il reato può dirsi “cessato” per aver raggiunto la massima gravità concreta.
Questa fase si inserisce all’ultimo stadio dell’iter criminis che, si sostiene, è costituito da diverse ed autonome fasi: l’ideazione, la preparazione, l’esecuzione, il perfezionamento e, appunto, la consumazione.
La gradualità fenomenologica dell’iter criminis ha presentato alcuni dubbi interpretativi con particolare riferimento alla distinzione tra le due ultime fasi ora menzionate, ossia: il perfezionamento e la consumazione.
Stante la unanimità circa il riconoscimento di autonomia sia del momento dinamicamente iniziale del progetto criminoso, ossia della fase ideativa in cui il soggetto perviene alla risoluzione (autodeterminazione) del proposito, sia della eventuale fase preparatoria, in cui, almeno nei reati a dolo di proposito o di premeditazione, sono predisposti i mezzi e ricercate le occasioni, sia anche della fase coincidente con la realizzazione, detta esecuzione, parte della dottrina soltanto in tempo relativamente recente ha accolto l’ulteriore distinzione tra perfezione e consumazione del reato.
In particolare, mentre la perfezione indicherebbe il momento in cui il reato è venuto ad esistenza, per la realizzazione dei requisiti minimi di cui la struttura della fattispecie criminosa si compone, la consumazione segnerebbe, invece, lo stadio finale dell’iter criminis, in cui il reato cessa e si apre la c.d. fase del post factum.
La soglia della consumazione, dunque, è idonea ad indicare il momento culminante in cui mediante ermeneusi è possibile riconoscere la corrispondenza tra fatto concreto e tipo astratto descritto dalla norma.
La distinzione ora ricordata, lungi dall’esplicare interessi meramente teorici, assume un certo rilievo pratico laddove si ponga mente al fatto che, sebbene la fase del perfezionamento sia sufficiente ad escludere la configurabilità di tentativo, desistenza e recesso, soltanto nella consumazione è riscontrabile il momento ultimo entro cui ammettere il concorso di persone, il concorso formale di reati, la flagranza e l’individuazione del tempus commissi delicti ai fini dell’individuazione della competenza territoriale, della prescrizione e della applicazione di alcuni dei principi fondamentali del diritto penale sostanziale, quale la successione di leggi nel tempo.
Ad ulteriore conferma della correttezza della ricostruzione prospettata, la tesi (prevalentemente accolta) della distinzione delle due fasi, si è soliti menzionare alcuni dei casi in cui perfezione e consumazione non siano coincidenti.
Tra i più chiari casi di scissione tra le due fasi è possibile, ad esempio, menzionare, i delitti di attentato e i reati di pericolo, in cui il Legislatore, per ragioni di politica criminale, ha anticipato la soglia della perfezione ad un momento anteriore rispetto al completo svolgimento del fatto naturalistico, che segna la fase della consumazione.
L’autonomia di dette fasi, e la conseguente possibilità di determinazione del tempus commissi delicti, anche in considerazione della durata caratterizzante le singole tipologie di reato, assumono particolare rilevanza in merito alla partizione dicotomica tra reati istantanei e reati permanenti.
Mentre, infatti, i reati c.d. istantanei rappresentano quelle condotte criminose in cui l’offesa ad un dato bene coincide con l’azione stessa del soggetto (ossia in cui perfezione e consumazione si sovrappongono), i reati permanenti (il cui paradigma è il sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p.) presentano una fase, detta “permanenza”, successiva al momento della perfezione del reato e di durata non preventivamente determinabile in cui l’offesa si protrae nel tempo per effetto della persistenza del soggetto nella volontaria condotta criminosa.
Seppure in giurisprudenza si sia dibattuto circa la rilevanza giuridica, la natura del reato permanente e le tipologie dei beni suscettibili di compressione “permanente”, è odiernamente invalsa, la tesi c.d. strutturale della permanenza, ossia non qualificata dal Legislatore, ma riconosciuta e regolata per la naturale struttura della condotta connotata.
In particolare, questa tesi interpretativa, in primo luogo, conferma la struttura unitaria del reato permanente che si caratterizzerebbe per la presenza di due distinti requisiti: il protrarsi nel tempo dell’offesa ad un bene giuridico e la persistente condotta volontaria del soggetto, in grado di far cessare l’antigiuridicità della compressione inflitta al bene.
In secondo luogo, ha enucleato una serie di indici normativi peculiari del reato permanente quali, ad esempio:
– l’art. 158 c.p. che individua nella “cessazione della permanenza” il dies a quo della prescrizione,
– l’art. 12 c.p.p. che non menziona il reato permanente in riferimento all’istituto della connessione processuale in caso di concorso formale di reati o di reato continuato,
– e l’art. 8 c.p.p. in tema di competenza territoriale nei reati permanenti.
Tralasciando, in quanto eccedenti rispetto ai nostri fini, le peculiarità distintive che, all’interno del genus “reati di durata”, caratterizzano il reato permanente dal reato abituale e i contrasti circa la configurabilità dell’elemento soggettivo sub specie di dolo nel periodo temporale ricompreso tra l’inizio della permanenza e l’esaurimento della stessa, giova prendere in esame i problemi connessi all’esatta configurazione del momento consumativo nel reato di usura anche in considerazione della novella operata ex lege 108/1996.
Sul punto, dev’essere ricordato che la riforma è intervenuta, in primo luogo, modificando la dizione testuale dell’art. 644 c.p., rendendo oggettivo, mediante l’introduzione di un tasso soglia, lo stesso concetto di “usurarietà” ed ampliandone la portata operativa, con l’introduzione della seconda parte del co. 3 in cui si considerano usurari i vantaggi ed i compensi che, ancorché inferiori al tasso soglia, siano comunque indice di una sproporzione delle prestazioni.
Sono scomparsi, inoltre, i requisiti “dell’approfittamento” e della “obiettività” dello stato di bisogno, che risultavano, per altro, di difficile attuazione in riferimento alla concreta dimostrabilità, subentrando, al loro posto, il più agevole ed amplio richiamo alle “difficoltà economiche e finanziarie”, che segnano un abbassamento della soglia di gravità necessaria alla configurazione dell’usura rispetto a quanto precedentemente previsto.
In virtù di dette modifiche il Legislatore, secondo unanime dottrina, ha inteso ricostruire l’usura quale reato-contratto, ossia vietando l’accordo contrattuale in sé, differentemente da quanto previsto ante riforma, in cui l’usurarietà (essendo incriminata quale reato in contratto) era sanzionata in forza del comportamento del soggetto attivo precedente alla stipula negoziale.
Tuttavia, i problemi interpretativi connessi alla nuova formulazione non si esauriscono nella individuazione della sorte del contratto usuraio (ossia circa le patologie che affliggono il contratto perfezionato in conseguenza della condotta prevista ex art. 644 c.p.); la novella, infatti, ha introdotto anche un ulteriore specificazione nel nuovo art. 644 ter c.p. in tema di prescrizione del reato di usura.
Proprio tale novità ha suscitato non soltanto contrasti giurisprudenziali ma anche dibattiti dottrinari, con particolare riferimento all’evoluzione interpretativa inerente alla determinazione del momento consumativo del reato de quo, rinvenibile ora nell’avvenuta pattuizione, ora nella dazione successiva degli interessi usurari.
Prima della novella del 1996, la tesi prevalentemente seguita costruiva l’usura quale reato istantaneo con effetti eventualmente permanenti, laddove la natura istantanea poteva ravvisarsi, ad esempio, nei casi di promessa non seguita dalla corresponsione degli interessi usurari, mentre l’efficacia permanente traeva concretezza nella restituzione rateizzata del capitale e degli interessi usurari, in esecuzione della promessa.
Tale orientamento, muoveva dalla considerazione secondo cui il percepimento degli interessi costituiva un post factum non punibile, in quanto accedente ad una azione illecita già compiuta non ravvisandovi in tale azione una nuova condotta illecita, incentrando, pertanto, il momento consumativo del reato nella pattuizione stessa.
Un orientamento minoritario, al contrario, era incline a configurare la condotta ex art. 644 c.p. ante novella, quale reato eventualmente permanente.
Questa tesi traeva linfa dalla distinzione tra reati necessariamente ed eventualmente permanenti secondo cui la “necessità” o l’ “eventualità” dipendono dalla presenza, nella struttura del reato, del requisito del protrarsi della offesa: ove tale requisito sia richiesto ex lege per la sussistenza della fattispecie criminosa si è in presenza di un reato necessariamente permanente; in caso contrario, è possibile configurare un reato eventualmente permanente.
Siffatta ricostruzione, pur riconoscendo la natura istantanea del reato de quo in determinate ipotesi, interpretava la condotta antigiuridica persistente della riscossione degli interessi, in ossequio alla definizione di reato permanente, quale elemento costitutivo e caratterizzante il reato di usura, poiché tale “permanenza” (essendo l’azione di riscossione successiva alla pattuizione) poteva essere fatta cessare dal soggetto mediante il rifiuto di ricevere gli interessi usurari.
Dal dibattito sopra delineato sulla natura permanente o istantanea del reato di usura e, dunque, sulla determinabilità dell’esatto momento consumativo, scaturiscono conseguenze di rilevante rilievo in ordine alla concreta operatività del reato in esame.
Si ponga mente, per saggiare l’importanza dell’esaminando contrasto interpretativo, che dalla scelta per l’uno o per l’altro orientamento, mutano notevolmente, ad esempio, la disciplina processuale dell’arresto in flagranza del soggetto attivo colto nell’atto di riscuotere gli interessi usurari, ammesso solo nel caso in cui si configuri l’usura quale reato permanente, ovvero del concorso di persone per chi compia unicamente l’attività (successiva) di riscossione degli interessi, anche in questo caso ammissibile solo ove si opti per il riconoscimento della natura permanente del reato ex art. 644 c.p..
L’introduzione dell’art. 644 ter c.p. da parte della riforma ha mutato in maniera determinante il quadro ora delineato, intervenendo con una speciale regola in tema di decorrenza della prescrizione.
Invero, tale introduzione, seppure abbia segnato il punto di svolta sulla quale si è imperniata l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sulla quaestio, è stata oggetto di contrastanti interpretazioni.
Parte della dottrina, alla luce del combinato raffronto dell’art. 644 ter c.p., che segna il momento iniziale di decorrenza della prescrizione dalla riscossione dell’ultima rata, con la previsione dell’art. 158 c.p. ha inteso ricostruire la riscossione quale fatto tipico del reato di usura.
Altra parte, proprio muovendo dall’intervento del Legislatore ha tratto un nuovo argomento (a contrario) per confermare la natura istantanea del reato de quo.
Precisamente, argomenta questo orientamento, laddove l’usura fosse stata intesa quale reato permanente, stante la presenza dell’art. 158 c.p., non vi sarebbe stata la necessità di intervenire con l’introduzione dell’art. 644 ter c.p..
Tuttavia, giurisprudenza maggioritaria ha tratto dalle novità introdotte dalla riforma e, soprattutto, dalla disposizione in tema di decorrenza dell’art. 644 ter c.p., il punto di svolta per superare l’orientamento fino ad allora maggioritario che interpretava il reato di usura tutto incentrato nel momento della pattuizione.
Invero, se il mutamento di indirizzo operato dalla giurisprudenza all’indomani della riforma è stato nel senso di negare la definizione della riscossione degli interessi quale post factum non punibile, non si è comunque palesato un accoglimento per la tesi della natura permanente.
Precisamente, rinvenendo nella dazione concreta degli interessi il momento consumativo del reato di usura, quale effettiva e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione, si è configurata una ricostruzione dell’usura quale reato a consumazione prolungata (o come la dottrina suole dire “a condotta frazionata).
Con tale dizione, si è soliti ricomprendere non una autonoma categoria di reati ma un atteggiarsi degli stessi sia nel caso in cui si perfezionino istantaneamente, qualora l’effetto lesivo non protratto nel tempo segua all’azione antigiuridica, sia nel caso in cui gli effetti lesivi, scaturenti da un’unica (rectius: unitaria) azione, si protraggano nel tempo.
Il sottile, seppure importante, confine che separa il reato a consumazione prolungata dal reato eventualmente permanente può rinvenirsi nel fatto che mentre nel primo a perdurare sono gli effetti lesivi originati da un’unica azione, nel secondo persiste invece la condotta antigiuridica e volontaria del soggetto attivo.
Mediante tale ricostruzione, orientata alla ratio propria della riforma operata dal Legislatore, è possibile riconoscere la portata applicativa del nuovo reato di usura anche, ad esempio, in tema di arresto in flagranza per il soggetto che sia colto nell’atto della riscossione degli interessi usurai e di responsabilità concorsuale nel reato di usura per coloro i quali, ancorché estranei al perfezionamento della stipula negoziale usuraria abbiano contribuito al perfezionamento della fattispecie in esame riscuotendo gli interessi.
La ricostruzione del reato di usura quale reato a consumazione prolungata, infatti, da un lato permette di impiegare i pregi applicativi propri dei reati istantanei, con particolare riferimento alla configurazione unitaria del reato de quo e, dall’altro, di optare per la punibilità delle condotte ulteriori e successive alla pattuizione, così come affermato dalla tesi della permanenza, sulle quali, per altro, si sostanzia in concreto il momento consumativo dell’usura.
Per una più agile comprensione, di seguito, si presentano alcune recenti pronunce di legittimità sulla questione trattata:
– Cassazione penale, sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 33331:
“Il reato di usura si configura come reato a schema duplice, e quindi, si perfeziona o con la sola accettazione della promessa degli interessi o degli altri vantaggi usurari, non seguita dalla effettiva dazione degli stessi, ovvero, quando questa segua, con l’integrale adempimento dell’obbligazione usuraria.
Esso è costituito da due fattispecie destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria, aventi in comune l’induzione del soggetto passivo alla pattuizione di interessi od altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinallagma ad esso preordinato.
[…] Di conseguenza, quando tra le stesse persone le dazioni di denaro successive alla scadenza delle precedenti non costituiscono l’esecuzione della iniziale promessa, ma del rinnovo del patto usurario con la rifissazione del capitale in diverso importo e dei conseguenti interessi, trattandosi della conclusione di patti successivi, anche se occasionalmente promananti dalla scadenza dei precedenti, si è in presenza di un reato continuato di usura”. In senso conforme alla massima si veda Cass. Civ., sentenza 19.08.2010, n. 32362; Cass. Civ., sentenza 02.07.2010, n. 33871).
– Cassazione penale n. 17157 del 9 marzo 2011:
“Questa Corte ha ormai abbandonato l’orientamento che attribuiva all’usura la natura di reato istantaneo, sia pure con effetti permanenti, e ha affermato che ‘in tema di usura, qualora alla promessa segua – mediante la rateizzazione degli interessi convenuti – la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato, realizzandosi, così, una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione prolungata’.
Aderendo allo schema giuridico dell’usura intesa appunto quale delitto a consumazione prolungata o – come sostiene autorevole dottrina – a condotta frazionata, ne deriva che effettivamente colui il quale riceve l’incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad ottenerne il pagamento concorre nel reato punito dall’art. 644 c.p., in quanto con la sua azione volontaria fornisce un contributo causale alla verificazione dell’elemento oggettivo di quel delitto”.
– Cassazione penale, sez. II, 19.06.2009 n. 2903:
“Si è infatti fondatamente rilevato (Cass. Sez. II, n. 11055 del 22.10.1998) che configurare il reato di usura, secondo il più risalente insegnamento giurisprudenziale, come reato istantaneo con effetti eventualmente permanenti nel senso che lo stesso si consuma nel momento della stipula del patto usurario pur perdurandone le conseguenze nel tempo, in caso di promessa seguita da dazione, senza il compimento di un’ulteriore attività da parte dell’agente e sostenere l’estraneità alla struttura della fattispecie criminosa di quella modalità di realizzazione dell’illecito – la dazione degli interessi – nella quale indubbiamente si identifica la completa esecuzione del delitto ed il massimo approfittamento della concreta e progressiva lesione dell’interesse protetto, apparirebbe in realtà diatonico rispetto al consueto atteggiarsi – nella realtà economica e sociale – del fenomeno usurario”.
Infine, sul tema, è opportuno segnalare che le disposizioni di cui al D.L. n. 70/2011, convertito con L. n. 106/2011 (c.d. decreto sviluppo) non hanno effetto retroattivo non essendo intervenuta alcuna modifica della norma incriminatrice.
Sul punto cfr.: Cassazione penale, sez. II, 19 dicembre 2011, n. 466669:
“Con la decisione in esame la Corte ha affermato che le disposizioni contenute nel d.l. 13 maggio 2011, n. 70 (conv. con modd. in L. 7 luglio 2011, n. 106), meglio noto come “decreto sviluppo”, le quali prevedono una modifica migliorativa per le aperture di credito in c/c a vantaggio degli istituti di credito, non hanno effetto retroattivo ai sensi dell’art. 2, comma terzo, cod. pen. in relazione ai tassi soglia precedentemente previsti”.
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