Con le sentenze nn. 105 e 106, entrambe pubblicate in data 18 aprile 2014, la Corte Costituzionale è tornata nuovamente sulla recidiva reiterata ex art. 99 comma 4 e sulla sua esclusione dal meccanismo di bilanciamento delle circostanze eterogenee inserito all’art. 69 comma 4 c.p. dalla ex Legge Cirielli n. 251/2005. Com’è noto, dall’entrata in vigore della legge de qua, la recidiva reiterata, ove contestata ed applicata, può al massimo essere riconosciuta di portata equivalente rispetto alle altre circostanze attenuanti eventualmente ugualmente riconosciute al reo. Forse sarebbe più corretto utilizzare il condizionale “potrebbe”, perché l’assolutezza della previsione è stata già smentita dalla Consulta nella sentenza n. 251/2012 e lo è ancora una volta nelle due sentenze in commento (Giudice relatore Lattanzi). Nella sentenza del 2012 citata era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p. nella parte in cui non consentiva la prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. 309/1990 sull’aggravante della recidiva reiterata specifica. In virtù della preclusione introdotta dalla ex Legge Cirielli, il piccolo spacciatore finiva con l’essere destinatario di una pena pari a quella del grande spacciatore in violazione dei principi di uguaglianza, colpevolezza ed offensività. Il trattamento sanzionatorio risultava in concreto sproporzionato rispetto alla tenuità del fatto concreto e come tale in netto contrasto con l’esigenza di assicurare la personalizzazione della pena e la finalità rieducativa della pena sanciti all’art. 27 cost.. In continuità con questa impostazione, la Consulta è stata chiamata a verificare la compatibilità costituzionale dell’esclusione dal bilanciamento delle circostanze della recidiva reiterata con riferimento alle attenuanti rispettivamente del reato di ricettazione ex art. 648 comma 3 c.c. (sentenza n. 105) e del reato di violenza sessuale ex art. 609bis comma 3 c.p. (sentenza n. 106).
Ma vediamo meglio.
Con riferimento alla prima fattispecie, la questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte d’appello di Ancona con ordinanza del 18.2.2013, per sospetta violazione degli artt. 3, 25 comma 2 e 27 comma 3 cost.. L’imputato nel giudizio a quo, in primo grado, era stato riconosciuto colpevole del reato di ricettazione ex art. 648 c.p. di alcuni capi di abbigliamento recanti marchi contraffatti e del reato di detenzione per la vendita di tali prodotti, con l’applicazione della recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale, e condannato, ai sensi dell’art. 81 c.p., alla pena della reclusione di mesi tre e della multa di euro 300,00. Avverso la sentenza proponeva appello il Procuratore Generale, che denunciava l’illegalità della pena, avendo il Tribunale, in violazione del divieto di cui all’art. 69 comma 4 c.p., dato prevalenza nella quantificazione della stessa alla circostanza della tenuità del fatto.
Non v’erano dubbi, secondo la Corte rimettente, che la recidiva dovesse essere contestata nel caso di specie, essendo stato il reo già precedentemente condannato per i medesimi reati in un arco temporale brevissimo (1anno); non poteva, dunque, negarsi che simili circostanze fossero sicuro indice della maggiore propensione a delinquere dell’agente e della inefficacia dissuasiva delle precedenti sanzioni comminate. Pur tuttavia, la tenuità del reato in sé appariva senz’altro prevalente rispetto alla recidiva reiterata, sicché sarebbe apparso equo applicare la sanzione di cui al comma 2 dell’art. 648 c.p. per cui: “la pena è della reclusione sino a 6 anni e della multa sino ad euro 516, se il fatto è di particolare tenuità”. Il divieto di soccombenza della recidiva ex art. 69 comma 4 c.p., però, precludeva tale doverosa soluzione, potendo dare luogo tutt’al più ad una declaratoria di equivalenza tra circostanze eterogenee, con l’applicazione della pena base di cui al comma 1: la reclusione da 2 ad 8 anni e la multa da 516 a 10.329. Per gli effetti così prodotti, secondo i giudici di seconde cure, la norma appariva chiaramente in contrasto con il principio di uguaglianza “perché condurrebbe, in determinati casi, ad applicare pene identiche per violazioni di rilievo penale enormemente diverso. Il recidivo reiterato implicato in ricettazioni di normale o anche rilevante gravità, al quale siano applicate le circostanze attenuanti generiche, verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di fatti di modesto disvalore (come l’acquisito di alcuni capi di abbigliamento con marchi falsi per «la piccola vendita “di sopravvivenza”»), al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dall’art. 648, secondo comma, c.p. (…), la rilevantissima differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte» verrebbe completamente annullata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore”. Risultava, inoltre, in contrasto anche con il principio di offensività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, con il suo espresso richiamo al “fatto commesso”, “attribuirebbe una rilevanza fondamentale all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatica di pericolosità sociale, implicando conseguentemente la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo”. Profili censurabili riguardavano anche il rispetto del principio di proporzionalità della pena, nelle sue componenti retributiva e rieducativa: “una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice: la condanna a due anni di reclusione per la ricettazione di un solo bene, di modestissimo valore, non potrebbe essere considerata, chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria proporzionata”. Nel condividere la prospettazione della Corte d’Appello, la Consulta ricorda che il bilanciamento delle circostanze fu esteso con la legge 200/1974 anche a quelle attinenti la persona del colpevole per “consentire un riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione” e di “rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base”. In relazione, però, ai reati circostanziati che prevedevano circostanze aggravanti speciali o indipendenti, con il tempo lo strumento del bilanciamento generalizzato è apparso inappropriato: atteso l’elevato disvalore sociale delle condotte delittuose, fu avvertita sempre più pressantemente la necessità che il trattamento sanzionatorio risultasse effettivamente inasprito con il conteggio effettivo della maggiorazione di pena prevista dalla circostanza. Il legislatore ha così introdotto alcune deroghe al regime di bilanciamento delle circostanze eterogenee; esempio è la previsione dell’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, di cui all’art. 1 della legge n. 15/1980: “Per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con pena diversa dall’ergastolo, la pena è sempre aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato. (…). Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa ed alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato, e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti”. La ratio sottesa a tutti gli interventi derogatori della medesima specie va individuata nella volontà di impedire o limitare il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata, in modo da escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione con le attenuanti. Effetto che il legislatore del 2005 ha inteso perseguire anche ed in maniera generalizzata con la previsione dell’attuale art. 69 comma 4 c.p. impugnato. Richiamando gli assunti della sentenza n. 251/2012, la Consulta afferma che la recidiva reiterata “riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità”. Nel caso di specie, dunque, essendo del tutto privata di rilievo la dimensione oggettiva del fatto di reato, si finisce con l’applicare una pena eguale per condotte illeciti che notevolmente differenti tra loro. Inoltre, è derogato “un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze (…); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 648, secondo comma, cod. pen., impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di «particolare tenuità»”. Risultano, in conclusione, violati i principi di uguaglianza, colpevolezza, offensività, proporzionalità e funzione rieducativa della pena. Per tali ragioni, quindi, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648 comma 2 c.p. sulla recidiva ex art. 99 comma 4 c.p..
Identico percorso logico-giuridico è stato portato avanti dalla Consulta anche per la seconda fattispecie, quella di violenza sessuale di minore gravità ex art. 609bis comma 3 c.p.: “ Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. La Corte ricorda che con la legge di riforma dei reati sessuali, n. 66/1996, il legislatore si è mosso lungo due direttrici: per un verso ha riformulato le fattispecie di reato, accorpando, tra le altre cose, le ipotesi di congiunzione carnale violenta ed atti di libidine violenti nell’ambito della unitaria ipotesi di violenza sessuale, ed introducendo la nuova fattispecie di violenza sessuale di gruppo e per altro ha inasprito il trattamento sanzionatorio. In virtù dell’accorpamento di condotte che oggettivamente presentano una carica di offensività diversa, ancorché incidenti entrambe sulla libertà sessuale della vittima, il legislatore introdusse l’ipotesi meno grave al comma 3, nella quale dovevano essere inquadrati casi che precedentemente erano sanzionati come atti di libidine. Per concorde orientamento giurisprudenziale (ex multis sentenza Cassazione 12 aprile 2013 n. 18662) l’attenuante de qua viene ritenuta invocabile in tutte quelle situazioni in cui avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione sia possibile ritenere che la libertà personale sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave ed implica la necessità di una valutazione globale del fatto alla luce di tutte le circostanze considerate dall’art. 133 c.p.. L’introduzione del divieto di soccombenza della recidiva reiterata introdotto dalla ex Legge Cirielli ha sortito effetto anche nell’ipotesi delittuosa in questione. Potendo al massimo giungersi ad una neutralizzazione della aggravante della recidiva reiterata con le circostanze attenuanti, risultava preclusa, pur in presenza di fatti di tenue gravità, di applicare la pena di cui al comma 3 dell’art. 609bis c.p., venendo in considerazione la pena ben più grave della fattispecie base di cui al comma 1: “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”. Nella lotta a questa forma particolarmente riprovevole di condotta illecita nel 2009 il legislatore aveva introdotto un inasprimento del sistema delle misure cautelari, prevedendo, in deroga al principio ex art. 275 c.p.p. secondo cui la custodia in carcere è extrema ratio, la presunzione assoluta di adeguatezza di questa misura cautelare ove si fossero manifestate esigenze cautelari. La Consulta era intervenuta con la sentenza n. 265/2010 a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma di rito appena richiamata nella parte in cui non faceva salva la possibilità che dagli elementi acquisiti risultasse più adeguata al caso concreto una misura cautelare diversa e meno afflittiva della custodia in carcere. All’epoca, come ora, la Corte Costituzionale aveva sottolineato che la configurazione delle fattispecie di reato e la commisurazione delle pene e delle misure che incidono comunque sul trattamento sanzionatorio sono rimesse alla scelte discrezionali del legislatore, “sindacabili solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione, sicché la Corte Costituzionale avrebbe il compito di verificare che l’uso della discrezionalità legislativa rispetti sia il limite della ragionevolezza, sia il principio di proporzionalità tra qualità e quantità della sanzione, da un lato, e offesa, dall’altro”. In via generale è ammissibile un trattamento differenziato per il recidivo; nel caso di specie, tuttavia, lo stesso risulta palesemente sproporzionato in peius, se si considera in particolare la divaricazione tra i livelli edittali di pena minimi (5 anni per la fattispecie ex art. 609bis comma 1 ed 1 anno ed otto mesi per l’ipotesi di cui al comma 3 della medesima norma). Difatti, per effetto dell’equivalenza tra la recidiva reiterata e l’attenuante della minore gravità, l’imputato viene di fatto a subire un aumento di pena assai superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99 comma 4 c.p., che, a seconda dei casi, è della metà o dei due terzi. “L’incongruità di questo risultato appare evidente se si considerano i criteri stabiliti dall’art. 69, quarto comma, c.p. prima della modificazione (in genere diretta a favorire l’imputato) operata dall’art. 6 del d.l. n. 99 del 1974, quando l’aumento della recidiva veniva effettuato sulla pena prevista per la fattispecie attenuata. In un caso come quello in esame, infatti, la pena minima sarebbe stata, a seconda del tipo di recidiva, di due anni e sei mesi o di due anni, nove mesi e dieci giorni, vale a dire di un anno e otto mesi per il reato attenuato previsto dall’art. 609-bis, terzo comma, c.p.., aumentata, a seconda dei casi, della metà o di due terzi per la recidiva, cioè, rispettivamente, di dieci mesi o di tredici mesi e dieci giorni. Per contro il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata, comporta l’applicazione della pena di cinque anni di reclusione, determinando un aumento di tre anni e due mesi”. Anche in questo caso, l’art. 69 comma 4 c.p. risulta violativo dei principi di uguaglianza, colpevolezza, offensività, proporzionalità e funzione rieducativa della pena, ragion per cui la Consulta conclude per la doverosa declaratoria di illegittimità costituzionale nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis comma 3 c.p. sulla recidiva di cui all’art. 99 comma 4 c.p..
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