Premessa
I delitti di utilizzazione dei profitti illeciti, quali il riciclaggio, la ricettazione o il trasferimento fraudolento di valori, sono stati elaborati in origine dal legislatore come forme di aggressione al bene giuridico patrimonio; tuttavia, la loro evoluzione normativa e soprattutto giurisprudenziale evidenzia come oramai il bene giuridico tutelato da tali figure di reato non sia più il singolo e il suo patrimonio, bensì l’ordine economico nel suo complesso. Ciò emerge già dall’analisi delle problematiche connesse al momento consumativo inerente a tali reati, da cui si evince chiaramente che la circolazione dei beni oggi viene sempre punita e ciò all’evidente fine di tutelare l’economia legale.
L’evoluzione di cui si discute deriva dalla storia e dalla trasformazione delle mafie e dei mercati, dall’inasprimento del terrorismo e dall’effetto volano derivante dall’economia illegale.
Di seguito si procederà all’analisi normativa e giurisprudenziale dei reati di ricettazione, riciclaggio e trasferimento fraudolento di valori, al fine di chiarire meglio quanto fin qui accennato.
Ricettazione
Il delitto di ricettazione è disciplinato dall’art. 648 c.p. e, a riprova di quanto accennato in premessa, il bene giuridico tutelato dalla norma è oggi oggetto di dibattito. La dottrina tradizionale, infatti, configura la ricettazione come un reato plurioffensivo che offende sia il patrimonio sia l’amministrazione della giustizia. Quest’ultima, in particolare, verrebbe tutelata in quanto l’art. 648 c.p. mira a colpire la circolazione dei beni di origine illecita che viene realizzata tramite le condotte in cui si concretizza il reato di ricettazione, le quali sono idonee a sviare ed ostacolare le pubbliche attività finalizzate all’accertamento del reato presupposto.
Un’altra parte della dottrina, invece, sostiene che il delitto offenda in modo particolare un interesse patrimoniale. Tale conclusione viene avvalorata dalla stessa condotta punita dall’art. 648 c.p., il quale tende a consolidare il pregiudizio economico che deriva dalla realizzazione del reato presupposto. Tale conclusione viene accolta anche in seno alla giurisprudenza.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria, infatti, il delitto offende un interesse essenzialmente patrimoniale1, che progressivamente è stato inteso in senso sempre più ampio, come complesso di rapporti che presentano un contenuto economico rilevante ai fini dello sviluppo della persona.
Un diverso orientamento, invece, individua espressamente nell’amministrazione della giustizia il bene protetto dalla norma oggetto di analisi, la cui condotta è idonea ad ostacolare le pubbliche attività finalizzate all’accertamento dei reati presupposti.
La norma sulla ricettazione si compone di tre commi.
Il primo comma stabilisce che: “fuori dei casi di concorso nel reato [c.p. 110], chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329 [c.p. 29, 32, 709, 712]”.
Affinché possa configurarsi tale reato, pertanto, sono necessari due presupposti, in particolare:
1) l’esistenza di un delitto presupposto; 2) l’assenza di concorso nello stesso.
La condotta tipizzata dal legislatore consiste nell’acquistare, ricevere od occultare denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque intromettersi nel farli acquistare, ricevere od occultare, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto.
Nelle nozioni di acquisto e ricezione, intese in senso ampio, rientrano tutti gli atti medianti i quali il soggetto agente entra nella disponibilità materiale del denaro o delle cose provenienti da delitto. L’occultamento, invece, implica il nascondimento, anche temporaneo, del denaro o delle cose. Tale forma di condotta presuppone in linea di massima che il soggetto sia già in possesso della cosa; tuttavia, ciò non avviene sempre e necessariamente. È possibile, infatti, un’azione di occultamento che sia semplice collaborazione al fatto dell’autore del delitto da cui le cose provengono, posto che si tratta di un momento successivo alla consumazione del delitto principale. Con la ricettazione per intromissione il legislatore non si limita ad elevare a condotta autonoma il concorso in acquisto o ricezione da parte di soggetti diversi da quelli che acquisiscono materialmente il possesso del bene, ma anticipa la punibilità al tentativo.2
Sicché, in definitiva, affinché si realizzi il fatto costitutivo della ricettazione, nell’ipotesi dell’intromissione di terzo, è sufficiente che il mediatore si adoperi in modo univoco per far acquistare la merce, e non è necessario né che metta in rapporto diretto le due parti, né che la refurtiva venga effettivamente acquistata o ricevuta.3 Al proposito è stato, peraltro, affermato che “la fattispecie criminosa prevista dall’art. 648 cod. pen. è comprensiva di una multiforme serie di attività successive ed autonome, rispetto alla consumazione del delitto presupposto, finalizzate al conseguimento di un profitto (acquisto, ricezione, occultamento o qualunque forma di intervento nel fare acquistare il bene). Ne consegue che integra gli estremi del delitto di ricettazione colui che si intromette nella catena di possibili condotte, successive ad un delitto già consumato, essendo consapevole dell’origine illecita del bene e determinato dal fine di procurare a sé o ad altri un profitto.4
L’ipotesi tipica di ricettazione si configura con la ricezione di beni oggetto di furto, ma i reati presupposti possono essere anche molti altri; ad esempio, i falsi in certificazioni pubbliche ovvero in altri atti. Vi rientrano, così , le condotte di ricezione di falsi certificati assicurativi.5
Non occorre, inoltre, che il delitto presupposto sia contro il patrimonio, la legge, infatti, si riferisce a denaro o cose provenienti da qualsiasi delitto, sia doloso che colposo, sia nella forma tentata che consumata. Ciò in quanto, in qualunque caso di acquisizione di beni di illegittima provenienza, (che il legislatore ha inteso scoraggiare e punire), deriva un incremento patrimoniale. A riprova dell’ampio novero di delitti su cui può intervenire una condotta di ricettazione, è opportuno segnalare l’acquisto o l’occultamento di un’arma con numero di matricola abraso6 o la condotta del farmacista che riceve sostanze medicinali introdotte nello Stato in frode ad un valido brevetto, dovendosi escludere che, per il solo fatto di aver acquistato le suddette sostanze, lo stesso possa essere ritenuto concorrente nel reato presupposto di frode brevettuale7; o, ancora, la condotta di colui che riceve pendagli auricolari pertinenti ad animali già macellati, trattandosi dell’acquisizione di beni provenienti da delitto, in quanto detti pendagli possono essere rimossi dal capo delle bestie da macellare solamente da parte di soggetti autorizzati (veterinario ovvero titolare o gestore di un macello) ed a seguito della macellazione non possono essere riutilizzati, dovendo essere segnalati al CED della anagrafe bovina e, quindi, distrutti.8
– Poiché, come appena illustrato, il delitto presupposto può essere diverso dal furto, appare utile concentrare la nostra attenzione sulla riconoscibilità del concorso con l’art. 648 c.p. di reati come la falsificazione di beni con marchi protetti e la duplicazioni di supporti protetti da norme, su cui si è a lungo dibattuto. In particolare, è interessante soffermarsi sul rapporto fra l’art. 648 c.p. e l’art. 171 ter della legge del 22 aprile 1941, n. 633, oggetto di una importante sentenza delle S.U. del 2005.
La Suprema Corte ha chiarito che: ”in materia di tutela del diritto di autore sulle opere dell’ingegno, è configurabile il concorso tra il reato di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio abusivo di prodotti audiovisivi abusivamente riprodotti (art. 171-ter Legge 22 aprile 1941, n. 633), quando l’agente, oltre ad acquistare supporti audiovisivi fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, li detenga a fine di commercializzazione”.9
Nessun dubbio può, pertanto, sussistere sulla configurabilità del concorso del delitto di ricettazione con quello di cui all’art. 171 ter lett. C) L. 633/1941, (nel caso, ad esempio, di un imputato sorpreso mentre era intento ad esporre sulla pubblica via compact disk contenenti brani musicali, destinati alla vendita); ciò in quanto tale ultima norma punisce una frazione di condotta differente dalla ricettazione, e, cioè, quella di successiva commercializzazione degli stessi beni.10
-Il secondo comma dell’art. 648 c.p. stabilisce che: ”La pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 516, se il fatto è di particolare tenuità”.
Il capoverso dell’art. 648 c.p., prevede, dunque, una circostanza attenuante. La finalità perseguita dal legislatore, con l’introduzione della suddetta previsione, è stata quella di mitigare il particolare rigore del trattamento punitivo previsto dall’art. 648 al comma 1.
Indubbiamente la norma è stata formulata in modo eccessivamente vago ed impreciso, con la conseguenza di lasciare uno spazio eccessivo alla discrezionalità dell’interprete, al quale, peraltro, non viene fornito alcun parametro di riferimento; ciò ha, pertanto, dato luogo ad infiniti contrasti giurisprudenziali e dispute dottrinarie.
Oggi la giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’attenuante della particolare tenuità del fatto nel reato di ricettazione va sempre esclusa se il fatto non è particolarmente lieve, risultando superflua ogni ulteriore indagine; mentre, se è accertata la lieve consistenza economica del bene ricettato, ai fini del riconoscimento della circostanza può procedersi alla verifica della sussistenza degli ulteriori elementi, desumibili dall’art. 133 c.p. (fattispecie relativa a ricettazione di una pistola con matricola abrasa in cui la Corte ha escluso l’applicabilità dell’attenuante sia per il valore economico dell’arma sia per la sua intrinseca micidialità e potenzialità offensiva).11
-L’ultimo comma dell’art. 648 c.p. dispone, infine, che: “le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile [c.p. 85, 88, 91, 93, 96, 97] o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto [c.p. 45, 46, 47, 49, 50, 649]”.
Tale disposizione si occupa, in particolare, del profilo della configurabilità del delitto di ricettazione nel caso in cui il delitto presupposto sia procedibile a querela e questa manchi, risolvendo in senso affermativo la questione. In particolare, la Cassazione ha stabilito che il motivo relativo all’improcedibilità del reato presupposto per difetto di querela è da ritenere totalmente infondato, in quanto: “sussiste il delitto di ricettazione pur quando il reato presupposto sia un delitto di furto non punibile per mancanza di querela“.12
Da ciò deriva che non è mai necessario che il delitto presupposto sia emerso, accertato e giudicato, ma è sufficiente che lo stesso sia astrattamente prospettabile.
In altri termini, e più precisamente, il presupposto del delitto della ricettazione non deve essere necessariamente accertato in ogni suo estremo fattuale, poiché la provenienza delittuosa del bene posseduto può ben desumersi dalla natura e dalle caratteristiche del bene stesso. (Nella specie, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito secondo il quale il delitto presupposto doveva ritenersi provato dalla circostanza che un’arma da guerra non può costituire oggetto di lecito scambio tra privati).13
È necessario, però, che tale delitto presupposto sia indicato nei suoi precisi termini altrimenti venendo in crisi il principio di tassatività.
Sul punto, è stato affermato che la fattispecie criminosa di ricettazione è configurabile non già con il riferimento ad una provenienza delittuosa del bene non meglio identificata, poiché è necessario che il delitto presupposto, se pure non giudizialmente accertato, sia specificato.14
-Ulteriore aspetto che merita di essere approfondito, in relazione al reato di ricettazione, riguarda l’elemento soggettivo.
L’elemento soggettivo richiesto dal reato è il dolo; problematica è, però, la sua compatibilità con la figura del dolo eventuale. In particolare, la questione si pone in caso di dolo eventuale che si atteggia nei termini di dubbio, inteso come stato di incertezza, e conseguente conflitto di giudizi, sulla provenienza delittuosa della cosa.
Quanto alla prova del dolo secondo il costante insegnamento giurisprudenziale, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.15
Ai fini della prova del dolo, inoltre, è utile guardare al comportamento processuale dell’imputato che non avendo fornito alcuna giustificazione può ritenersi in concreto a conoscenza della provenienza delittuosa dell’oggetto (La Corte ha così concluso nel caso dell’imputato rimasto contumace in entrambi i gradi del giudizio, il quale non ha fornito alcuna spiegazione di come possa essere venuto in possesso di un assegno di incerta provenienza, rendendo impossibile qualsiasi adeguata ulteriore ricerca, e manifestando con evidenza la propria consapevolezza dell’origine illecita del bene16).
Un contrasto si segnala in relazione al momento consumativo del delitto di ricettazione. Sul punto, in particolare, si distingue chi sostiene che, in quanto reato istantaneo ad effetti permanenti, la ricettazione si consumi quando viene concluso l’accordo tra le parti, secondo lo schema del negozio consensuale (“ai fini della consumazione del delitto di ricettazione non è necessario che all’acquisto, perfezionatosi in virtù dell’accordo intervenuto tra le parti, segua materialmente la consegna della ‘res’, poiché l’art. 648 cod. pen. distingue l’ipotesi dell’acquisto da quella della ricezione”, -fattispecie in cui il fermo della merce di provenienza delittuosa presso la Dogana, ne aveva impedito la ricezione da parte dell’imputata-17; nello stesso senso “il delitto di ricettazione si consuma, nella ipotesi di acquisto, al momento dell’accordo fra cedente ed acquirente sulla cosa proveniente da delitto e sul prezzo, considerato che la “traditio” della “res” – nella quale può ravvisarsi null’altro che un momento che pertiene all’adempimento del contratto, già perfezionato ed efficace – non può ritenersi imposta dalla norma penale, come elemento strutturale della fattispecie, al punto da contrassegnarne la consumazione”18); e chi sostiene che il delitto si perfezioni soltanto a seguito di traditio, secondo lo schema del contratto reale (“l’integrazione della fattispecie di ricettazione richiede il conseguimento, in qualsivoglia modo, del possesso della cosa proveniente da delitto”19; nello stesso senso è stato affermato che “il delitto di ricettazione ha carattere istantaneo e si consuma nel momento in cui l’agente ottiene il possesso della cosa, non rilevando, a tal fine, il mero accordo tra le parti per la consegna della stessa. (La Corte ha precisato che in caso di accordo tra le parti, a cui non segua la “traditio” della “res”, l’agente risponde di tentativo di ricettazione20).
Per quanto attiene alla ricettazione per intromissione la Cassazione ha affermato che “il momento perfezionativo del reato di ricettazione per intromissione coincide con il compimento della condotta posta in essere dall’agente per fare acquistare o ricevere il danaro o le altre cose provenienti da delitto, senza che sia necessario che l’interessamento così spiegato raggiunga lo scopo che l’agente si è proposto. Il reato si consuma perciò mediante il primo atto di univoca ed idonea intromissione ed il tentativo non è configurabile”21, nello stesso senso è stato ribadito che “il delitto di ricettazione, nella fattispecie della cosiddetto “intromissione”, si perfeziona per il solo fatto che l’agente si intrometta nel far acquistare, ricevere od occultare un bene di provenienza delittuosa, non occorrendo, perché possa dirsi consumato, anche che l’intromissione raggiunga il fine ulteriore che il soggetto si è proposto. (Fattispecie nella quale l’imputato si era attivato infruttuosamente per ricercare un acquirente di un monitor al plasma, compendio di appropriazione indebita22 )”.
Un’ultima questione giurisprudenziale che appare utile affrontare, relativamente al reato di cui all’art. 648 c.p., riguarda la configurabilità o meno di una responsabilità a titolo di ricettazione per l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata.
La Suprema Corte, con sentenza a Sez. Un. del 19.1.2012, ha dato al quesito risposta negativa, traendo uno spunto da un caso di condanna per tentata ricettazione, per il compimento di atti idonei e diretti in modo univoco a ricevere un orologio Rolex contraffatto, dunque proveniente dal delitto di cui all’art. 473 c.p., e consistiti nell’eseguire un ordinativo tramite corriere espresso, senza riuscire nell’intento a causa dei controlli doganali. “Non può configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione (art. 648 c.p.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 c.p.) per l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, ma piuttosto l’illecito amministrativo previsto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 35, nella versione modificata dalla legge 23 luglio 2009, n.99, che va considerato speciale rispetto sia al delitto, sia alla contravvenzione previsti dal codice penale. Tale rapporto di specialità trova fondamento: 1) con riguardo al soggetto agente, perché mentre per i reati previsti dal codice questo può essere “chiunque”, per l’illecito amministrativo può essere solo l’acquirente finale; 2) per l’oggetto, attesa la maggiore specificità delle “cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducono a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale” rispetto alle “cose provenienti da delitto” di cui all’art.648 c.p.; 3) per l’eliminazione della formula “senza averne accertata la legittima provenienza”, il cui venir meno consente di allargare l’ambito applicativo dell’elemento psicologico dell’agente, ammettendo indifferentemente dolo e colpa”.23
Riciclaggio.
Il reato di riciclaggio è previsto e disciplinato dall’art. 648 bis c.p. Esso dispone: “fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.493.
La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.
La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648 [c.p. 648-quater]”.
In conformità con quanto indicato in premessa, il bene giuridico tutelato dalla norma in esame è sicuramente il patrimonio, in considerazione della collocazione sistematica del delitto; tuttavia, lo scopo dell’incriminazione è non solo e non tanto, come nella ricettazione, quello di evitare che si aggravino le conseguenze dannose per la vittima del reato presupposto, per la quale diventa più difficile recuperare, ad esempio, il bene sottratto o il documento falsificato, ma, piuttosto, quello di impedire che gli autori del delitto presupposto possano godere dei frutti della loro attività criminale, mascherandone l’origine illecita, e, quindi, riutilizzando i profitti e inquinando l’economia legale; scopo dell’incriminazione è, pertanto, quello di scoraggiare la stessa commissione dei reati presupposti e di evitare ostacoli alle indagini relative ai delitti predetti.
Il riciclaggio, dunque, è una fattispecie plurioffensiva che lede l’economia, l’ordine pubblico, l’amministrazione della giustizia, oltre che il patrimonio.
L’art 648 bis c.p. indica la condotta tipica come il fatto di “sostituire o trasferire denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo”. Ovvero compiere in relazione ad essi “altre operazioni” in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza. Questa struttura di fattispecie converge verso un risultato unitario, che è l’ostacolo all’identificare la provenienza delittuosa dei beni e delle altre utilità.
La “sostituzione” e il “trasferimento” dei proventi delittuosi indicano rispettivamente la trasformazione del bene in un bene diverso e il mutamento di intestazione del bene. Il “compimento di altre operazioni” è una formula di chiusura che comprende qualunque operazione che sia comunque idonea a frapporre ostacoli all’accertamento dell’origine delittuosa del denaro, dei beni e/o delle altre utilità.
La norma evidentemente presenta un elemento aggiuntivo rispetto al solo “ricevere” che integra il delitto di ricettazione.
Per quanto attiene al delitto presupposto, esso può consistere in qualsiasi delitto non colposo, consumato o tentato, lesivo di qualsiasi bene giuridico. Il reato sussiste anche quando con riguardo al delitto presupposto sia ignoto l’autore, o manchi una condizione di procedibilità, o addirittura non sia identificata la provenienza delittuosa, sempre che sia certa la provenienza da delitto.24 L’espresso riferimento al caso di mancanza di una condizione di procedibilità consente, come per la ricettazione, di punire il riciclaggio in mancanza di presentazione di querela in relazione al delitto presupposto.
A titolo esemplificativo, la condotta di riciclaggio è ravvisabile nella manomissione di elementi identificativi di un veicolo (targa, numero di telaio, numeri di identificazione di parti meccaniche), perché in questo modo si ostacola l’accertamento della provenienza del bene (fattispecie relativa alla sostituzione della targa di un motociclo)25 o in chi, avendo ricevuto denaro ad interesse usurario, lo reimpieghi mediante versamento su conti correnti bancari intestati a proprio nome, con l’intento di mascherare l’effettiva provenienza dello stesso e con la consapevolezza che in tal modo sarebbe stato possibile reimmetterlo sul mercato per compiere attività finanziaria o nel settore immobiliare, in modo da rendere più difficile l’accertamento della sua provenienza.26
E così in un caso particolare di utilizzazione di capitali di origine illecita si è affermata la responsabilità degli imputati che “…dapprima sostituivano il denaro frutto delle attività dell’associazione mafiosa …, in particolare, con numerosi libretti al portatore, poi operavano la creazione o ricapitalizzazione delle società con le quali effettuavano gli investimenti immobiliari dapprima in Sicilia … e successivamente anche nel territorio bolognese e persino estero, ove gli imputati possiedono ingenti investimenti mai adeguatamente oggetto di investigazione. Si tratta, quindi, di una serie di operazioni di sostituzione di denaro di provenienza illecita con altri beni compiute nell’arco temporale di vari anni, specificamente finalizzate ad impedire di individuare l’origine delittuosa del denaro e con le quali si sostituiva il capitale iniziale con impieghi bancari intestati al portatore, quote sociali di società di capitali o di persone, numerosissimi immobili, investimenti, spesso peraltro assolutamente arditi, in società in crisi tese a rilevarne la proprietà…”.27
In relazione ai casi come quello appena esposto, cioè che riguardano degli associati, si è posta la delicata questione attinente alla punibilità per riciclaggio dell’associato per delinquere, derivante dall’operatività o meno della clausola di riserva contenuta nell’art. 648 bis c.p.
Sul punto, peraltro, si sono pronunciate di recente le Sezioni Unite della Cassazione, a seguito dell’ordinanza di rimessione dello scorso 28 novembre relativa, specificatamente, alla configurabilità del concorso fra i delitti di cui agli artt. 648 bis (riciclaggio) o 648 ter (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) c.p. e quello di cui all’art. 416 bis (associazione di tipo mafioso anche straniere) c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa.
In materia è possibile ravvisare due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Il primo (e prevalente) indirizzo della giurisprudenza della Corte, in merito all’operare della clausola di riserva dell’art. 648 ter (che, per la sostanziale identità del fatto “conserva validità anche con riguardo all’art. 648 bis c.p.”) in relazione ai delitti di stampo associativo (artt. 416 e 416 bis c.p.), può riassumersi nella massima per cui “il concorrente nel delitto associativo di tipo mafioso, non essendovi tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere alcun rapporto di presupposizione e non operando, pertanto, la clausola di riserva […], può essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall’attività associativa, sia quando il delitto presupposto sia da individuarsi nei delitti fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell’associazione […] sia quando il delitto presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso“.28
Secondo un diverso (e più recente) orientamento, invece, sarebbe impossibile configurare il reato previsto dall’art. 648 ter c.p. “quando la contestazione del reimpiego riguarda denaro, beni o utilità la cui provenienza illecita trova la sua fonte nell’attività costitutiva dell’associazione per delinquere di stampo mafioso ed è rivolta ad un associato cui quella attività sia concretamente attribuibile“.29
Per meglio comprendere le ragioni sottese al suddetto contrasto giurisprudenziale, può risultare utile chiarire che, come è stato più volte affermato anche dalla giurisprudenza della Corte, una delle più importanti differenze intercorrenti fra il delitto di associazione per delinquere c.d. semplice (ex art. 416) e quello di stampo mafioso (ex art. 416 bis) è costituita dalla modalità con la quale le due diverse tipologie di associazione sono in grado di generare proventi (cioè il denaro, i beni o le utilità che costituiranno, poi, l’oggetto materiale dei reati di riciclaggio ed illecito reimpiego).
A tal proposito, è stato osservato come nel caso della fattispecie di cui all’art. 416 c.p. è sempre necessaria, perché sussistano proventi di qualche genere derivanti dall’associazione, la commissione di un ulteriore reato, che è il cosiddetto reato- fine, idoneo, a differenza della semplice associazione per delinquere, a produrre utilità economiche. Di conseguenza, i proventi che pure derivano dall’attività dell’associazione, costituiscono sempre un frutto “mediato” di quest’ultima, perché scaturiscono, in primo luogo ed immediatamente, dal reato fine posto in essere dagli associati.30 Pertanto, “non potendosi configurare una ontologica derivazione dei beni oggetto di riciclaggio dalla condotta associativa, non può evidentemente operare la clausola di esclusione con la quale esordisce l’art. 648 bis c.p.”.31
Nel caso dell’associazione per delinquere di stampo mafioso la questione si pone in termini parzialmente diversi. Infatti, in essa, a differenza che nell’associazione semplice, il vincolo associativo è caratterizzato da una notevole forza di intimidazione, che esplica i suoi effetti sul tessuto sociale del territorio nel quale si radica. È ben plausibile, dunque, secondo la Corte, che proprio la condizione di assoggettamento dettata dal timore e l’imposizione di un atteggiamento di omertà alla popolazione, (attività che costituiscono il “proprium” dell’associazione per delinquere di stampo mafioso), siano idonee a creare, perciò solo, utilità di tipo economico. È, pertanto, “possibile ed anzi usuale che l’associazione mafiosa abbia fra i suoi scopi anche il perseguimento di attività di per sé formalmente lecite, conseguite attraverso il metodo mafioso che imponga, ad esempio, il monopolio di soggetti mafiosi in un certo settore attraverso la desistenza di eventuali concorrenti […], il che determina che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di altri diversi reati da qualificare come fine dell’associazione“.32
Alla luce di ciò emerge che, nessun problema pone la clausola di riserva, di cui agli artt. 648 bis e 648 ter, quando il denaro, i beni o le utilità riciclate o reimpiegate siano il frutto diretto di uno dei reati- fine posti in essere dall’associazione per delinquere nell’esecuzione del proprio disegno criminoso. In questo caso, infatti, il reato presupposto nei confronti del quale la clausola opera è sempre il reato- fine in questione e mai l’associazione per delinquere, semplice o di stampo mafioso. Di conseguenza, in queste ipotesi, il concorso è senza dubbio ammesso e l’associato, che non ha concorso nel reato- fine dal quale scaturiscono i proventi riciclati o reinvestiti, potrà rispondere tanto per il reato associativo, quanto per il riciclaggio o l’illecito reimpiego.
Problematica è, invece, la situazione, possibile solo in relazione alla fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., in cui il denaro, i beni o le utilità riciclate o reimpiegate scaturiscano immediatamente dallo stesso vincolo associativo, costituendone il frutto diretto. Solo in questi casi, infatti, la clausola di riserva sembrerebbe suggerire l’impossibilità di imputare al concorrente nell’associazione per delinquere di stampo mafioso il riciclaggio o l’illecito reimpiego di quelle utilità che il vincolo associativo produce ex se.
È proprio questa seconda ipotesi che ha indotto i giudici a rimettere la questione alle Sezioni Unite della Cassazione, le quali, secondo l’informazione provvisoria, hanno aderito alla soluzione negativa; chiamata a pronunciarsi sul quesito se sia configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648 bis o 648 ter cod. pen. e quello di cui all’art. 416 bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa la soluzione adottata all’udienza del 27 febbraio 2014 è stata negativa. E’ certo però che tale impostazione riguarda il solo caso particolare in cui i beni o le utilità riciclate provengano non dalla consumazione dei delitti fine, bensì dalle attività proprie ed esclusive dell’organizzazione criminale.
-Un ultimo profilo che appare utile affrontare, relativamente al delitto di cui si discute, attiene alla questione, oggi fortemente dibattuta, della punibilità del c.d. autoriciclaggio.
Nel nostro ordinamento “colui che abbia commesso il reato presupposto non può essere ritenuto punibile anche del reato di riciclaggio per avere sostituito o trasferito il provento del reato presupposto: infatti, non essendo configurabile il delitto di autoriciclaggio, diventano del tutto irrilevanti, ai fini giuridici, le modalità con le quali l’agente abbia commesso l’autoriciclaggio, sia che il medesimo sia avvenuto con modalità dirette sia che sia avvenuto, ex art. 48 c.p., per interposta persona e cioè per avere l’agente tratto in inganno un terzo autore materiale del riciclaggio”.33
Attraverso la previsione della clausola di riserva (su cui si è già ampiamente scritto), il riciclaggio è escluso nel caso in cui il suo autore abbia concorso nel reato da cui il denaro, i beni e le utilità derivano.
Oggi l’autoriciclaggio non costituisce un’autonoma fattispecie penale sulla base dell’assunto di teoria generale secondo cui l’utilizzazione dei beni di provenienza illecita da parte degli stessi soggetti che hanno partecipato alla realizzazione del reato presupposto costituisce un postfactum non punibile. In sostanza, l’offensività della condotta di autoriciclaggio sarebbe di per sé già punita nel momento in cui viene punita la condotta dalla quale è scaturito l’arricchimento.
Sul piano criminologico, la condotta di chi “autoricicla” appare sempre più diffusa in connessione con reati di appropriazione indebita, evasione fiscale e corruzione. Non è, infatti, infrequente che esponenti o titolari di aziende si accordino con terzi “riciclatori”, nel senso di utilizzare mezzi di questi ultimi, come società di comodo che emettono fatture per prestazioni inesistenti, allo scopo e con l’effetto di sottrarre all’azienda e a tassazione, e in seguito riciclare, denaro o beni sociali da destinare a proprio uso personale, per finalità corruttive o altro. È anche per questi motivi che l’introduzione della fattispecie di “autoriciclaggio” si rende oggi quanto mai necessaria, come risulta, del resto, confermato negli orientamenti degli organismi internazionali operanti in materia, nelle numerose direttive comunitarie che affrontano il tema (in particolare la direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, e la direttiva 2006/70/CE della Commissione, del 4 agosto 2006) e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale.
Occorre formulare, però, alcuni rilievi. Un primo rilievo, di carattere generale, riguarda la collocazione sistematica della norma in materia di riciclaggio. L’inserimento degli artt. 648 bis e 648 ter nel titolo tredicesimo del codice penale, concernente i delitti contro il patrimonio, deriva dalla scelta iniziale del legislatore di costruire tali fattispecie criminose sul modello del delitto di ricettazione. In realtà, è ormai indiscusso che le attività di riciclaggio e di reinvestimento incidono in misura sensibile sul sistema finanziario, utilizzato dal crimine organizzato per l’allocazione più conveniente delle risorse patrimoniali illecitamente conseguite.
Non esiste, però, nel catalogo dei beni-interesse considerati nella parte speciale del codice penale, il bene giuridico collegato all’integrità del sistema finanziario, per cui appare non agevole –nella riformulazione della disposizione in tema di riciclaggio- trovare per tale fattispecie un’autonoma collocazione. Si è, pertanto, ipotizzata un’integrazione del titolo ottavo del libro secondo del codice penale, introducendo un Capo IV relativo ai delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, includendo anche fattispecie di reato che si riferiscono all’incidenza sul sistema delle relazioni economiche derivante dalla circolazione di ricchezze di provenienza illecita.
Un secondo rilievo riguarda, invece, l’opportunità di inserire in una medesima disposizione le fattispecie di riciclaggio e di reinvestimento che sono oggi disciplinate in modo separato dagli artt. 648 bis e 648 ter. Il fenomeno del riciclaggio ricomprende la fase del placement (“collocamento” dei proventi illeciti), del layering (“stratificazione”, consistente in operazioni finanziarie finalizzate a separare i capitali illeciti dalla propria matrice) e dell’integration (consistente nell’ “integrazione” dei proventi “ripuliti” nei circuiti dell’economia lecita, attraverso investimenti o l’esercizio di attività imprenditoriali). Sembra, dunque, inutile separare le fattispecie, lasciando di conseguenza che la causa di esclusione della punibilità resti vigente nella fattispecie di cui all’art. 648 ter c.p. per colui che abbia realizzato condotte ricomprese nella previsione di cui all’art. 648 bis c.p. Se il riciclaggio consiste in una pluralità di condotte, chi realizzi anche una soltanto di esse è da considerare comunque autore di quel delitto: ciò agevola ovviamente la comprensione di fenomeni complessi, come quelli che coinvolgono una pluralità di soggetti di volta in volta impiegati nella sostituzione o nell’investimento di disponibilità finanziarie nell’ambito di organizzazioni criminali ove i ruoli dei soggetti che operano in quel campo appaiono mutevoli a seconda delle contingenti necessità.
Alla luce di quanto detto, appare evidente, oggi più mai, la necessità di inserire nel nostro ordinamento la fattispecie di cui si discute.
Il delitto di “Trasferimento fraudolento di valori” di cui all’art. 12 quinquies della legge 356 del 1992
L’art. 12 quinquies del D.L. n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del 1992, intitolato “Trasferimento fraudolento di valori”, punisce con la pena della reclusione da 2 a 6 anni, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, beni o altra utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648 bis e 648 ter del c.p.”.
La ratio della norma va ravvisata nell’esigenza di prevenire e punire condotte che agevolino l’occultamento di valori, da qui l’utilizzo di termini onnicomprensivi che richiamano una casistica generica, che ha come comune denominatore il mantenimento dell’effettivo potere sulla cosa trasferita in capo al soggetto che effettua il trasferimento, o per conto del quale, il trasferimento stesso viene effettuato.
La disposizione rientra, a ben vedere, fra quelle che evidenziano un interesse sempre maggiore per la genuinità delle transazioni economico-finanziarie.
Tale fattispecie è stata ritenuta integrata, ad esempio, nel caso di attribuzione della titolarità, disponibilità e gestione di un bar, di pertinenza di una famiglia mafiosa, a terzi soggetti. È stato affermato, in particolare, che sussista il delitto contestato di cui all’art. 12 quinquies della legge n. 356 del 1992 “ogni qual volta venga effettuata una fittizia intestazione di beni a terzi soggetti finalizzata ad evitare misura ablative”. 34
La Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di stabilire detto principio affermando che in tema di delitto di trasferimento fraudolento di valori, di cui si discute, realizza un autonomo reato, e non un “post-factum” non punibile, la creazione, da una originaria società fittizia, di nuove società, al fine di coprire e mascherare la reale proprietà dei beni.35 Ciò è quello che si verifica quando i proprietari reali di beni si adoperino per creare nuove situazioni giuridiche fittizie tramite, ad esempio, l’individuazione di nuovi soggetti giuridici cui attribuire la sola apparente titolarità dei cespiti.
Per quanto attiene alla consumazione del reato, il delitto di trasferimento fraudolento di valori, ha natura di reato istantaneo con effetti permanenti, e si consuma, qualora la condotta criminosa si articoli in una pluralità di attribuzioni fittizie, nel momento in cui viene realizzata l’ultima di esse.36 Pertanto, è evidente che la nuova fittizia intestazione ad altri prestanome comporta la consumazione di una nuova condotta illecita.37
Da ultimo occorre affrontare il problema del coordinamento fra questa disposizione e la fattispecie di cui all’art. 648 bis c.p. È, infatti, immediatamente percepibile la sovrapponibilità della condotta della norma in esame con quella di riciclaggio; anche nel riciclaggio l’oggetto del reato “da ripulire” rimane, sostanzialmente, sempre nella disponibilità sostanziale del reato presupposto, così come l’attribuzione fittizia è spesso una delle prime fasi della procedura più complessa di ripulitura.
Tuttavia, la clausola di sussidiarietà che apre l’art. 12 quinquies sembra relegare tale fattispecie in una posizione di assoluta residualità rispetto all’intero sistema repressivo delineato. Sembrerebbe, in particolare, che l’operatività di tale ultima fattispecie sia relegata alle sole ipotesi in cui vi sia una insufficienza probatoria per l’art. 648 bis c.p. oppure non si sia verificato l’ostacolo nella identificazione della provenienza delittuosa. In tal caso, in conformità con le finalità della norma, potrà essere applicato l’art. 12 quinquies.
A ben vedere, però, sembra possibile riconoscere alla suddetta fattispecie un ulteriore campo operativo, quando, cioè, il soggetto attivo del reato di cui all’art. 12 quinquies coincida con l’autore del reato presupposto, al quale non è possibile imputare l’atto di riciclaggio in virtù della clausola di esclusione contenuta nell’art. 648 bis c.p. In questo caso il soggetto colpevole del reato a monte va punito ai sensi dell’art. 12 quinquies andando, invece, esente dalla punibilità per riciclaggio.
In conclusione, l’analisi delle norme sopra indicate e dei principi giurisprudenziali formulati dai giudici di merito e legittimità nella loro applicazione ai casi concreti permette, quindi, di individuare un filone interpretativo comune che, spostando la consumazione dei delitti a qualsiasi ipotesi di trasferimento successivo al primo reimpiego, individuando condotte illecite anche nelle attività di intermediazione, e così, in definitiva, allargando la sfera della punibilità, mira, in concreto, a reprimere qualsiasi fenomeno connesso all’utilizzazione di denaro od oggetti di provenienza illecita, attribuendo al profitto del delitto un carattere illecito ab origine mai più eliminabile, ed impedendone qualsiasi conversione nell’economia legale.
1 Sentenza n. 195864 del 2/7/2003
2 Sez. 2, Sentenza n. 9573 del 05/06/1990 Ud. (dep. 03/07/1990 ) Rv. 184787
3 Sez. 2, Sentenza n. 8736 del 10/04/1981 Ud. (dep. 10/10/1981 ) Rv. 150435
4 Sez. 2, Sentenza n. 19673 del 07/03/2003 Ud. (dep. 28/04/2003 ) Rv. 224767
5 Sez. 2, Sentenza Corte di Appello di Palermo del 27/11/2012, imp. B.
6 Sez. 1, Sentenza n. 3527 del 23/01/1997 Ud. (dep. 16/04/1997 ) Rv. 207227
7 Sez. F, Sentenza n. 39187 del 29/08/2013 Ud. (dep. 23/09/2013 ) Rv. 256912
8 Sez. 5, Sentenza n. 17979 del 05/03/2013 Ud. (dep. 19/04/2013 ) Rv. 255518
9 Sez. Un. Sentenza n. 47164 del 2005
10 Sez. 2, Sentenza Corte di Appello di Palermo del 14/5/2013, imp. M.
11 Sez. 1, Sentenza n. 13600 del 13/03/2012 Ud. (dep. 12/04/2012 ) Rv. 252286
12 Sez. 2, Sentenza n. 33478 del 28/05/2010 Ud. (dep. 10/09/2010 ) Rv. 248248
13 Sez. 1, Sentenza n. 29486 del 26/06/2013 Ud. (dep. 10/07/2013 ) Rv. 256108
14 Sez. 2, Sentenza n. 26308 del 22/06/2010 Cc. (dep. 09/07/2010 ) Rv. 247742
15 Sentenza n. 29198 del 25/5/2010
16 Sez. 2, Sentenza della Corte di Appello di Palermo del 2/07/2013, imp. S.
17 Sez. 2, Sentenza n. 31023 del 25/06/2013 Ud. (dep. 19/07/2013 ) Rv. 256843
18 Sez. 2, Sentenza n. 46899 del 07/12/2011 Ud. (dep. 20/12/2011 ) Rv. 251454
19 Sez. 2, Sentenza n. 12763 del 11/03/2011 Ud. (dep. 29/03/2011 ) Rv. 249863
20 Sez. 2, Sentenza n. 19644 del 08/04/2008 Ud. (dep. 16/05/2008 ) Rv. 240406
21 Sez. 2, Sentenza n. 8432 del 20/04/1988 Ud. (dep. 28/07/1988 ) Rv. 178969
22 Sez. 2, Sentenza n. 8714 del 11/02/2011 Ud. (dep. 04/03/2011 ) Rv. 249815
23 Sez. Un., Sentenza n. 22225 del 19/01/2012 Ud. (dep. 08/06/2012 ) Rv. 252453
24 Sez IV, Sentenza n. 495 del 9/01/2009; Sez. II, Sentenza n.546 dell‘ 11/01/2011
25 Sez. 2, Sentenza n. 30842 del 03/04/2013 Ud. (dep. 18/07/2013 ) Rv. 257059
26 Sez. 2, Sentenza n. 28856 del 08/05/2013 Ud. (dep. 08/07/2013 ) Rv. 256821
27 Sez. 2, Sentenza della Corte di Appello di Palermo n. 2762 del 14-7-2011
28 Sez. 1, Sentenza n. 40354 del 27/05/2011; Sez. 2, Sentenza n. 27292 del 4/06/2013.
29 Sez. 6, Sentenza n. 25633 del 24/05/2012
30 Sez. 2, Sentenza n. 10582 del 14/02/2003; Sez. 2, Sentenza n. 44138 del 08/11/2007
31 Sez. 2, Sentenza n. 10582 del 14/02/2003
32 Sez. 1, Sentenza n. 6930 del 27/11/2008; Sez. 1, Sentenza n. 1439 del 27/11/2008
33 Sez. 2, Sentenza n. 9226 del 23/01/2013 Ud. (dep. 27/02/2013 ) Rv. 255245
34 Sez. 2, Sentenza della Corte di Appello di Palermo n. 1647 del 2-5-2011
35 Sentenza n. 10024 dell’11/12/2008, RV 242754
36 Sentenza n. 23266 del 28/5/2012, RV 247581
37 Sentenza della Corte di Appello di Palermo n.1647 cit.
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