Kelsen vs. Jørgensen: quale logica del diritto?

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Kelsen: un irrazionalista alle prese con le proposizioni normative

 

Secondo Losano l’itinerario speculativo di Hans Kelsen è intimamente contraddittorio dal momento che da un iniziale logicismo approda ad un finale irrazionalismo in materia normativa. In linea generale, concordo con tale giudizio. Piuttosto trovo che sulle ragioni di tale sorprendente evoluzione non ci sia molto da dire dato che è l’esito esatto di una premessa metodologica precisa e consistente nella distinzione tra Sein e Sollen, o, per meglio dire, tra la conoscenza e la valutazione, o, il che è del tutto equivalente, tra la scienza e il diritto. In altri termini, posto in essere questo salto logico tra la prima e la seconda, quale fondamento razionale possiamo trovare nelle valutazioni giuridiche? E segnatamente per le specifiche proposizioni che le realizzano? Kelsen, fedele sino alla fine a questo iato, a questa distinzione, a tale netta polarità, «critica tutti i tentativi di ricondurre il dover essere all’essere, mettendo così capo ad una concezione della norma ove in primo piano v’è solamente la volontà, vale a dire un atto della volontà in tutto irriducibile alla ricostruzione teorica, e, quindi, consegnato ad un sostanziale irrazionalismo in forza del quale le norme hanno luogo, punto e basta. Losano, al riguardo, appare esplicito quando scrive che «Concependo le norme come atti della volontà ed escludendo l’applicazione della logica ad esse, Kelsen ha reso ancora più profonda la separazione tra il mondo dell’essere e quello del dover essere e, quindi, ha reso ancora più coerente il suo sistema teorico-giuridico fondato su questa separazione», un’ulteriore depurazione radicale, prevista nella sua teoria “pura” del diritto, che, però, è appena il caso di farlo notare, avviene «a caro prezzo».

Rifacendosi alla topica di inizio XX secolo intorno alla sensatezza delle proposizioni normative, segnatamente quelle che pongano in essere una valutazione dei fatti del mondo, appare interessante, a mio avviso, la lettura che Kelsen dà del tentativo jørgensiano di approntare una sistemazione formale al possibile trattamento logico da dare agli imperativi. Intendo, così, fornire un resoconto, anche se parziale, di quest’ultima al fine di condurre una breve riflessione intorno alla logica del diritto.

 

Jørgensen: un neopositivista alle prese con le proposizioni normative

 

Nel 1938 il danese Jørgensen pubblica il saggio dal titolo Imperatives and Logic con il quale ha inizio il tentativo di prendere in considerazione sub specie logica gli enunciati normativi, il tutto all’interno di una cornice neopositivista. Com’è noto, la discussione al riguardo ha impregnato fortemente anche la successiva filosofia analitica, la quale nasce come evoluzione del neopositivismo, indirizzando in una certa maniera, piuttosto che in altre possibili, l’analisi del linguaggio normativo, e, segnatamente, la possibile considerazione in merito alla razionalità di etica e diritto. Al punto che, ad un certo punto, è stata anche cucita addosso allo Jørgensen la responsabilità, o il merito, a seconda dei rispettivi punti di vista, di aver formulato per la prima volta una topica ben precisa, il cosiddetto dilemma di Jørgensen, la quale, pur prendendo le mosse dal riconoscimento della divisione tra «fatti» e «valori», vale a dire tra l’essere e il dover essere, e pur desiderando in qualche modo superarla, finisce paradossalmente con il rendere ancora più profondo il solco, ancor più netto il distacco, ancora più duraturo il salto. E tuttavia la figura di Jørgensen, così come il suo contributo, ai fini di un possibile sviluppo di una logica adeguata alle proposizioni normative appare davvero imprescindibile, se non altro perché sintetizza in maniera compiuta tutte le difficoltà chiamate in causa da un’estensione, certo auspicabile ma teoricamente assai problematica, della logica alle enunciazioni non descrittive di stati di cose. In ogni caso, però, a mio sommesso parere, dovrebbero essere chiare due cose sostanzialmente semplici: 1) Jørgensen non ha mai formulato la topica successivamente nota come dilemma di Jørgensen dal momento che non si è limitato alla sterile contemplazione di una differenza non mediabile tra proposizioni descrittive di stati di cose e proposizioni prescrittive di stati di cose; e, 2) le posteriori interpretazioni del lavoro del logico danese possono venir considerate come altrettante possibili versioni del puzzle da lui riscontrato, e che verteva, piuttosto, sulla constatazione in forza della quale, da un lato, a rigore non sarebbe possibile un’applicazione della logica alle proposizioni imperative, via la loro adiaforità ai valori vero funzionali, e, nello stesso tempo, sono possibili diversi contro – esempi a questa impossibilità teorica, derivanti dalla considerazione che, all’esatto contrario, sono fattive delle inferenze che ammettono proposizioni imperative al posto delle premesse o della conclusione e queste ultime appaiono del tutto razionali.

 

L’analisi jørgensiana sull’applicabilità della logica agli enunciati del diritto

 

Con questo animus, Jørgensen propone di scomporre gli enunciati normativi in due distinti elementi, un «imperative factor» e un «indicative factor». Con il primo elemento s’intende cosa viene comandato o desiderato, vale a dire lo specifico contenuto del comando o della volontà; invece, con il secondo elemento la descrizione di cosa venga comandato o desiderato, vale a dire la specifica forma grammaticale in virtù della si ottengono comandi o desideri. Rifacendosi, ma solo in parte, a dire il vero, al lavoro di Wittgenstein, Jørgensen riduce in buona sostanza la dimensione normativa alla forma grammaticale dell’enunciazione dalla quale, infine, derivano tanto il modo imperativo quanto il modo descrittivo delle enunciazioni linguistiche. Pertanto, il Nostro sembra suggerire che il modo enunciativo sia secondario rispetto alla varianza grammaticale del singolo enunciato. Questo perché ciascun enunciato normativo ha un parallelo indicativo il quale, a differenza del precedente, «is capable of being true or false». Allora, se a ciascun enunciato al modo imperativo corrisponde uno, ed un solo, enunciato al modo descrittivo, diviene possibile superare la succitata divisione tra i fatti  e i valori riducendo qualsiasi enunciato normativo ad un corrispettivo enunciato che lo descriva. Il fulcro dell’operazione presente è, detto altrimenti, la capacità, propria degli enunciati descrittivi, di descrivere «the contents of the command or wish». Questi ultimi descrivono alla maniera degli enunciati wittgensteiniani che stanno per il mondo che rappresentano, ma, nello stesso tempo, sono nativamente suscettibili di trattamento formale da parte dell’usuale logica vero-funzionale, la stessa che, al contrario, «do not apply to the imperative sentences». In questo modo, allora, il problema dei rapporti tra i «fatti» e i «valori» non è più «of a logical but rather of a psycological nature». Per Jørgensen, dunque, il fattore imperativo è del tutto subordinato a quello indicativo, «the imperative factor being an expression of the willing or wishing of the action or the state of affairs which is described by the indicative factor», vale a dire dal «derived indicative sentence».

Non importando dal reame delle proposizioni normative l’adiaforità dei valori di verità, le proposizioni descrittive di norme non comportano problemi di sorta per l’applicazione degli strumenti formali da parte della logica né tantomeno difficoltà nel costruire inferenze.

Quest’ultima logica, però, non si applica direttamente alle proposizioni normative, ma solo indirettamente trovando applicazione a normalissime proposizioni descriventi. Inutile, allora, non concordare con Ross il quale non è tenero con questa pretesa jørgensiana bollandola nei termini di una pseudo – logica. E, d’altra parte, cosa può dirsi della proposta di riduzione delle proposizioni normative a quelle indicative descrittive? A mio sommesso parere, una cosa abbastanza pacifica, per non dire del tutto ovvia, e cioè che si tratta di un modo di procedere fallace dal momento che riconduce la dimensione normativa a quella non normativa. Ma quest’ultimo giudizio, forse, non diminuisce di nemmeno un nonnulla il valore intrinseco dell’analisi compiuta da Jørgensen, e, segnatamente, della constatazione del puzzle da lui colto nel confronto tra inferenze con proposizioni descrittive e inferenze con proposizioni normative.

 

La lettura kelseniana dell’analisi jørgensiana

 

Sicuramente le norme sono costituite da proposizioni normative, vale a dire da enunciazioni che prescrivono a qualcuno di fare qualcosa. Questa, in estrema sintesi, la morfologia principale delle norme. Nella sua opera postuma Allgemeine Theorie der Normen, Kelsen consegna il punto situazionale più evoluto, ma incompiuto a causa della sua scomparsa nel 1973, della sua teoria complessiva intorno al tema della norma, tanto caro a filosofi e giuristi. E in essa il giurista fissa una volta per tutte il significato che le attribuisce: «significa che qualcosa deve essere o deve accadere. Essa viene espressa linguisticamente mediante un imperativo o una proposizione normativa […] L’atto il cui senso è qualcosa che viene ordinato, prescritto, è un atto di volontà. Ciò che viene ordinato, prescritto, è anzitutto un determinato comportamento umano. Chi comanda, prescrive qualcosa, vuole che qualcosa debba accadere. Il dover essere, la norma, è il senso di un volere, di un atto di volontà e […] è il senso di un atto diretto al comportamento altrui, e cioè di un atto secondo cui un altro soggetto (o altri soggetti deve (o debbono) comportarsi in un certo modo». Isoliamo, allora, i nuclei concettuali utili alla considerazione presente e che altrimenti resterebbero intrappolati nella densa prosa kelseniana. In primo luogo, una norma è il significato di una proposizione normativa la quale è un atto della volontà. In secondo luogo, la volontà dei comandi, delle prescrizioni, delle obbligazioni è una sorgente abilitata a ciò, vale a dire una fonte riconosciuta di comando, di obbligo, di prescrizione. In terzo luogo, la norma, dunque, è il significato espresso da un volere, vale a dire da un atto di volontà da parte di una sorgente legislativa o normativa. In quarto, ed ultimo, luogo, la norma regola il comportamento di terzi, vale a dire che la potestà normativa desidera, e, quindi, ordina, che altre persone si comportino in una certa maniera.

Ora la derivazione del senso specifico delle norme dalla volontà di una sorgente normativa irrigidisce, forse in maniera definitiva, la problematica dei rapporti tra essere e dover essere, tra Sein  e Sollen, tra is e ought perché confina in un luogo inaccessibile all’analisi filosofica la sorgente ultima della forza normativa di determinate proposizioni.

Fedele a questa impostazione, Kelsen prende in esame il tentativo jørgensiano di superamento del puzzle nel capitolo LI. Ai miei occhi, appare interessante il rilievo critico mosso nei confronti di Jørgensen. Infatti, Kelsen commenta asserendo che «egli rappresenta già il fattore imperativo come fattore indicativo», avvicinando la sua lettura ad alcuni commenti all’analisi jørgenseniana che abbiamo avuto modo di svolgere in precedenza. A tutti gli effetti, penso si possa dire che Jørgensen riduca, in buona sostanza, il fattore imperativo a quello indicativo, avendo buon agio, di conseguenza, nell’estendere l’applicazione della comune logica vero-funzionale alle proposizioni imperative per il tramite della componente indicativa. D’altro canto, osserva ancora Kelsen, il fattore imperativo «è l’asserzione, secondo cui qualcosa viene comandato, desiderato, cioè un’asserzione sull’atto di imperio». Dunque, il giurista rimprovera all’epistemologo la troppo facile semplificazione del quadro problematico, l’evidente fallacia di aver arbitrariamente ridotto il fattore imperativo al fattore indicativo. Infatti, aggiunge che «Il fattore imperativo però può essere soltanto il modus imperativo, cioè il modus del dover essere». Facendo ricorso alla differente modalità d’enunciazione nel caso di una proposizione normativa e nel caso di una proposizione descrittiva, il giurista critica Jørgensen, riconducendo, di conseguenza, i due fattori alla loro dimensione propria. Vale a dire che Jørgensen ha equivocato tra forma dell’enunciazione, ossia lo specifico modus enunciativo, e contenuto dell’enunciazione, ossia la medesima sequenza linguistica che figura tanto nell’enunciazione imperativa quanto nell’enunciazione indicativa, almeno nell’analisi compiutane da Jørgensen. Piuttosto, Kelsen asserisce che ciò «che viene prescritto, cioè ordinato con un ordine, comandato con una norma, è un substrato modalmente indifferente che si manifesta nell’ordine e nella norma nel modus del dover essere, cioè nel modus imperativo, non già in un modus indicativo diverso da questo, cioè come asserzione che può essere vera o falsa». Precisato ciò, le possibili analogie scorte da Jørgensen si dissolvono perché l’apparente continuità linguistica tra il contenuto di una norma e la sua forma enunciativa erroneamente non tiene conto del differente modus enunciativo. In sostanza, non basta enunciare descrittivamente il contenuto di una norma per riprodurre quest’ultima, vale a dire per enunciare un atto linguistico avente la medesima funzione di una norma. Detto altrimenti, v’è dell’altro che rende una norma una norma. Isolare da quest’ultima due fattori, uno indicativo e l’altro imperativo, non consente di cogliere da un punto di vista logico la profonda quanto irriducibile differenza enunciativa tra una proposizione indicativa, per quanto descrittiva del contenuto di una norma, e una proposizione imperativa, per quanto affine sotto la dimensione meramente rhetica dell’enunciazione. Il contenuto della norma, sebbene espressa in una comune lingua naturale, è un substrato indifferente allo specifico modus enunciativo. Vale a dire che per ciò che viene prescritto, comandato, ordinato o desiderato è del tutto indifferente che occorra in una proposizione normativa o in una proposizione indicativa perché quel che rende normativa una proposizione è il modo enunciativo e non il suo specifico contenuto. Come a dire che l’abito non fa il monaco. Pertanto, il substrato modalmente indifferente non rende una sequenza linguistica né una proposizione normativa, vale a dire una norma, né una proposizione indicativa, vale a dire una descrizione (di qualcosa).

Per di più, Kelsen rincara la dose annotando ulteriormente che l’assunzione in forza della quale «l’imperativo contenga un fattore indicativo è una conseguenza dell’opinione, generalmente accettata, che il dover essere è «diretto» ad un essere, quindi che al dover essere debba essere immanente un essere. Ciò è tuttavia una scorretta descrizione del rapporto tra il dover essere e l’essere ad esso corrispondente». Così non è. Ne consegue, per logica e pacifica conseguenza, che l’assunzione di Jørgensen sia illusoria oltre che funzionale al progetto di superamento della dicotomia tra proposizioni normative e proposizioni indicative, cioè bellamente posta ad hoc per ricavare surrettiziamente delle proposizioni descrittive a partire da proposizioni imperative di partenza. Il fatto che vi sia una proposizione imperativa , al contrario, non implica in alcuna maniera l’esistenza di un essere o fatto o evento corrispondente. Detto altrimenti, l’esistenza di un dover essere non implica affatto l’esistenza di un essere corrispondente. Si vede qui operativa la distinzione neopositivista tra Sollen e Sein, in forza della quale non è attuale una diretta corrispondenza tra enunciazione imperativa ed enunciazione indicativa.

Piuttosto, sembra suggerire Kelsen, tutte le considerazioni che Jørgensen svolge intorno al tema presente, ossia al rapporto tra proposizioni normative e proposizioni indicative, «sono asserzioni sopra l’ordine, sopra la norma», sono asserzioni descrittive di proposizioni normative. Di conseguenza non consentono affatto alcun progresso teorico rispetto alla problematicità di una logica applicata alle norme della morale e del diritto, alla stessa maniera di come non abilitino affatto a “sognare” un netto superamento dello iato tra essere e dover essere. Infatti, tali asserzioni, sebbene affini alle proposizioni che descrivono, «sono proposizioni completamente differenti» e «non sono contenute» nelle proposizioni stesse che descrivono.

Questo perché, sembra concludere Kelsen, «ordine e asserzione sono due significati completamente diversi; l’uno è il senso di un atto di volontà, l’altro il senso di un atto di pensiero».

 

Quale logica è quella del diritto?

 

Gran parte degli autori, filosofi e logici in modo particolare, hanno accolto il primo corno del cd. dilemma di Jørgensen «negando conseguentemente la possibilità di una logica delle norme». Questo, però, è, a sua volta, problematico dal momento che «implica una concezione irrazionale delle norme». È, segnatamente, il caso di Kelsen che approda ad una posizione radicalmente quanto integralmente irrazionalista in tema di norme dal momento che secondo lui può affermarsi «che la norma «dice» che qualcosa deve essere o deve accadere nella misura in cui non si è indotti da ciò a confondere la norma con un’asserzione. La norma non è infatti un’asserzione e […] deve essere nettamente distinta da un’asserzione, in particolare anche dall’asserzione sopra una norma. Infatti l’asserzione è il senso di un atto di pensiero mentre la norma […] è il senso di un atto di volontà rivolto intenzionalmente ad un certo comportamento umano».

Ora, rispetto all’analisi jørgensiana e alla posteriore lettura datane da Kelsen, cosa può dirsi? A dispetto degli esiti a dir poco sconfortanti in tema di logica del diritto, Kelsen è comunque una figura non evitabile al riguardo. La ragione di ciò è semplice, se poniamo mente alle parole di Bulygin: «Hans Kelsen fa caso a sé: malgrado la sua formazione filosofica non analitica, credo sia appropriato includerlo tra i filosofi analitici del diritto (quanto meno, come analitico avant lettre), non solo per la grande influenza da lui esercitata sui teorici analitici del diritto, ma soprattutto per il suo modo di fare filosofia del diritto. Quasi tutti i filosofi analitici del diritto europei e latino – americani sogliono occuparsi estesamente dell’opera di Kelsen, non foss’altro che per sottolineare i punti di disaccordo. In un certo modo, la posizione di Kelsen nella filosofia del diritto può essere paragonata a quella di Frege nella filosofia generale. Generalmente parlando, Frege non era un filosofo analitico, ma la sua influenza sui filosofi analitici difficilmente può essere sopravvalutata».

In modo particolare, sembra proprio che il Kelsen sia un luogo imprescindibile della filosofia del diritto contemporanea perché si situa nel perimetro di confine tra il formalismo neopositivistico e il formalismo postpositivistico, con l’indubbio merito, al pari dei suoi innegabili limiti o difetti, come ad esempio il vago kantismo di riferimento, di aver dimostrato come «la tesi puramente normativistica sia non meno insostenibile di quella puramente sociologica o realistica». In conclusione, dunque, penso si possa affermare che Kelsen abbia fornito la più raffinata sintesi del metodo formalistico di analisi del diritto proprio del neopositivismo, ma che lo sviluppo successivo della logica del diritto abbia trovato in altri autori e in ben altri luoghi la propria sede consona ad una sviluppo compiuto.

 

Bibliografia

 

B. Celano, Per un’analisi del discorso dichiarativo, “Teoria”, 1, 1990, pp. 165 – 181.

C. Dalla Pozza, Una logica pragmatica per la concezione «espressiva» delle norme, in A. A. Martino (ed.), Logica delle norme, Seu, Pisa, 1997, pp. 1 – 31.

G. Fassò, Storia della filosofia del diritto 3. Ottocento e Novecento, Laterza, Roma – Bari, 2006.

J. Jørgensen, Imperatives and Logic, “Erkenntnis”, 7, 1937 – 8, pp. 288 – 296.

H. Kelsen, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985.

M. G. Losano, La dottrina pura del diritto dal logicismo all’irrazionalismo, Introduzione, a: H. Kelsen, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, pp. xvii – lxi.

A. Pizzo, Il puzzle di Jørgensen: enigma vs. dilemma, “Diritto&diritti”, ISSN: 1127 – 8579, 19 Marzo 2014, contenuto on – line: https://www.diritto.it/docs/36067-il-puzzle-di-j-rgensen-enigma-vs-dilemma.

A. Pizzo, Recensione, a: A. Marturano, Il “Dilemma di Jørgensen”, Aracne, Roma, 2012, “ReF/Recensioni filosofiche”, ISSN: 1826 – 4654, contenuto disponibile on – line: http://www.recensionifilosofiche.info/2014/06/marturano-antonio-il-dilemma-di-jrgensen.html.

Cfr. A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 74 – 96.

Pizzo Alessandro

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