L’esperienza sociale degli ultimi decenni ha restituito numerose possibilità alternative per le coppie infertili che desiderano avere figli. Ogni valutazione sulla efficacia ed il significato metagiuridico di ciascuna specifica modalità si lascia allo spirito critico del lettore. La scienza ha approntato alcune procedure tecnicamente avanzate che consentono a coppie sterili di avere figli, tra le quali la surrogazione di maternità, sulla quale si dirà più ampiamente in questa nota. Per surrogazione di maternità si intende una gestazione condotta secondo l’iter seguente: il genitore di sesso maschile (o un donatore esterno) conferisce il suo liquido seminale che viene utilizzato per fecondare l’utero di una donna terza rispetto alla coppia, c.d. madre surrogata, la quale si impegna a portare a compimento la gravidanza per poi consegnare l’infante. Questa pratica medica ha funzione risolutiva dell’impossibilità di avere figli a causa dell’infertilità del genitore di sesso femminile ed in Italia è illegale. La legge sulla procreazione medicalmente assistita (L. 19 Febbraio 2004, n.40), sanziona all’art. 12 l’attività di organizzazione, realizzazione o pubblicizzazione dell’attività di surrogazione di maternità con la reclusione da dieci a venti anni o la multa fino al non indifferente importo di un milione di euro. La rigidità delle sanzioni esprime limpidamente la reticenza del Legislatore verso questa pratica medica, la quale ha generato un tumultuoso dibattito nell’opinione pubblica guadagnandosi persino denominazioni impietose come “utero in affitto”.
Nel caso di specie il genitore di sesso femminile della coppia aveva subito un’isterectomia ed il genitore di sesso maschile era affetto da oligospermia, dal che ne conseguiva che entrambi erano concretamente incapaci di generare. Su queste premesse, la coppia si era rivolta ad una donna di nazionalità ucraina perché si prestasse a condurre la gravidanza in luogo della madre, dopo essere stata inseminata con lo sperma di un donatore terzo. Si precisa, a fini di maggior chiarezza, che la legge ucraina consente tale pratica.
A seguito del cominciamento di un procedimento penale a carico della coppia per il reato di alterazione di stato, la procura minorile si era rivolta al Tribunale dei Minori per ottenerne la dichiarazione di adottabilità del minore. Dalle risultanza delle analisi tecniche di laboratorio condotte sui coniugi era in seguito risultato che, s’intende, il minore non era figlio naturale di alcuno tra i due. Dal che il tribunale aveva disposto lo stato di adottabilità.
Una menzione fugace alla ratio legis del divieto di surrogazione di maternità: è limpido che tale pratica costituisce elusione della disciplina relativa all’adozione. Valga a titolo di esempio che la coppia coinvolta nel procedimento in discussione aveva visto per tre volte respinta la propria domanda di accesso alla procedura di adozione di un minore.
Altra considerazione di carattere generale attiene alla pertinenza della dichiarazione dello stato di abbandono del minore nel caso di specie, ossia nella eventualità di fecondazione eterologa per surrogazione di maternità. Sta in fatto che il figlio è stato generato da terzi: così è limpidamente nel caso in discussione, osservato che il padre va individuato nel donatore terzo e la madre naturale in quella “commissionaria” dell’impegno a condurre la gestazione. Il minore si trova quindi de facto collocato presso due soggetti diversi dagli effettivi genitori. A questi soggetti, estrinseci dal punto di vista biologico rispetto all’infante, l’ordinamento non riconosce alcun titolo giuridico per garantire loro affidamento e tutela del minore. Il minore non può quindi lecitamente assumere lo stato di figlio legittimo e, de plano, può essere dichiarato dal Tribunale dei Minorenni in stato di abbandono.
Nell’economia della presente disamina si dirà più in breve solo del terzo motivo di ricorso, tralasciate le altre doglianze per ovvie ragioni di economia espositiva. La coppia lamenta la violazione, tra le altre norme di diritto positivo interno, anche dell’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e, più in particolare, ritiene incompatibile col trattato la dichiarazione di contrarietà all’ordine pubblico del certificato di nascita dell’infante. Si adduce, inter alia, l’argomentazione per cui la nozione di ordine pubblico sarebbe da leggersi non nella ristretta ottica del diritto nazionale, bensì nel più significativo ed amplio panorama dell’ordinamento internazionale.
Non manca di lucido acume la Suprema Corte quando precisa che, nell’ambito del diritto di famiglia, ogni sistema giuridico e dottrina sembra convergere sul radicato principio per cui l’interesse del fanciullo assume importanza notevole e determinante.
Le argomentazioni della Corte, alla quali non si da commento in questa sede, sostengono la tesi della contrarietà all’ordine pubblico del certificato di nascita, rigettando inequivocabilmente le richieste dei ricorrenti.
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