La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza dello scorso 18 marzo n. 2488/2015, ribadisce il principio di non discriminazione tra docenti con contratto di lavoro a tempo determinato e rispettivo personale di ruolo, attribuendo alla docente appellata il diritto a vedersi riconosciuta la medesima retribuzione spettante ai lavoratori a tempo indeterminato in applicazione del CCNL di categoria.
La sentenza oggi in commento riveste particolare interesse in quanto, in accoglimento dell’appello principale proposto dal MIUR, riforma la sentenza di primo grado del Tribunale di Roma che riconosceva il diritto di una docente precaria alla corresponsione degli scatti biennali di anzianità regolati dall’art. 53 della legge n. 312/80 e, allo stesso tempo, accoglie l’appello incidentale proposto dalla docente appellata riconoscendole il diritto alla medesima progressione di carriera corrisposta ai docenti di ruolo, in applicazione della Direttiva Comunitaria 1999/70/CE.
Il MIUR, infatti, aveva proposto appello avverso una sentenza di primo grado emanata dal Tribunale del Lavoro di Roma che accoglieva il ricorso di una docente precaria che voleva vedersi riconoscere il diritto alla corresponsione degli scatti di anzianità mai riconosciutile come docente precaria. Il ricorso in appello basava la sua pretesa di riforma della sentenza impugnata in quanto questa riconosceva alla ricorrente gli aumenti stipendiali in applicazione dell’art. 53 della legge 312/1980, norma che, per quanto sostenuto in giudizio, “era stata disapplicata dai contratti collettivi”. La docente si costituisce in appello chiedendo la conferma della sentenza impugnata e, con appello incidentale, reiterava la “domanda subordinata, afferente il riconoscimento della progressione economica prevista per il personale a tempo indeterminato”.
La corte d’appello formula osservazioni volte al riconoscimento della fondatezza sia dell’appello principale, sia di quello incidentale. Nello specifico, questo il ragionamento seguito dalla Corte d’Appello di Roma: riguardo l’art. 53 della legge 312/1980, rileva che “già il tenore testuale della norma, che esclude espressamente le supplenze, rende evidente la inapplicabilità della stessa al personale assunto a tempo determinato, a prescindere dalla durata della supplenza […], essendo la disposizione finalizzata a disciplinare il trattamento economico dei docenti e del personale non educativo della scuola non immessi nei ruoli ma, comunque, legali alla amministrazione da rapporto di impiego a tempo indeterminato”. Nella recente sentenza della Corte Costituzionale n. 146/2013, inoltre, viene evidenziato che “la categoria dei docenti incaricati risale ad un’epoca del tutto diversa rispetto a quella odierna, nella quale l’innalzamento dell’obbligo scolastico e la crescita della popolazione avevano creato una situazione di continua necessità di assunzione di nuovi docenti. […] La legge 28 luglio 1961, n. 831 […], ampliò gli spazi degli incarichi, stabilendo che gli stessi divenissero triennali (art. 6), con connesso riconoscimento degli incrementi stipendiali (art. 7) e del conseguente trattamento di quiescenza per gli incaricati forniti di abilitazione all’insegnamento”. Tale normativa è stata, poi, abrogata. Dall’iter normativo così sintetizzato, dunque, la Corte d’Appello di Roma ritiene che “l’art. 53 della legge 312/1980 poteva dirsi vigente ed efficace solo relativamente ai docenti di religione e ad alcune particolari categorie di insegnanti che, sebbene non immesse nei ruoli, prestavano attività sulla base non di supplenze temporanee o annuali, bensì in forza di contratti a tempo indeterminato”.
Passando a esaminare l’appello incidentale, la Corte ne rileva la fondatezza, atteso che già in primo grado la docente aveva agito in subordine per ottenere la medesima progressione economica riconosciuta al personale assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato. A tal fine, la sentenza richiama il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato sancito dall’ordinamento comunitario e, nello specifico, dalla clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva 1999/70/CE secondo la quale “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive” e, inoltre, “i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi”.
Nell’interpretare la Direttiva comunitaria citata, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza Del Cerro Alonso del 13/9/2007 C-307/05, ha richiamato la precedente giurisprudenza prodotta specificando che l’Accordo Quadro si applica anche nei rapporti di lavoro con la Pubblica Amministrazione e ha, poi, precisato che l’Accordo Quadro può essere invocato per rivendicare, in base al divieto di discriminazione, “il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorché proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione”. Dopo un ulteriore excursus nella giurisprudenza comunitaria, la sentenza conclude che “l’oggettiva disparità di trattamento che sussiste, sotto il profilo retributivo, potrebbe essere giustificata, ai sensi della Direttiva 199/70/CE, soltanto ove fosse dimostrata l’esistenza di ragioni oggettive, che tuttavia – secondo quanto precisato dalla Corte di Giustizia – devono essere strettamente attinenti alle modalità di svolgimento della prestazione e non possono consistere nel carattere temporaneo del rapporto di lavoro”.
Rilevando che il Ministero dell’Istruzione, nel primo grado di giudizio, ha solo fatto leva sulla “novità” di ogni singolo rapporto di lavoro rispetto a quello precedente, sulla necessità di garantire il servizio scolastico e sull’assoluta imprevedibilità delle esigenze sostitutive, la Corte d’Appello di Roma evidenzia che tali ragioni “non hanno alcuna correlazione logica con la negazione della progressione retributiva in funzione dell’anzianità di servizio maturata” e che sono, inoltre, del tutto estranee alle “ragioni oggettive” nell’accezione riportata dall’Accordo Quadro. La Corte conclude, dunque, rilevando che “il contrasto tra le previsioni del diritto dell’Unione e le regole dettate dalla normativa interna speciale del settore scolastico, deve essere risolto dal giudice nazionale in favore delle prime, in ragione della loro superiorità nella gerarchia delle fonti, attraverso la disapplicazione delle norme interne confliggenti”.
Dalla sussistenza indiscutibile del diritto della docente appellata alla medesima progressione di carriera riservata ai docenti con contratto a tempo indeterminato, dunque, la Corte d’Appello di Roma rileva la fondatezza della domanda subordinata proposta dalla ricorrente e, in conclusione, rigetta la domanda principale della stessa (così come richiesto nell’appello principale dal MIUR), ma accoglie anche la domanda subordinata proposta con appello incidentale, dichiarando il diritto della docente precaria “agli incrementi stipendiali di cui al CCNL applicato e riconosciuto al personale a tempo indeterminato e, per l’effetto, condanna il MIUR al pagamento, a tale titolo, della somma di Euro 4.029.13, nonché alla regolarizzazione contributiva e previdenziale ed agli interessi legali fino al soddisfo”. Viene ribadito, dunque, quel principio di non discriminazione che ancora il MIUR stenta a riconoscere ai docenti con contratto di lavoro a tempo determinato, ma che, ormai, risulta essere direttamente applicabile nonostante la normativa interna risulti difforme e contrastante con i dettami eurounitari.
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