Con sentenza n. 4757 del 10 marzo 2015, la Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo un licenziamento intimato ad un lavoratore per inidoneità dello stesso allo svolgimento delle mansioni per le sue sopravvenute condizioni di salute.
La Corte d’appello di Brescia confermando in toto la sentenza del tribunale di Mantova, dichiarava priva di efficacia l’interruzione del rapporto di lavoro e ordinava la reintegrazione del lavoratore (M.S.).
La Corte territoriale fondava la pronuncia sulla base di due motivazioni: in primo luogo, il licenziamento veniva intimato solo dopo la visita effettuata dal medico competente aziendale e prima che la commissione sanitaria si fosse pronunciata in merito alla vicenda; in secondo luogo, il datore di lavoro dichiarava l’impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni a lui compatibili senza che, peraltro, ne avesse concretamente e specificamente verificato la possibilità.
Rigettate in primo e secondo grado le domande attoree, il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione sulla base di due presupposti.
In primis il ricorrente lamentava la violazione degli articoli 1, 3 e 5 della Legge n. 604/1966, poiché la sentenza impugnata faceva riferimento a mansioni mai espletate dal lavoratore stesso, svolte invece da altri dipendenti e non equivalenti a quelle a lui assegnate, mancando di considerare che il Sig. M.S., nonostante fosse in possesso del titolo di geometra, veniva, a suo tempo, assunto come magazziniere. Inoltre, veniva eccepito vizio di motivazione in relazione all’articolo 41 della Costituzione ed all’articolo 30 della Legge n. 183/2010, per avere il Giudice territoriale sindacato nel merito delle valutazioni organizzative di competenza del datore di lavoro.
A parere della Cassazione il primo motivo del ricorso è inammissibile stante la mancata indicazione, agli atti del processo, delle qualifiche che avrebbero permesso all’organo giudicante di verificare la sussistenza dell’impossibilità di assegnare il dipendente ad altre mansioni (c.d. “obbligo di repechage”). D’altro canto, lo stesso datore di lavoro non ha prodotto elementi utili, nonostante ne avesse la facoltà e l’onere, volti a provare la reale impossibilità di impiegare il lavoratore con mansioni equivalenti in un ambiente consono al suo stato di salute, allo scopo di evitare il licenziamento.
Quanto alla presunta violazione dell’articolo 41 della Costituzione ed all’articolo 30 della Legge n. 183/2010, a parere degli Ermellini il Giudice territoriale non ha agito in sostituzione del datore di lavoro, bensì “ha operato solo una verifica della legittimità e veridicità di quanto dallo stesso datore affermato, tanto più che il datore di lavoro non ha mai asserito che gli impiegati esaurissero l’organico aziendale: si è già affermato del resto che, se l’esercizio dell’attività economica privata, garantito dall’art. 41 Cost., non é sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall’autorità giurisdizionale, esso deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute, sicché non viola la norma citata il giudice che dichiara illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate, senza che il datore di lavoro abbia accertato se il lavoratore potesse essere addetto a mansioni diverse e di pari livello, evitando trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell’organigramma aziendale”.
Fermo quanto sopra esposto, secondo la Suprema Corte il datore di lavoro, prima di procedere alla risoluzione unilaterale del rapporto, avrebbe dovuto, una volta appurata l’inidoneità fisica del dipendente, divenuto nel frattempo disabile e inidoneo a svolgere quei determinati compiti, verificare in concreto la possibile ricollocazione dello stesso a svolgere mansioni compatibili con la sua disabilità.
Pertanto, non avendo il datore di lavoro fornito alcuna prova circa l’impossibilita di assolvere all’obbligo di repechage, il licenziamento è da considerarsi illegittimo.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento