Il tributo consente la copertura delle spese occorrenti all’organizzazione sociale, previste in funzione dei servizi che vengono forniti al cittadino: pertanto si attua anche senza il consenso dei singoli, discendendo da un assoluto atto di supremazia dell’organizzazione sociale.
Qualunque struttura socialmente organizzata, finalizzata ad attuare specifiche funzioni previste in ordine all’erogazione dei servizi ai cittadini, sia che le abbia deliberatamente prescelte, siano esse l’atto definitivo di un procedimento a ciò predisposto e pertanto istituzionalmente conferite, deve poter contare su entrate autonome che, generalmente, si attuano solo mediante l’ausilio ed il concorso della volontà dei singoli appartenenti alla comunità, pur sempre discendenti da un atto, normalmente, riferibile ed imputabile all’organizzazione sociale ove i medesimi si vanno a collocare.
Da ciò discende la necessità di ricercare gli strumenti giuridici che consentano l’esercizio di un potere di supremazia che si distacchi, nettamente, dalla volontà dei soggetti chiamati a concorrere alle spese pubbliche, divenendo, conseguentemente espressione di una volontà meramente astratta rispetto ai debitori (ovvero ai consociati) in quanto afferenti alla medesima organizzazione sociale.
Ciò, senza dubbio alcuno, rappresenta il punto di arrivo di un’articolata evoluzione storica e normativa che coincide con la nascita stessa della regolamentazione giuridica del tributo e che parte da un particolare excursus storico che ravvede, inizialmente, nel tributo la principale entrata di diritto pubblico, finalizzata al concorso alle pubbliche spese e, conclusivamente, ab origine, retta espressione di un atto di pura e assoluta sovranità.
Si evidenzia, come, nello stato assoluto, in quanto espressione di supremazia, lo Stato impone un tributo a prescindere dalle mere potenzialità economiche del soggetto chiamato ad effettuare il pagamento, tenuto conto che esso è rivolto alla collettività.
Quindi, per un verso, emerge il concorso del soggetto deputato all’assolvimento dell’imposizione nella scelta volitiva che si esprime mediante l’introduzione del tributo,- per altri aspetti, il medesimo strumento rileva in funzione della destinazione dell’imposizione tramite un mero atto provvedimentale e normativo.
L’oggetto della regolamentazione giuridica del tributo si fonda sull’assunto che ciascun soggetto viene chiamato a sopportare una parte del costo, genericamente, attribuito alla complessità dei consociati non in quanto si alimenti, in qualche modo, il patrimonio di un soggetto diverso ma perché appartenendo allo Stato, ognuno è chiamato a far fronte alla quota tributaria.
La nascita della disciplina giuridica dei tributi, in uno stato di diritto, è un momento importante per poter garantire il concorso di tutti alle spese pubbliche: il tributo è una manifestazione di volontà dell’Ente stesso, che nell’equa regolamentazione giuridica del tributo consente l’equa ripartizione tra i soggetti chiamati a concorrere alla spesa pubblica e rappresenta un importante momento di passaggio, etica condizione basilare, tipica di tutti gli stati civili e presente negli ordinamenti maggiormente più evoluti.
Esistono particolari situazioni giuridiche ove, per effetto di talune risorse naturali presenti negli stati non si ha la necessità di ricorrere al sostegno alle spese mediante il ricorso al tributo perché gli stessi estraggono petrolio sufficiente a coprire le pubbliche spese. In questi casi non c’è bisogno di un tributo e tali stati vengono definiti paradisi fiscali. Pertanto conoscere esattamente la funzione sociale del tributo serve a verificare quali sano i tributi esistenti in Italia e come debba intervenire la norma per poterne dare un’esauriente regolamentazione. Il tributo risulta frutto dell’evoluzione storica, inteso come una forma di contribuzione alle spese pubbliche da parte dei consociato per effetto delle correlate ragioni di appartenenza ed ivi chiamati a rendersi, pro quota, responsabile di una parte di tali spese. Il tributo, pertanto, è un’obbligazione pecuniaria di fonte legale che non nasce da un contratto ma scaturisce dalla legge che ne introduce una precisa regolamentazione e ne è, specularmente, fonte tipica.
Le basi costituzionali e normative, di primo livello che ne giustificano esaustivamente la correlata disciplina sono rintracciabili negli articoli 23 e 53 della Costituzione. In particolare al primo comma dell’’art 23 è sancito il principio di legalità che conferisce solo alla legge il compito di introdurre il tributo. Per altro verso, invece, il primo comma dell’articolo 53 nel sancire il principio della capacità contributiva, intende che tutti siano tenuti a concorrere alle pubbliche spese in relazione alla personale capacita contributiva dei singoli.
Con tali basi normative non abbiamo difficoltà a differenziare il tributo rispetto ad altri istituti che potrebbero presentare caratteristiche similari e anzi sembrerebbero dar luogo a una serie di possibili fattispecie contigue al diritto tributario. Si pensi all’espropriazione per pubblica utilità prevista costituzionalmente che da luogo ad un’obbligazione che non è un obbligazione pecuniaria e soprattutto non è diretta a concorso alle spese pubbliche, anzi, mediante l’espropriazione per pubblica utilità si realizza una finalità pubblica ma con un obbligo generale di cessione di un bene. Rappresenta, esso, pertanto, ed in ultima analisi, l’esercizio di un potere ablatorio che nulla ha a che fare con il tributo.
Come pure la previsione di obbligazioni pecuniarie di fonte legale come quelle tipiche delle sanzioni amministrative che danno luogo ad entrate ma non sono finalizzate, non sono dirette al concorso alle spese pubbliche ma sono prevalentemente indirizzate a costituire la sanzione di un comportamento illecito legittimo del destinatario della sanzione stessa.
Con questa premessa, con questa definizione di fondo si comprende più agevolmente la classificazione tradizionale che distingue i tributi in quattro grandi istituti: imposta, tassa, contributi fiscali e monopoli fiscali.
In funzione delle correlate funzioni pubbliche, gli economisti utilizzano quale criterio discretivo nello studio del tributo, l’esistenza o meno di una controprestazione pubblica e le particolari caratteristiche dell’obbligo che incide sul privato.
Per cui, de plano, si paga l’imposta e il tributo a prescindere da una controprestazione pubblica. L’imposta si deve pagare. Cosa diversa è la tassa: si paga la tassa quando viene richiesto un servizio pubblico, quando si tende a sollecitare o fruire di un’attività della p.a. e quindi a fronte di una domanda viene previsto il pagamento di una tassa e quindi, a titolo esemplificativo, chi si iscrive all’università paga un tributo, che è cosa diversa dall’imposta: è proprio la preventiva esistenza di un’istanza, che fa nascere in qualche modo un attività procedimentale amministrativa a fronte della quale la legge prevede una controprestazione finanziaria che bilancia la prestazione amministrativa medesima.
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