Il delitto di atti persecutori è stato introdotto dal nostro legislatore con la legge 38/2009 in anticipo rispetto alla ratifica, avvenuta con l.77/2013, della Convenzione sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul l’11 maggio del 2011.
E’ un reato abituale, comune, che contiene una clausola di salvaguardia al co. 1 cpv in quanto la fattispecie de qua non si applica allorché il fatto costituisca più grave reato, la relativa formulazione legislativa prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo (rectius un perdurante e grave stato d’ansia ovvero un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero costringere ad alterare le proprie abitudini di vita), è punibile a querela o d’ufficio, quando il fatto è connesso ad altra fattispecie penale per la quale deve procedersi d’ufficio ed è di competenza del Tribunale monocratico.
Con la sentenza in epigrafe, il ricorrente era stato condannato per 612 bis c.p. per il reato di atti persecutori a danno di una coppia di coniugi. Il predetto infatti era ritenuto responsabile dal Collegio d’Appello per avere mandato messaggi anonimi alla coppia per mezzo dei quali si accusava la moglie di aver realizzato atti sessuali con lui e con altri colleghi del marito, scriveva e imbrattava i muri e bagni antistanti al luogo di lavoro e della scuola frequentata dai figli con frasi ingiuriose e offensive che ledevano il decoro e l’onore dei soggetti interessati.
L’imputato, che aveva intrattenuto una relazione con la moglie nel 2008, perseguitava i relativi coniugi da quella data, un arco di tempo, pertanto, abbastanza elevato.
Il ricorrente contestava la paternità dei gesti di cui sopra, perché, così come era stato evidenziato anche nei precedenti gradi di giudizio, era anonimi e quindi non era escluso che i gesti fossero addebitabili ad altri soggetti.
I giudici rigettano le doglianze presentate in quanto l’autorità giudicante di prime cure aveva attribuito gli atti de quibus al medesimo perché si trovavano in luoghi frequentati dall’imputato, erano espressione di fatti che a sua esclusiva conoscenza e i relativi messaggi offensivi e, al di là dell’anonimato, avevano un’omogeneità di contenuto a dimostrazione dell’unicità della fonte.
In dottrina così come in giurisprudenza, in alcuni casi, si sono posti alcune perplessità circa la sussistenza dell’unico reato di atti persecutori e non di molteplici delitti, ad esempio ingiuria 594 c.p., molestia 660 c.p. , minacce 612 c.p. , compiuti dall’imputato in un periodo di tempo considerato.
Bisogna rilevare che la valutazione nonché la qualificazione dei fatti de quibus spetta al giudice sulla base della narrazione dei fatti della p. o. nonché degli elementi probatori forniti dai soggetti lesi e formati nel corso del giudizio. Ai fini dell’integrazione del reato, infatti, non si richiede l’accertamento dello stato patologico delle vittime ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico delle stesse (Cass.16864/2011).
Nella fattispecie de qua, le vanterie del seduttore avevano leso l’intimità e la riservatezza della coppia, il decoro dei coniugi e l’onesta della donna descritta come aperta a relazioni con soggetti estranei, tanto da rendere incerta la discendenza di uno dei figli. Le conseguenze sono state, oltre ad un turbamento interiore delle persone interessate, un cambiamento delle abitudini di vita e di relazione.
Sulla base delle considerazioni ut supra rappresentate, gli Ermellini rigettavano il ricorso proposto.
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