Il caso: il Tribunale condannava un uomo per il reato di diffamazione pluriaggravata perché pubblicava sulla propria bacheca di facebook la seguente frase «…attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega sommamente raccomandato e leccaculo… ma me ne fotto … per vendetta, appena ho due minuti, gli trombo la moglie», offendendo in tal modo la reputazione del destinatario del messaggio offensivo.
La Corte d’Appello, riformando la predetta sentenza e assolvendo l’imputato per insussistenza del fatto, affermava che “l’identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l’imputato indicato il nome del suo successore, né la funzione né alcun riferimento cronologico, pertanto, manca la prova che lo scrivente abbia intenzionalmente comunicato con più persone in grado di individuare in modo univoco il destinatario delle espressioni diffamatorie”.
Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore generale denunciando la violazione di legge ed il vizio della motivazione. Ciò che rileva, ai fini della diffamazione, si scriveva, prescinde dalle conseguenze che possono derivare o siano in concreto derivate all’interessato. L’uso di frasi offensive e la pubblicazione su internet di per sé determina la conoscenza del messaggio volgare da parte di più persone.
Quanto alla univoca individuazione della persona oggetto delle frasi diffamatorie, il ricorrente afferma che, rilevante ai fini della identificazione del destinatario, deve ritenersi l’avverbio usato “attualmente”, che indiscutibilmente si riferisce al presente, che contraddice quanto affermato dalla Corte di Appello in ordine alla mancanza di indicazioni cronologiche. Ulteriore elemento di identificazione, altresì, era la qualificazione di “collega” evidentemente di pari grado, stante l’avvenuta “defenestrazione” per sua causa.
Il 595 c.p. prevede il reato di diffamazione che sussiste allorché taluno, comunicando con più persone, offenda l’altrui reputazione. Il co.3 prevede una aggravante che si realizza qualora l’offesa sia recata con il mezzo stampa.
Le manifestazioni di pensiero e/o comunicazione, che seppur tutelate dalla nostra Carta Costituzionale, ex art. 21, devono essere bilanciate con l’onore, il decoro e la reputazione di una persona che rappresentano una esplicazione del concetto di identità personale e, più in generale, di dignità, tutelabile ex art. 2 Cost.
Secondo un noto brocardo la libertà di ognuno termina allorché incomincia l’abuso, infatti, il nostro ordinamento non può tollerare situazioni che rechino danno all’altrui sfera giuridica senza che queste abbiano una giustificazione normativa. A tal proposito, ci si riferisce, ad esempio, all’esercizio di un diritto in materia penale, ex 51 c.p. (al diritto di cronaca). In tutti gli altri casi, bisogna stare bene attenti ad esternare le proprie opinioni, soprattutto sul proprio profilo su facebook, considerato l’immediata diffusione che quel tipo di messaggio può avere tra i propri “amici”. Il social è un’enorme piazza virtuale, nella quale non si è liberi di fare tutto ciò che si vuole e bisogna ben ponderare le parole che ivi si scrivono. Oltre, infatti, al procedimento penale, infatti, si rischia una condanna per risarcimento del danno, ex 2043 c.c. Come dire, il soggetto attivo paga due volte: la prima in un’ottica sanzionatoria e la seconda in un’ottica riparatoria.
Secondo un orientamento, molto recente, della Suprema Corte “il reato tipizzato al terzo comma dell’art. 595 c.p. quale ipotesi aggravata del delitto di diffamazione trova il suo fondamento nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorché non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa.” Nello specifico il termine mezzo stampa può essere interpretata estensivamente fino a ricomprendere qualsiasi mezzo di pubblicità a tutela dell’integrità morale della persona offesa (Cass. 24431/2015)
La pubblicazione di un messaggio diffamatorio nella propria bacheca di facebook ha la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e di essere condiviso in continui gruppi composti da innumerevoli aderenti che condividono scopi, idee al fine di una costante socializzazione.
Oggetto della tutela penale del delitto de quo è l’interesse dello Stato all’integrità morale della persona, pertanto, il bene giuridico specifico è dato dalla reputazione dell’uomo. Per reputazione si intende il senso della dignità personale nell’opinione altrui, comprendendo sia l’onore e il decoro, seppur preveduti indistintamente come oggetto di lesione (Cass.3247/1995).
Il ricorso era fondato. La Cassazione, ribadendo che, ai fini del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione sia lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa (Cass.7410/2010), sostiene che i giudici di secondo grado non hanno indicato le ragioni logico-giuridiche per mezzo delle quali il numero limitato delle persone che potevano identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l’esclusione della prova della volontà dell’imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato.
Il reato di cui all’art.595 c.p. non richiede il dolo specifico essendo sufficiente, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la predetta frase venga fatta conoscere a più persone.
Gli Ermellini, alla luce delle superiori considerazioni, annullavano la sentenza impugnata e rinviavano per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte D’appello.
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