Il sig. D. G. viene condannato dal tribunale di Marsala a un mese di reclusione per oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341-bis cod. pen.). Il Giudice d’appello conferma la decisione ritenendo integrato il delitto in quanto, dallo specifico comportamento posto in essere mentre pronunciava la frase “Ecco, sono arrivati gli sbirri”, il sig. D. G. manifestava in modo evidente l’atteggiamento di disprezzo nei confronti delle forze dell’ordine. Disprezzo che si è manifestato anche mediate il successivo rifiuto di fornire le proprie generalità.
La Corte di cassazione non ha condiviso la decisione perché nello specifico caso la frase non era in grado di offendere l’onore e la reputazione del pubblico ufficiale.
In base al testo previgente, per integrare il reato era necessaria anche la contemporanea presenza del pubblico ufficiale nel momento in cui si palesava l’offesa. In particolare, prima dell’abrogazione ad opera delle legge 25 aprile 1999 n. 205, l’art. 341 cod. pen. prevedeva che “chiunque offende l’onore o il prestigio di un pubblico ufficiale, in presenza di lui (…) è punito (…)”.
La fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale è stata reintrodotta con legge n. 94/2009. Oggi l’art. 341-bis cod. pen. punisce con la reclusione fino a tre anni “chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni”. L’ultimo comma della norma prevede una causa di estinzione del reato quando l’autore ripara interamente il danno prima del giudizio. Per realizzare tale riparazione l’imputato deve risarcire sia la persona offesa (pubblico ufficiale) sia l’ente al quale essa appartiene.
Ai sensi dell’art. 357 comma 1 cod. pen. i pubblici ufficiali sono “coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.” Il comma 2 della norma fornisce il significato di “pubblica funzione amministrativa” definendola come la funzione “disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.”
In un primo momento la qualità di pubblico ufficiale veniva assegnata sulla base del ruolo formale che un soggetto ricopriva all’interno della pubblica amministrazione.
Successivamente è la funzione il criterio cui fare riferimento, perdendo perciò rilevanza la qualifica formale (Cass.: n. 172198/1985). Più precisamente, ciò che rileva per la qualificazione di pubblico ufficiale è che il soggetto concorra anche in modo indiretto all’attuazione dei fini della pubblica amministrazione, pure in modo sussidiario o accessorio mediante azioni che non possono essere isolabili dal contesto delle funzioni pubbliche (Cass.: n. 17219/1985).
A titolo esemplificativo sono pubblici ufficiali non solo i Carabinieri e le forze di polizia ma anche i vigili del fuoco, il sindaco, il curatore fallimentare (art. 30 legge fallimentare), i testimoni che depongono in un processo, il porta lettere, il dirigente scolastico e gli insegnanti relativamente alle attività e funzioni previste dal loro ruolo ( Consiglio di Stato, sez. 6, sent. 31/01/2011, n. 715), i componenti dell’ufficio elettorale di sezione e i rappresentanti di lista, il geometra tecnico dell’ufficio comunale, il capotreno e il controllore delle Ferrovie dello Stato, anche dopo la trasformazione dell’ente in S.p.A. (Cass.: n. 39389/2009), ecc…
Il reato è a forma libera perché l’art. 341-bis cod. pen. non tipizza l’offesa. Perciò qualunque manifestazione offensiva può integrare tale fattispecie.
Con la sentenza in esame il giudice di legittimità evidenzia che per stabilire se le espressioni utilizzate siano offensive bisogna tenere “conto anche dei criteri etico sociali comunemente condivisi e, soprattutto, della evoluzione del linguaggio nella società”.
La Corte precisa altresì che l’offensività di una certa espressione resta tale anche se è entrata a far parte dell’uso comune.
Ora, è noto che la parola “sbirro” normalmente viene pronunciata per offendere i rappresentanti delle forze dell’ordine, non certo per fare dei complimenti. Rendere lecito l’uso di tale parola può lasciar intendere che sia consentito utilizzare parole offensive nei confronti dei pubblici ufficiali.
Nel caso di specie è stato accertato che D.G. ha chiamato le forze dell’ordine “sbirri” con voce alta e di fronte a molte persone, dimostrando con tale atteggiamento un’assoluta incuranza che la sua condotta potesse integrare un reato.
La Corte di cassazione ha deciso invece che tale condotta non integra il reato di oltraggio dal momento che, in quello specifico caso, l’intenzione del soggetto era “solo protestare dinnanzi alle persone presenti in occasione dell’arrivo sul posto dei pubblici ufficiali”. Detto in estrema sintesi, secondo l’analisi della Corte di cassazione, un’offesa viene tramutata in una semplice protesta.
La nuova formulazione non richiede più la presenza del pubblico ufficiale nel momento in cui si cagiona l’offesa. Infatti non compare più l’inciso “in presenza di lui”.
Il presupposto che oggi la norma richiede è la “presenza di più persone”. Presupposto che, nella formulazione originaria, era invece considerato un’aggravante speciale.
Ebbene, il giudice di legittimità fa rientrare questo presupposto in maniera implicita attraverso la parola “mentre” contenuta nel primo comma dell’attuale art. 341-bis cod. pen.. Esattamente, l’espressione “mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni(…)” deve essere intesa nel senso che “l’offesa deve avvenire anche in presenza del pubblico ufficiale” Dall’inserimento in via interpretativa dell’elemento della contemporaneità consegue che ai fini della fattispecie in esame l’offesa riveste rilevanza solo quando viene percepita dalla vittima. Viceversa non costituirebbe reato l’offesa pronunciata contro il pubblico ufficiale che svolge le proprie funzioni ad una distanza tale da non poter essere percepita, anche se la frase è pronunciata alla presenza di una o più persone e con “una valenza obiettivamente denigratoria”.
Si pensi al caso di specie: un soggetto proferisce a voce alta vicino a molte altre persone una frase offensiva nei confronti del pubblico ufficiale presente ma distante quel poco che basta per non poter percepire l’offesa. Secondo il principio che si ricava dalla sentenza in oggetto l’oltraggio non sarebbe integrato nonostante che l’offesa sia stata percepita dalle persone circostanti e la palese offensività dell’espressione utilizzata. In altre parole, può non apparire evidente il nesso tra la percezione del pubblico ufficiale ed il consenso nei riguardi della Pubblica Amministrazione in quanto tale consenso può essere pregiudicato già nel momento in cui l’offesa viene percepita dalle persone circostanti, e non dal soggetto a cui è diretta l’offesa stessa. L’espressione “consenso che la pubblica amministrazione deve avere nella società” deporrebbe in tal senso. Di certo è integrato il presupposto del primo comma dell’art. 341-bis cod. pen., cioè che l’offesa sia stata pronunciata “in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone”. Secondo la Corte, invece, ciò non costituisce una offesa.
Per un verso la Suprema Corte stabilisce che la frase pronunciata dal Sig. D.G. è irriverente. Per altro verso però decide che in base al “contesto temporale” non si può stabilire che tale frase sia direttamente riferita agli agenti sopraggiunti sul posto, nè si può stabilire un legame tra l’offesa e il contestuale esercizio della funzione pubblica richiesto dalla norma incriminatrice.
Per scagionare l’imputato i giudici della Corte di cassazione si concentrano pure sulla mimica facciale, il tono e la gestualità che egli ha manifestato mentre pronunciava la suddetta frase. Neppure il successivo rifiuto di esibire i documenti è valso a conferire valenza oltraggiosa al comportamento.
Può essere discutibile che una decisione del genere possa garantire o quanto meno indurre il rispetto dei pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni. Di certo non funge da deterrente.
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