In un sistema giuridico particolarmente virtuoso, la deontologia forense potrebbe stare alla giurisdizione come la pedagogia stava alla legislazione per i teorici della Rivoluzione francese. Un supporto immateriale, comprensivo di un elevato know how e di un ancor più elevato investimento sulla possibilità di agire secondo giustizia, in direzione di un’ottemperanza condivisa alle disposizioni particolari e ai principi generali. Purtroppo così non è, esattamente come non lo è stato per la pedagogia rivoluzionaria, che ha resistito nella sua veste meno suggestiva e, probabilmente, meno giusta: una concezione organicistica dello Stato e della cittadinanza.
Sull’ambito deontologico, in Italia, gravano poi due afflizioni di non poco momento: la negletta figura dell’avvocato nella teoria del diritto e (ma non sapremmo stabilire se causa o effetto della svalutazione della professione forense) una didattica in materia deontologica schiacciata su nozioni basilari, regolamentari, spesso esclusivamente formalistiche. Non mancano, e ancor meno mancavano nei secoli passati, tentativi di superare entrambe le situazioni di sfavore, ma gli sforzi generosi compiuti in tal senso non pare che abbiano significativamente mutato le condizioni di partenza.
Questo contesto in Italia è espressione di un divario sistemico, dove la giurisdizione è stata tendenzialmente vissuta, almeno dagli anni Settanta del secolo scorso, in due modi non troppo giovevoli. Le giurisdizioni apicali si sono spesso assunte (con abbondanza di mandati in bianco) funzioni di supplenza rispetto ad inadempienze del potere legislativo e di quello esecutivo. D’altra parte, nello spazio delle sedi contenziose più strette, più quotidiane e più “battute”, l’antica avversione per il processo, per lo Stato e per l’autorità giurisdizionale (oltre che per il diritto in re ipsa, affare da legulei illuminati) si è combinata ad una preoccupante burocraticizzazione della giustizia. Dove la garanzia non è più tarata a beneficio delle situazioni soggettive, ma secondo scansioni procedimentali normate inadeguatamente; dove la dilazione processuale è dovuta divenire tecnica di difesa; dove l’eccesso di produzione normativa non ha avuto effetti più illuminanti dei tanti settori che restano, invece, scevri da una legislazione più circostanziata.
Per tutte queste ragioni, è particolarmente meritorio che si provi a rilanciare un dibattito “alto”, di merito oltre che di metodo, sul futuro della disciplina deontologica. E, tra questi tentativi, vale la pena citare il recente e agile volumetto di Katherine Kruse, pubblicato per i tipi delle Edizioni Scientifiche Italiane, “Avvocatura e teoria del diritto. Per una deontologia forense filosoficamente consapevole”, nell’ambito della collana dei seminari del Dottorato di ricerca in teoria del diritto e ordine giuridico europeo del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali dell’Università di Catanzaro.
Anche perché l’Autrice proviene dalla tradizione delle law schools americane, ma si dimostra assolutamente non all’oscuro della riflessione sulla giurisdizione e sulla deontologia (sul dover essere dell’operatore inserito nella giurisdizione) nel continente europeo. Il merito del volume è, in effetti, quello di offrire una panoramica, ancorché breve, di largo respiro, poiché le diverse teorie vengono analizzate senza tenere specificamente in conto aspetti troppo settoriali. Il lettore, insomma, può trovare riferimenti alla deontologia arbitrale, a quella dell’avvocato (penale e civile) e anche ai suoi rapporti con la figura del giudice. Quel che manca è frutto di un ordinamento di provenienza molto diverso da quello italiano. Poco o pochissimo in materia di rapporti tra amministrazione e cittadino (secondo il pregiudizio anglosassone sul diritto amministrativo, risalente almeno a Dicey). Molto sull’accezione di legittimità, ma poco sui suoi rapporti concreti col sindacato di costituzionalità. Quasi nulla sui rapporti dell’avvocato coi giudici (una promiscuità così aborrita da non dover essere presa in considerazione), coi suoi colleghi (all’insegna di una visione dinamico-competitiva della professione forense), coi suoi sottoposti (sul presupposto di un’evoluzione in chiave economico-gerarchica del ruolo del dominus, sino a farne quasi la specie di “amministratore delegato” di cui tanta filmografia nord-americana). Ancor meno, sul profilo dell’onorario e sulle modalità della sua valutazione: tema questo che, ad avviso di chi scrive, ha rilevantissime implicazioni teorico-deontologiche, ma che evidentemente per l’A. sarebbe da ricondurre ad una visione successiva del rapporto professionista-cliente.
Eppure, la ricostruzione teorica della Kruse è molto sincera e, persino, autocritica nei confronti della tradizione di appartenenza: è respinta l’originaria visione di scaltrezza giusrealista (pp. 9-10), nonché l’accezione della consulenza legale come permanente invito alle scappatoie (pp. 11-12).
Parimenti, la Kruse si dimostra debitamente vigile nei confronti della tradizione giusnaturalista, inaugurata con più consapevolezza, solo in tempi piuttosto recenti, da William Simon, ma espressione di un filone sotterraneo più datato della professione negli Stati Uniti: abnegazione, rispetto della moralità pubblica del diritto, enucleazione dei limiti del diritto sulle azioni giurisdizionali esperibili. Si delineano, cioè, i modelli teorici di riferimento: l’avvocato deve “calarsi” nell’interesse di parte, come in una sorta di metodo Stanislavskij del rito giurisdizionale, o, piuttosto, fornendo difesa tecnica nella cornice del diritto posto (secondo le tesi di Bradley Wendel e di Tim Dare), deve restare beckettiano?
Soprattutto nella prima parte dell’analisi, in realtà, è un bene che la metodologia della Kruse (che molto risente di quella di Ted Schneyer) non ponga una distinzione categoriale netta tra la giurisdizione penale e quella civile, e conseguentemente tra l’eccedenza deontologica, rispetto alla mera ottemperanza normativa, richiesta al professionista penale e a quello civile. Ci pare, però, che, come del resto si profila in alcuni scritti di Schneyer, qualche distinguo debba essere posto. Non certo per smentire la coessenziale universalità dell’approccio deontologico alla pluralità delle fattispecie giurisdizionali, quanto, in realtà, per sottolineare il mutevole atteggiarsi delle numerose problematiche comuni. Il patrocinio può prendere in carico cause ingiuste? È moralmente accettabile che il reo non abbia diritto ad una difesa tecnica o ne abbia una, sebbene in partenza gravata dalla colpevolezza? E, all’opposto, fino a che punto la difesa tecnica, schermando col filtro del principio del giusto processo il reo, rallenta l’inverarsi della punibilità? Non solo: nell’ambito civilistico, come conciliare l’iper-procedimentalizzazione della giurisdizione con l’ottenimento di una decisione?
È sin troppo chiaro che un attivismo morale militante da parte dell’avvocato non è richiesto e, probabilmente, nemmeno auspicabile (pp. 38-39). È, altresì, chiaro che una delle tipiche issues della deontologia abbia uno stipite in comune con la teoria dell’obbligo politico: come misurare la deviazione dal paradigma normativo? Essa è sempre meritevole di uno stigma anche formale-processuale o, talvolta, in essa c’è la consapevolezza di produrre un risultato più qualificato di giustizia sostanziale (p. 53)?
Katherine Kruse affronta con valide argomentazioni le insoddisfazioni degli schemi teorico-deontologici nord-americani degli ultimi decenni, ma la proposta costruttiva che elabora sembra bisognosa di ulteriori specificazioni. La proposta formulata, difatti, si qualifica come una teoria del patrocinio legale incentrata sul cliente (pp. 74-93). Si tratta di un’acquisizione molto importante nel contesto della professione negli Stati Uniti, poiché in essa le spinte tradizionalmente prevalenti sono state o il giusrealismo radicalmente predittivo sulla possibilità di successo della performance di difesa tecnica a giudizio, o una concezione pessimistica che scende continuamente a patti con forme di ingiustizia localizzata (p. 73).
L’utilità del volume potrebbe essere, perciò, quella di invogliare a farsi carico di istanze similari, ma nel diverso modello processuale (e di rapporti tra il professionista e il cliente) del contesto italiano. E non per adattare la parte più deteriore di quelle categorie a uno stato dell’arte del sistema giuridico ove la professione forense non gode di particolare legittimazione -non tanto dal punto di vista soggettivo, pure avverso (il convincimento circa le qualità dell’avvocato), quanto da quello oggettivo (la valutazione di utilità, rispondenza e giustizia sull’attività svolta dall’avvocato).
Anche perché la deontologia nord-americana ha una fortissima componente ante-procedimentale -il parere, la consulenza, i riti arbitrali, le forme di media conciliazione- che in Italia non solo non emerge appieno in deontologia, ma che sovente è ostracizzata e dai professionisti e dai clienti. Se si scende in causa, se si sceglie l’avvocato, la nostra cultura giuridica esige il processo, esige la decisione più che il residuo negoziale della valutazione sul caso concreto. Per più profili, trattasi di una mentalità sbagliata. Il rovescio della medaglia della copiosa letteratura sulle lungaggini giudiziarie, sull’ars simulandi dell’avvocato, sull’inaccessibile tecnicismo processuale quale ostacolo insormontabile tra la domanda e la realizzazione di giustizia.
Una teoria del patrocinio legale fondata sul cliente stenterebbe, però, ad essere accettata: il cliente deve potere intervenire sulla strategia difensiva dell’avvocato? Il risultato di una decisione giudiziaria avversa alle sue attese è sempre addebitabile all’avvocato? E, soprattutto, che differenza sostanziale c’è tra l’aspettativa giuridicamente assistita e la pretesa temeraria e infondata che usa la giurisdizione per resistere alla giustizia?
Di questi interrogativi, anche sulla scia di contributi che palesemente vengono da culture altre, c’è profondamente bisogno, comunque sia, di raccogliere la sfida. A beneficio dell’operatore del diritto, senz’altro. Ma, per questa via, non certo a nocumento di chiunque sia soggetto dell’ordinamento.
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