Nella sentenza n. 15912 emessa dalla sezione sesta della Corte di Cassazione in data 28 gennaio 2015, è stato affrontato il delicato tema inerente l’an e il quomodo attraverso i quali possa svolgersi la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale disposta nel giudizio di appello a seguito di rito abbreviato[1].
Nel caso di specie, la difesa aveva preliminarmente eccepito, nel ricorso proposto in sede di legittimità, per un verso, come la Corte di appello avesse «respinto – per di più immotivatamente – la richiesta di ammettere le prove contrarie richieste dai difensori all’esito dell’acquisizione degli atti, in particolare la trascrizione delle conversazioni intercettate e l’audizione di D.P.R., con conseguente violazione del diritto di difesa», per altro verso, «come la Corte, dopo avere premesso che l’integrazione probatoria avrebbe riguardato la sola posizione di G. limitatamente ai reati in materia di armi, ha poi utilizzato i dati probatori acquisiti in via ufficiosa anche in relazione al omissis con riferimento all’imputazione sub capo omissis».
Ciò posto, il Supremo Consesso ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso attraverso un articolato ragionamento decisorio.
Innanzitutto, una volta preso atto che, «a seguito della novella del 1999, anche nel rito abbreviato il giudice ha la possibilità di disporre l’acquisizione ex officio degli elementi ritenuti assolutamente necessari ai fini del decidere, e ciò non solo nel giudizio di primo grado, come previsto dall’art. 441 c.p.p., comma 5, ma anche nel giudizio d’appello», i giudici di legittimità ordinaria hanno evidenziato che, con la suddetta riforma, «nell’innovare radicalmente l’istituto disciplinato dall’art. 438 c.p.p. e segg., il legislatore ha previsto la possibilità di ampliare la piattaforma probatoria a disposizione del decidente sia su richiesta condizionata dell’imputato ex art. 438 c.p.p., comma 5, sia su iniziativa officiosa del giudice ex art. 441 c.p.p., comma 5, esercitabile tanto nella forma “ordinaria” di abbreviato, quanto nella forma condizionata» in guisa tale che, «in un giudizio “a prova contratta” -, non possono ritenersi sussistenti preclusioni di natura strutturale o sistematica alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale anche del giudizio abbreviato d’appello».
Ha messo in risalto altresì la Corte: l’«applicabilità del disposto dell’art. 603 cod. proc. pen. anche nel giudizio abbreviato d’appello risulta, d’altra parte, confermata dall’espresso richiamo dell’art. 443, comma 4, all’art. 599, norma che, al comma 3, si riferisce espressamente alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello».
Ebbene, soffermandoci su questo peculiare passaggio motivazionale, nel condividerne appieno la sua fondatezza, non può non evidenziarsi come anche la Corte costituzionale abbia rilevato che «in conseguenza del richiamo operato dal terzo comma dell’art. 599-la disciplina posta dall’art. 603 del codice di procedura penale e destinata, dunque, a valere anche nell’ambito del giudizio abbreviato, ma pur sempre entro i limiti in cui la stessa possa risultare compatibile ed adattabile alle caratteristiche proprie di tale giudizio»[2] nel senso che, in questo particolare caso, potrà operare la disciplina posta nell’art. 603 c.p.p. anche nell’ambito del rito abbreviato nella misura in cui «il giudice dell’appello ritenga assolutamente necessario, ai fini della decisione, assumere di ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite agli atti del giudizio di primo grado (v., in questo senso, sent. Cass., II Sezione penale, 31 maggio 1991, n. 10022)»[3].
La stessa Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha in egual misura rilevato che «giusta il chiaro disposto dell’art. 603 c.p.p., comma 3, l’ampliamento della cornice probatoria del giudizio di gravame mediante rinnovazione dell’istruttoria su iniziativa del giudice è possibile soltanto allorchè essa si appalesi “assolutamente necessario” ai fini del decidere, formula sostanzialmente sovrapponibile a quella del citato art. 441, comma 5, secondo cui il giudice del giudizio abbreviato di primo grado “assume anche d’ufficio elementi necessari ai fini della decisione”».
Sul punto di diritto (di fatto non è dato sapere dalla lettura della decisione in esame), è palese dunque la perfetta simmetria argomentativa tra quanto sostenuto in questa pronuncia è quanto dedotto dalla Corte costituzionale nei termini appena precisati in precedenza.
Chiarito ciò, gli ermellini hanno affrontato un’ulteriore tematica afferente il tema in esame vale a dire se ed in che modo sia possibile, da parte dei giudice di seconde cure, procedere ad una integrazione probatoria ex officio.
Nello specifico, il Supremo Consesso è addivenuto alla possibilità che in questo grado di giudizio, si possa procedere a siffatto approfondimento istruttorio sulla scorta di precedenti emessi sempre in sede di legittimità secondo i quali, da un lato, «nel giudizio d’appello avverso la sentenza emessa a seguito di rito abbreviato ordinario, il giudice può esercitare il potere officioso di integrazione probatoria previsto dall’art. 441 c.p.p., comma 5, per il giudizio di primo grado, in quanto tale potere può essere esteso, con gli stessi limiti, al giudizio del grado successivo: il giudice potrà assumere anche prove che già il giudice di primo grado aveva a disposizione e che dallo stesso non siano state in concreto valutate», dall’altro, «la celebrazione del processo nelle forme del rito abbreviato non preclude al giudice di appello l’esercizio dei poteri di integrazione probatoria a norma dell’art. 603 c.p.p., comma 3, sempre che fornisca una specifica motivazione della necessità di procedere alla rinnovazione dell’istruzione ai fini della decisione (Cass. Sez. 6, n. 26093 del 30/10/2012, omissis, Rv. 255736)»,
Quanto al primo approdo ermeneutico, può osservarsi che tale principio di diritto si rinviene già in un arresto giurisprudenziale del 1995; in quell’occasione, invero, venne postulato per l’appunto che nel «processo celebrato con le forme del rito abbreviato al giudice d’appello è consentito, a differenza che al giudice di primo grado, disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, secondo il disposto dell’art. 603 comma 3 c.p.p.»[4] giacchè: a) la «presenza del potere di iniziativa del giudice in materia probatoria trova il proprio referente in precisi principi costituzionali posti in luce nella giurisprudenza della Corte Costituzionale in cui è stato chiarito che la configurazione di un assoluto potere dispositivo delle parti, senza l’interferenza di poteri integrativi del giudice, non incide soltanto sul piano processuale dell’acquisizione delle prove ma finisce inevitabilmente per rendere disponibile la stessa tutela giurisdizionale, poiché “significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l’interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall’altro, contraddire all’esigenza, ad essi correlata, che la responsabilità penale sia riconosciuta solo per i fatti realmente commessi, nonché al carattere indisponibile della libertà personale” (Corte Cost., 26 marzo 1993, n. 111)»[5]; b) «il conferimento al giudice del potere di ammettere di ufficio prove necessarie ai fini della decisione è coessenziale all’esigenza della ricerca della verità che, affermata esplicitamente dalla direttiva n. 73 della legge delega, rappresenta un “fine primario ed ineludibile del processo penale” e comporta, come corollario di necessaria conseguenzialità logica, l’attribuzione al giudice di poteri di iniziativa probatoria in modo da supplire all’eventuale inerzia delle parti e da rendere possibile l’accertamento dei fatti inclusi nel tema della decisione (Corte Cost., 26 marzo 1993, n. 111; Corte Cost., 3 giugno 1992, n. 255; v. altresì Corte Cost., 3 giugno 1992, n. 241)»[6]; c) il negozio processuale, che, come è noto, è alla base del giudizio abbreviato, «può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati e che esso non può riguardare i poteri di iniziativa ex officio di cui il giudice è direttamente investito dalla legge in vista del superiore interesse della ricerca della verità: ditalché la differenza, sul piano della estensione e delle connotazioni funzionali, tra poteri delle parti e poteri del giudice in ordine alle prove implica che l’inerzia e la rinuncia delle prime restano prive di negativa incidenza sui poteri del giudice (Cass., Sez. Un., 6 novembre 1992, omissis), finalizzati, come sono, al conseguimento di una giusta decisione indipendentemente della condotta processuale delle parti (Corte Cost., 26 marzo 1993, n. 111; Corte Cost., 3 giugno 1992, n. 255)»[7]; d) «deve reputarsi operante una rigida preclusione all’attivazione dei poteri di iniziativa delle parti in ordine all’assunzione di prove in grado di appello non soltanto perché costituirebbe una contraddizione palese procedere al rinnovo di una fase, quella dell’istruttoria dibattimentale, che nel rito abbreviato è, per definizione, insussistente (Corte Cost., 19 dicembre 1991, n. 470), ma anche, e soprattutto, per la precisa ragione che le parti hanno definitivamente consumato il loro diritto alla prova allorché hanno consentito l’adozione del giudizio abbreviato: ond’è che ad esse non resta che sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di secondo grado, il cui esercizio è regolato, per espresso dettato normativo, dal rigido criterio della “assoluta necessità”»[8].
Tale principio, tuttavia, non dovrebbe valere in modo assoluto, essendo stato affermato, sempre in sede di legittimità, una volta rilevato che non può «farsi ricorso all’integrazione per far fronte a ordinarie lacune probatorie nel merito, ovvero per acquisire prove a carico dell’imputato, essendo possibile l’integrazione solo in bonam partem, dal momento che l’acquisizione di elementi a carico dell’imputato potrebbe incidere sulla originaria determinazione di richiedere il rito alternativo, scelta non più modificabile” (Cass., Sez. 3, n. 33939 del 16/6/2010, dep. 21/9/2010, omissis, Rv. 248229; Cass., Sez. 6, n, 45240 del 10/11/2005, dep. 13/12/2005, omissis, Rv. 233506)»[9], che è esclusa l’attivazione dei poteri istruttori da parte del giudice di appello nel rito abbreviato che «si traduca in pregiudizi per l’imputato nella violazione dei canoni del giusto processo, riconosciuti dall’art. 6 della CEDU proprio per gli innegabili benefici che gli sono comunque riconosciuti e per la possibilità di incidere sulla decisione finale mediante l’assunzione di eventuali prove a discarico, la cui necessità derivi dall’ammissione di quelle disposte d’ufficio»[10].
Più in particolare, è stato evidenziato come tale integrazione sia ammessa «solo per le acquisizioni documentali assolutamente indispensabili ai fini del decidere ed attinenti la capacità processuale dell’imputato o i presupposti stessi del reato o della punibilità»[11] mentre ciò non è configurabile «per far fronte a ordinarie lacune probatorie nel merito, in presenza delle quali il giudice dovrà far ricorso, secondo i principi generali, al proscioglimento ai sensi del capoverso dell’art. 530 cod. proc. pen., né per acquisire prove a carico dell’imputato, essendo possibile l’integrazione solo “in bonam partem”, dal momento che l’acquisizione di elementi a carico dell’imputato potrebbe incidere sulla originaria determinazione di richiedere il rito alternativo, scelta non più modificabile”. (Cass. 2628, RIVISTA 207891, 20/10/1996 – 19/03/1997, SEZ. 5, omissis; v. anche sentenze della corte costituzionale 23 dicembre 1994 n. 442 e 16 febbraio 1993 n. 56)»[12].
Tal che ne consegue come siano consentite solo «le indagini rigorosamente circoscritte e l’acquisizione di prove documentali, se assolutamente necessarie ai fini del decidere, anche in forza dello stesso potere concesso al giudice di primo grado che decide pure: sulla base degli atti della parte privata, ammessi a norma degli artt.421, comma 3,e 441,o inseriti nel fascicolo del pubblico ministero, in forza degli artt.416, comma 2, e 431 cpp.»[13] giacchè l’assoluta necessità è, «nel giudizio abbreviato, assoluta non decidibilità che precipiterebbe il processo in una situazione di inammissibile stagnazione e determinerebbe il giudice ad una abnorme pronuncia»[14].
Le questioni proponibili, in casi di questo tipo, dovrebbero essere quindi riconducibili ai casi in cui «si contesta il fondamento stesso dell’istituto, cioè il presupposto pattizio del rito, per la sussistenza di seri e convincenti elementi sintomatici dell’incapacità processuale dell’imputato, a norma degli artt.70 e segg, c.p.p, o il presupposto stesso del reato e della punibilità, cioè l’imputabilità, a norma degli artt. 85 e segg. c.p., genericamente presupposta in primo grado e contrastata in secondo grado da fatti concludenti sopravvenuti»[15].
Nel caso di specie, dalla semplice lettura della sentenza in commento, non è agevole capire se tale criterio ermeneutico sia stato osservato o meno dato che si fa riferimento solo al fatto che «la Corte territoriale (vale a dire la Corte di appello ndr.) ha disposto l’acquisizione del fascicolo di altro procedimento e quindi delle intercettazioni in esso contenute, dopo essersi ritirata in camera di consiglio per deliberare la sentenza»; tuttavia, dato che la difesa, su tale versante giuridico, non sembra (il condizionale è d’obbligo) avere sollevato alcuna censura giuridica in merito, ciò dovrebbe positivamente deporre per una risposta affermativa.
Del resto, come già evidenziato in precedenza, la Cassazione, a sostegno della legittimità del provvedimento sottoposto al suo scrutinio di legittimità, ha citato un precipuo suo precedente e cioè la pronuncia n. 26093 del 30/10/2012 con cui, come suesposto prima, è stato postulato che la «celebrazione del giudizio di merito nelle forme del rito abbreviato, subordinato o meno ad eventuali integrazioni probatorie, non preclude al giudice di appello di esercitare i propri poteri di completamento delle fonti conoscitive ai fini della decisione a norma dell’art. 603 c.p.p., comma 3, purchè tale decisione sia specificamente motivata»[16].
Dovrebbe essere evidente dunque che la Corte di Appello, nel disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in grado di appello, abbia anche spiegato perché le acquisizioni istruttorie disposte fossero assolutamente indispensabili ai fini del decidere altrimenti, un provvedimento di questo genere, non avrebbe potuto ritenersi specificamente motivato.
Chiarito ciò, proseguendo nel ragionamento giuridico utilizzato dalla Corte nella pronuncia in oggetto, per quanto attiene il nucleo portante della doglianza prospettata dalla difesa ossia di come sia stata disattesa immotivatamente la richiesta di ammettere le prove contrarie all’esito dell’acquisizione degli atti, la Cassazione ha osservato che, sebbene «l’imputato – che ha volontariamente abdicato al diritto alla prova – ed il pubblico ministero – che ha subito la scelta dell’imputato di essere giudicato allo stato degli atti -, benchè privati del diritto alla prova, mantengono, anche in grado di appello, la facoltà di sollecitare il giudicante affinchè attivi i propri poteri istruttori (Cass. Sez. 1, n. 13756, 24/01/2008, Rv. 239767)», pur tuttavia «la valutazione discrezionale del giudice circa la necessità dell’integrazione probatoria non è censurabile in sede di legittimità (Cass. Sez. 6, n. 30590, 16/06/2010 Rv 248043; Cass. Sez. 2, n. 35987, 17/06/2010 Rv. 248181; Cass. Sez. 5, n. 19388, 9/5/2006 Rv. 234157) ed il mancato esercizio, da parte del giudice d’appello, dei poteri officiosi di rinnovazione dell’istruttoria sollecitato a norma dell’art. 603, comma 3, dall’imputato che abbia optato per il giudizio abbreviato ordinario non integra alcun vizio processuale deducibile in cassazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) (Cass. Sez. 6, n. 7485, 16/10/2008 Rv.242905)».
Infatti, la Cassazione ha postulato da tempo che, nel «giudizio abbreviato d’appello, celebrato anche in sede di rinvio, il giudice può esercitare il potere officioso di integrazione probatoria, perchè la previsione dell’art. 441 c.p.p., comma 5, che attribuisce siffatto potere al giudice dell’abbreviato in primo grado, è estensibile, con gli stessi limiti, al giudice d’appello, e la suo valutazione discrezionale circa la necessità della prova non è censurabile in sede di legittimità”»[17], non trattandosi di un «vizio deducibile mediante ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), (Sez. 6, n. 7485 del 16/10/2008, dep. 20/02/2009, omissis, Rv. 24295; Sez. 2, n. 25659 del 15/05/2009, dep. 18/06/2009, omissis, Rv. 244163)»[18].
Pur a fronte di tale preclusione di ordine procedurale, la Cassazione non ha ritenuto leso il diritto della difesa sul piano probatorio anche da un punto di vista sostanziale.
Infatti, a detta della Corte, l’acquisizione probatoria, avvenuta d’ufficio, dopo la discussione e dopo che la Corte si era ritirata in camera di consiglio per la decisione, non sarebbe stata pregiudizievole alla difesa perché, affinchè tale lesione possa avvenire occorre le prove non ammesse non «risultino vietate dalla legge ovvero manifestamente superflue o irrilevanti».
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha citato quel costante orientamento nomofilattico secondo il quale «la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale disposta nel giudizio di appello, anche a seguito di rito abbreviato (nella specie per prova sopravvenuta alla pronuncia della sentenza di primo grado), implica il diritto delle parti all’ammissione della prova contraria (Cass. Sez. 1, n. 31686 del 26/4/2010 Rv. 248011; Cass. Sez. 3, n. 5863 del 23/11/2011, G. e altro Rv. 252128)» e, segnatamente, il «diritto all’ammissione delle prove a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prime, nel rispetto dei parametri previsti dagli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen., con esclusione, quindi, delle sole prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti (Cass. Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, omissis, Rv. 254585)».
Alla stregua di tali considerazioni giuridiche, la Cassazione è giunta a formulare correttamente la seguente considerazione: «il diritto alla controprova possa avere piena esplicazione deve nondimeno trattarsi di una prova effettivamente qualificabile come tale, vale a dire di una prova diretta a contrastare o a mostrare sotto una diversa prospettiva lo stesso fatto oggetto della prova assunta d’ufficio, o comunque ad illuminare aspetti di tale fatto rimasti oscuri o ambigui all’esito della nuova acquisizione, salvo che non si tratti di profili manifestamente superflui o irrilevanti».
Ebbene, tale passaggio motivazionale si palesa perfettamente condivisibile proprio perché la prova, affinchè possa considerarsi pertinente rispetto a quanto richiesto dal combinato disposto di cui agli artt. 190, co. I e 495, co. II, c.p.p. non può non riguardare lo stesso fatto oggetto della prova assunta d’ufficio pur in un’ottica diversa sempreché non sia manifestamente superflua o irrilevante.
Tale opzione ermeneutica, d’altronde, si palesa condivisibile anche perché idonea a preservare «il doveroso rigore nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme che attribuiscono specifici diritti alla parte potenzialmente pregiudicata»[19] dato che «la decisione non può considerarsi “giusta” se non è consentito alle parti di interloquire in condizioni di parità, ovvero se in un procedimento essenzialmente cartolare come quello abbreviato, sia pure per la impossibilità di decidere senza l’assunzione di alcune prove, tale rapporto di parità, nel senso innanzi indicato, venga alterato»[20].
Di conseguenza, il giudice «potrà sì non assumere la “prova contraria” sollecitata dalla parte, ma non sotto il profilo della “non necessità ai fini della decisione”, in quanto deve ritenersi coessenziale a qualsiasi prova, come peraltro nel giudizio abbreviato è dimostrato dall’art. 438 c.p.p., comma 5, nei confronti del p.m., la possibilità di prova contraria, bensì sotto il diverso profilo che la prova per la quale si sollecitano i poteri ufficiosi del giudice è da ritenersi, in relazione alla prova già assunta, superflua od irrilevante ai fini della piena conoscenza da parte del giudice in un situazione di parità dei fatti oggetto del processo»[21].
Da ciò «discende che il giudice è tenuto a disporre l’assunzione della prova contraria richiesta dalla parte, salvo si tratti di prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti, cioè di prove incongruenti rispetto al thema decidendum o tese a dimostrare un fatto del tutto pacifico ed incontrovertibile»[22].
Individuato il quadro ermeneutico di riferimento, la Cassazione ha stimato legittimo l’operato dei giudici di merito dato che non sono state ritenute le prove richieste dalla difesa né rilevanti, nè necessarie.
Ed allora, senza entrare nel merito di questa specifica vicenda processuale, chi scrive si limita ad evidenziare come la stessa Corte, a chiusura della disamina su questa vicenda in punto di rito, abbia evidenziato come le garanzie difensive, in punto di contraddittorio, siano state comunque preservate in virtù del fatto che, «all’esito della disposta acquisizione degli atti del procedimento collegato, la Corte territoriale abbia nuovamente invitato le parti a concludere, consentendo piena estrinsecazione del diritto al contraddittorio sulla piattaforma probatoria come ampliata ex art. 603 c.p.p., comma 3».
Infatti, quanto ad una delle censure sollevate dalla difesa in precedenza, vale a dire quella inerente al fatto che i dati probatori acquisiti per mezzo della rinnovazione in relazione ad un imputato sarebbero stati utilizzati anche a proposito della posizione di un altro, soccorre quell’orientamento nomofilattico alla stregua del quale devono considerarsi legittime le prove «acquisite in dibattimento siano utilizzabili dal giudice in relazione ai vari thema decidenda che gli sono devoluti (arg. ex art. 526 c.p.p.), senza alcuna limitazione derivante dall’astratto collegamento del mezzo di prova a una determinata imputazione o a un determinato imputato»[23] sicchè, «le parti, in quanto regolarmente evocate in giudizio, sono in grado di esercitare un pieno contraddittorio sulle emergenze dibattimentali, eventualmente procedendo al controesame (che è nella facoltà di tutte le “parti che non hanno chiesto l’esame”: art. 498 comma 2 c.p.p.) o richiedendo la prova contraria (v. artt. 468 comma 4, 493 comma 3 e 495 comma 2 c.p.p.)»[24].
Ed invero, sempre secondo questo approdo ermeneutico, siffatti «principi trovano evidentemente applicazione in ogni caso in cui si proceda alla istruzione dibattimentale, compresa, quindi, l’ipotesi della rinnovazione di essa in appello, a norma dell’art. 603 c.p.p.»[25].
Essendo stato garantito il contraddittorio nel caso di specie, va da sé dunque come tali criteri interpretativi siano stati osservati.
In conclusione, la decisione in commento si pone in perfetta linea con un consolidamento orientamento ermeneutico, sia di legittimità ordinaria che costituzionale in materia di rinnovazione istruttoria in grado di appello, e per questo motivo è perfettamente condivisibile in punto di diritto.
[1]Sull’argomento, senza nessuna pretesa di completezza bibliografica, vedasi: D. CHINNICI, La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello, in Cass. pen., fasc. 9, 2012, pag. 3159.
,
[2]Corte cost., sentenza ud. 16 dicembre 1991 (dep. 19 dicembre 1991), n. 470, in www.giurcost.org.
[3]Ibidem.
[4]Cass. pen., Sez. Un., sentenza ud. 13 dicembre 1995 (dep. 29 gennaio 1996), n. 930, in Giur. it. 1997, II,150, 430; Giust. pen. 1997, III, 599 con nota di G. GARUTI, Questioni in tema di compatibilità tra giudizio abbreviato in sede di appello e rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.3, 1996, pag. 1196.
[5]Ibidem.
[6]Ibidem.
[7]Ibidem.
[8]Ibidem.
[9]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 16 aprile 2013 (dep. 16 maggio 2013), n. 20466, in CED Cassazione penale, 2013.
[10]Ibidem.
[11]Cass. pen., sez. VI , sentenza ud. 10 novembre 2005 (dep. 13 dicembre 2005), n. 45240, in CED Cass. pen., 2005.
[12]Cass. pen., sez. VI , sentenza ud. 10 novembre 2005 (dep. 13 dicembre 2005), n. 45240, in CED Cass. pen., 2005. In senso conforme: Cass. pen., sez. V, sentenza ud. 30 ottobre 1996 (dep. 19 marzo 1997), n. 2628, in Cass. pen., 1999, 1184.
[13]Cass. pen., sez. V, sentenza ud. 30 ottobre 1996 (dep. 30 marzo 1997), n. 2628, in Cass. pen., 1999, 1184.
[14]Ibidem.
[15]Ibidem.
[16]Cass. pen., sez. VI, ud. 30 ottobre 2012 (dep. 13 giugno 2013), n.26093, in CED Cass. pen., 2012.
[17]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 10 giugno 2010 (dep. 7 ottobre 2010), n. 35987, in CED Cass. pen. 2010,
Cass. pen. 2011, 10, 3502.
[18]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 18 aprile 2013 (dep. 31 ottobre 2013), n. 44324, in CED Cass. pen., 2013.
[19]Cass. pen., sez. VI, sentenza ud. 21 gennaio 2013 (dep. 21 febbraio 2013), n. 8700, in Ced. Cass. pen., 2013.
[20]Cass. pen., sez. I, sentenza ud.26 aprile 2010 (dep, 16 agosto 2010), n. 31686, in CED Cass. pen., 2010; Cass. pen., 2012, 4, 1447.
[21]Ibidem.
[22]Cass. pen., sez. VI, sentenza ud. 6 novembre 2014 (dep. 26 novembre 2014), n. 48645, in CED Cass. pen., 2015.
[23]Cass. pen., sez. VI, sentenza ud. 21 novembre 1997 (dep. 23 febbraio 1998), n. 2315, in CED Cass. pen., 1998.
[24]Ibidem.
[25]Ibidem.
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