In materia di fondi previdenza complementare ed integrativa si sono assestati, nel corso del tempo, diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità, frutto di un contrasto mai sopito all’interno della Corte medesima. Prima di entrare nel merito della questione, occorre preliminarmente rilevare che il sistema pensionistico è articolato in due grandi settori: la previdenza obbligatoria e la previdenza complementare. Prima della riforma pensionistica realizzata negli anni 1992 e 1993 con l’emanazione di una legge delega (legge n. 421 del 1992) e di una pluralità di decreti legislativi fra i quali il d.lgs. n. 124 del 1993 fu disciplinata la previdenza complementare, quest’ultima aveva la propria fonte nell’art. 2117 c.c. che prevedeva la costituzione di fondi speciali per l’assistenza e la previdenza, alimentati dalla contribuzione sia del datore di lavoro che dei lavoratori.
Il contrasto di giurisprudenza a cui si è fatto accenno riguarda la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza complementare (e, quindi, la loro computabilità ai fini del trattamento di fine rapporto e della indennità di anzianità), con esclusivo riferimento al periodo precedente la riforma della previdenza integrativa, operata con il citato d.lgs. n. 124 del 1993.
Passando ad esaminare ora i diversi orientamenti giurisprudenziali, occorre rilevare che il primo discende dalla sentenza della Corte di Cassazione Sezioni Unite n. 974/97, tali principi furono poi ribaditi nella giurisprudenza successiva della Sezione Lavoro (vedi ad es. Cass. n. 13558/01; 545/11).
La sentenza del 1997 mira a sanare il contrasto incentrato sulla natura delle pensioni integrative erogate da fondi aziendali e previste dalla contrattazione collettiva, e, quindi, sui limiti che rispetto ad esse trova l’ autonomia collettiva. Nella giurisprudenza di legittimità, si registravano, già negli anni ‘90 contrastanti orientamenti sul punto. Si dibatteva infatti, sul se le pensioni integrative avessero natura retributiva e fossero quindi pienamente sottoposte alla garanzia di intangibilità di cui agli artt. 36 Cost. e 2099 cod. civ., oppure se esse avessero natura previdenziale, non costituendo retribuzione in senso tecnico con carattere di corrispettività, e, quindi, non si sarebbero giovate delle relative garanzie di intangibilità; oppure infine, se esse avessero natura retributiva ma funzione previdenziale e fossero quindi sottratte a dette garanzie. Ritenevano le Sezioni Unite, nella citata sentenza che dovesse essere seguito l’orientamento espresso da quest’ultima posizione. La Corte, aveva invero rilevato che i trattamenti pensionistici integrativi, erogati a seguito della costituzione di fondi speciali previsti dalla contrattazione collettiva, privi di autonoma soggettività, avessero natura di debiti di lavoro, anche se esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro, essendo in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa a causa dell’interdipendenza con la durata del servizio e la misura della retribuzione ricevuta ( v. anche Cass. 27 aprile 1994 n. 3995; 5 febbraio 1994 n. 1166; 13 ottobre 1987 n. 7564). In tali citate sentenze la Corte ha fatto altresì riferimento ad una nozione ampia di retribuzione consentendo di distinguere fra le erogazioni corrispettive in senso stretto, e quelle con funzione previdenziale o assistenziale. Nozione di retribuzione che, come si legge nella sentenza n. 7564/87, supera l’ambito della corrispettività tra prestazione di lavoro e retribuzione e, conseguentemente, il principio dell’adeguatezza della retribuzione alla quantità e qualità della prestazione, per affermare un principio di corrispettività in senso ampio nel quale la retribuzione è rivolta a soddisfare determinate esigenze di vita del lavoratore.
Come anticipato, si saldano a questo filone giurisprudenziale una serie di pronunce successive tra cui Cass. n. 13558/01; 545/11. Secondo l’orientamento espresso, in particolare, dalla seconda delle suddette decisioni, fino alla data di entrata in vigore della riforma della previdenza complementare (d.lgs. n. 124 del 1993), i trattamenti pensionistici integrativi, erogati a seguito della costituzione di fondi speciali (individuali o collettivi) previsti dalla contrattazione collettiva, avevano natura di debiti di lavoro, esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro, essendo in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa, con la conseguenza che i relativi versamenti effettuati dal datore di lavoro dovevano considerarsi rilevanti ai fini del computo del trattamento di fine rapporto e dell’indennità di anzianità.
Si legge testualmente che “Per quanto concerne i trattamenti pensionistici integrativi aziendali, la giurisprudenza di questa Corte a Sezioni unite (anche in sede di composizione di contrasto) ha ripetutamente affermato che essi hanno natura giuridica di retribuzione differita pur se, in relazione alla loro funzione previdenziale” ( Cass. n. 13558/01). E ancora “i trattamenti pensionistici integrativi, erogati a seguito della costituzione di fondi speciali previsti dalla contrattazione collettiva privi di autonoma soggettività, hanno natura di debiti di lavoro, anche se esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro, essendo in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa a causa dell’interdipendenza con la durata del servizio e la misura della retribuzione ricevuta; che detta natura retributiva è pure riferibile ai c.d. “conti individuali”, costituiti da versamenti mensili, integranti, insieme con l’indennità di anzianità, il trattamento di quiescenza; e che può parlarsi di natura retributiva del credito avente ad oggetto una prestazione con funzione previdenziale o assistenziale facendo riferimento, appunto, ad una nozione di retribuzione correlata alla corrispettività intesa in senso ampio, siccome rivolta a soddisfare determinate esigenze di vita del lavoratore, dato che nell’adempimento dell’obbligazione lavorativa è intimamente implicata la persona stessa del lavoratore“. Viene peraltro chiarito, già a partire dalla sentenza Cass. Sez. Un. n. 974/97 che “Dal riconoscimento della natura retributiva discende una pluralità di conseguenze, quali, soprattutto: a) la rivalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 429 cod. proc. civ., in caso di ritardato pagamento. Peraltro, come si è puntualmente rilevato, anche il riconoscimento della funzione previdenziale di tali prestazioni non è sufficiente a qualificare come previdenziale il relativo credito, perché a tal fine sarebbe necessaria la sussistenza di un rapporto giuridico distinto da quello di lavoro, per cui se i trattamenti integrativi di pensione sono corrisposti dal datore di lavoro e non da un centro autonomo di imputazione di un distinto rapporto previdenziale, questi – si è affermato – hanno natura di retribuzione differita e quindi sono suscettibili di rivalutazione monetaria ( v. Cass. n. 3995 del 1994 cit. ); b) la inclusione dei contributi versati al fondo dal datore di lavoro nella retribuzione imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali obbligatori, dal momento che non rientrano in nessuna delle eccezioni previste dall’art. 12 della legge n. 153 dei 1969“.
Tuttavia all’orientamento suesposto se ne affianca un altro di segno opposto. Le origini di questo secondo orientamento possono esser rinvenute già a partire dalla sentenza della Corte di Cassazione Sezioni Unite n. 3673/97. Con questa sentenza la Corte prende in considerazione gli artt. 4 e 11 della L. 152/68 quale norme di riferimento dell’ IPS e giunge a dichiarare la sostanziale incompatibilità di detto quadro normativo con una nozione onnicomprensiva di retribuzione utile ai fini dell’indennità in questione. Precisa ancora la Corte che se la norma di cui all’art. 11 legge 152/68 non fosse improntata ad una ratio negativa dell’onnicomprensività, ossia se con la menzione di stipendio e salario si fosse inteso designare il complessivo trattamento retributivo del lavoratore, ingiustificata ed incoerente risulterebbe la specifica menzione degli aumenti periodici, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni natura come elementi dello stipendio o del salario da ricondurre nell’ambito della retribuzione contributiva. Il fatto che il legislatore del 1968 abbia incluso nello stipendio o nel salario, da valere quale “retribuzione contributiva” utile al computo dell’indennità premio di servizio, soltanto gli aumenti periodici, la tredicesima mensilità e gli assegni natura, e non anche altri emolumenti, significa esclusione dallo stipendio o salario, ai fini anzidetti (ossia della retribuzione contributiva), di ogni altra voce del trattamento retributivo globale del lavoratore non espressamente menzionata. Tale orientamento ermeneutico è stato successivamente seguito da moltissime pronunce della Sezione Lavoro tra cui (Cass. n. 10160/01; Cass. n. 681/03; Cass. n. 9901/03; Cass. n. 15906/04; Cass. n. 18999/10; Cass. n. 176/13).
Peraltro, alla luce dell’orientamento ora citato, si sono registrati, nella giurisprudenza di legittimità, mutamenti significativi proprio nella materia della previdenza complementare. In particolare appare utile richiamare Cass. n. 8695/12 con la quale la Corte ha superato l’orientamento sopracitato ed ha enunciato il principio di diritto per cui “le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare – quale che sia il soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti – non si computano né nella indennità di anzianità né nel trattamento di fine rapporto”. Riporta ancora la sentenza testé richiamata “è sufficiente, per addivenire al rigetto, la conferma delle argomentazioni di cui alla sentenza impugnata sulla natura previdenziale e non retributiva dei versamenti che il datore di lavoro effettua presso il fondo pensioni, senza necessità di esaminare gli altri motivi del ricorso (…). Vero è infatti che ai diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro accede, in questi casi, un ulteriore rapporto contrattuale, che obbliga il datore ai versamenti per garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa di quella obbligatoria. Questo ulteriore rapporto costituisce un indubbio beneficio per il lavoratore, il quale però non altera, né modifica, né si compenetra con i diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, ed in particolare non incide sulle modalità di erogazione delle indennità ricollegate alla fine del rapporto medesimo”.
Entrambi gli orientamenti citati, come emerge da quanto esposto, convergono nel ritenere che, dopo la riforma della previdenza complementare (d.lgs. n. 124/93) i versamenti ai fondi di previdenza integrativa non sono più computabili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto. Il contrasto riguarda invece i versamenti operati nei periodi di lavoro precedenti all’aprile 1993, epoca dell’entrata in vigore della riforma della previdenza complementare.
Proprio in virtù della necessità di fare chiarezza in materia, con ordinanza n. 6766 del 21.03.2014, la Sesta Sezione civile della Corte di Cassazione ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite.
All’esito della rimessione degli atti alle Sezioni Unite, queste si sono pronunciate con sentenza n. 6349 del 2015.
Con questa sentenza le Sezioni Unite si interrogano, appunto, sul se, per il periodo precedente la riforma introdotta dal d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare abbiano natura e funzione retributiva oppure previdenziale e quindi, si computino o meno nell’indennità di anzianità e nel trattamento di fine rapporto. La Corte, all’esito di un’accurata disamina della problematica ha ritenuto di dover concludere accogliendo il secondo orientamento, precedentemente esposto. Si legge dalla Sentenza citata “Come correttamente ritenuto dalla citata Cass. 5 giugno 2012, n. 9016 e dalle altre sentenze in precedenza citate, una verifica della natura retributiva, o meno, del contributo in esame deve logicamente partire, tenuto conto della natura del beneficio al quale esso è finalizzato, dal concetto di retribuzione quale delineato dal legislatore, in particolare, in sede di disciplina dell’indennità di anzianità e di trattamento di fine rapporto (TFR). Per quanto riguarda l’indennità di anzianità, dal combinato disposto degli artt. 2120, nella sua originaria formulazione, e 2121 c.c. si evince che la retribuzione (in base alla quale l’indennità di anzianità deve essere determinata) comprende “le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti, ed ogni altro compenso di carattere continuativo con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”. Per quanto concerne il TFR, l’art. 2120 c.c., come sostituito dall’art. 1 della legge n. 297 del 1982, dopo aver stabilito (primo comma) che tale trattamento si calcola prendendo a base la retribuzione annua, stabilisce (secondo comma) che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua prevista dal comma precedente comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese”. La nozione di retribuzione che emerge dalla normativa citata è caratterizzata quindi da un requisito indefettibile, costituito dall’esistenza di un effettivo passaggio di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore, e dalla esigenza che le somme erogate si trovino in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa; solo la presenza di tali presupposti, che caratterizzano le erogazioni che costituiscono la base di calcolo delle suddette indennità, autorizza il loro inquadramento sistematico nell’ambito della c.d. retribuzione differita.
In definitiva emerge chiaramente dall’esame delle norme sopra richiamate che l’indennità di anzianità e il TFR devono costituire il riflesso del trattamento economico “corrisposto” durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, avendo la funzione di essere d’ausilio al lavoratore nel periodo in cui, cessato il suddetto rapporto, viene meno il diritto alla retribuzione che prima veniva percepita, sicché sarebbe incongrua la inclusione, nella base di calcolo degli stessi, di somme di cui durante lo svolgimento non si è mai goduto.
Per quanto concerne i fondi di previdenza integrativa, i versamenti datoriali non sono preordinati all’immediato vantaggio del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, vengono accantonati (e quindi mai direttamente corrisposti) per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità, secondo le condizioni previste dal relativo statuto. L’obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, pensione integrativa che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore; esso tuttavia non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporti di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto. In sostanza il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire.
Decisivo a questo proposito appare il rilievo che la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto; ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo. Se è vero che il rapporto di previdenza integrativa ha come necessario presupposto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che l’obbligo del versamento del contributo a carico del datore di lavoro non si pone nei confronti del lavoratore bensì nei confronti del fondo che è poi onerato della erogazione della relativa prestazione. Va in proposito osservato che, ove si accedesse alla tesi secondo cui ogni onere economico posto a carico del datore di lavoro avesse natura retributiva, si arriverebbe al risultato che la previdenza complementare sarebbe a carico esclusivo dei lavoratori, risultato non solo paradossale, ma contra legem, atteso che la natura solidaristica della previdenza complementare è prevista non solo da norme primarie (cfr., in particolare, l’art. 2117 c.c.), ma anche dall’art. 38 Cost.”.
Concludono le Sezioni Unite riconoscendo quindi la natura previdenziale della contribuzione datoriale antecedente alla riforma del 1993 ed affermando che “All’esito delle suddette considerazioni può pertanto enunciarsi il seguente principio di diritto: con riferimento al periodo precedente la riforma introdotta dal d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare hanno – a prescindere dalla natura del soggetto destinatario della contribuzione e, pertanto, sia nel caso in cui il fondo abbia una personalità giuridica autonoma, sia in quello in cui esso consista in una gestione separata nell’ambito dello stesso soggetto datore di lavoro – natura previdenziale e non retributiva e non sussistono pertanto i presupposti per l’inserimento dei suddetti versamenti nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro”.
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