Licenziamento disciplinare: nullità della sanzione per irregolare composizione dell’organo giudicante (Cass. Sez. Lav n. 24157/15).

La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 24157/15, depositata il 25.11.2015, ha rigettato il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’Appello di Palermo, con la quale, quest’ultima, confermava la sentenza del Tribunale di Agrigento che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare di un dirigente adottato con determinazione del Commissario straordinario del Consorzio Area di Sviluppo Industriale.

Il ricorso era articolato su quattro motivi: tre per violazione di legge; con il quarto, in subordine, si chiedeva sollevarsi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, legge n. 300/70 (Statuto dei Lavoratori), per violazione degli artt. 3, 41 e 97 Cost.

E’ utile, sin d’ora, precisare che la Corte di legittimità ha rigettato il quarto motivo perché il Giudice di prime cure ha statuito la reintegrazione del dirigente licenziato in stretta aderenza al contenuto dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, come novellato dall’art. 1, L. 92/12, di cui il ricorrente ne denuncia la violazione con il terzo motivo del ricorso (per mancata irrogazione del solo indennizzo), che – in questi termini – assorbe il quarto.

Tra i motivi del gravame, impostati secondo un ordine decrescente d’importanza, il primo è certamente il più rilevante; con esso si lamenta la erronea applicazione dell’art. 55, co. 4, Decreto Legislativo n. 165/01 (non del D. L.vo 155/01, trattandosi verosimilmente di errore di digitazione) per avere, il Giudice d’Appello, ritenuto non rispettato il dettato regolamentare interno all’Ente, in base al quale l’Organo preposto ai procedimenti disciplinari sia un collegio perfetto, mentre – secondo parte ricorrente – deve ritenersi collegio imperfetto, nel qual caso non è richiesto, per la validità degli atti, che questi ultimi siano adottati nella sua completa composizione.

E’ assodato il fatto che la fase della contestazione della violazione disciplinare, quella istruttoria e quella conclusiva del procedimento siano state interamente espletate da uno solo dei componenti della Commissione disciplinare, composta da tre membri.

I Giudici della Corte di Cassazione sostengono, in linea con la consolidata giurisprudenza amministrativa, che pur ammettendo che l’Organo disciplinare possa ritenersi collegio imperfetto (che, quindi, possa operare con una composizione incompleta, cioè senza la contestuale presenza di tutti e tre i componenti), mai potrà ammettersi che esso possa regolarmente e legittimamente funzionare con la presenza di un solo componente, derogando, di fatto, alla ratio che ha condotto alla conformazione del consesso disciplinare.

In altri termini, sostiene la Corte, la collegialità risponde a principi di efficienza amministrativa (e, perché no, di equilibrio decisionale, ndr); non potrà mai considerarsi legittima l’attività di uno solo dei componenti in luogo di un collegio: si ammetterebbe la trasformazione di un organo pluripersonale in organo monocratico.

Peraltro, l’art. 55, comma 1, D. L.vo 165/01 è norma imperativa (per espressa volontà del legislatore) e, come tale involge l’applicazione della disciplina della nullità stabilita dall’art. 1419, comma 1, C.C., che è la fattispecie più grave che può colpire un atto giuridico (salvo l’ipotesi, sostenuta da una parte della dottrina, della inesistenza dell’atto, ove però un atto non esiste neanche nella forma embrionale). In questo caso, comunque – secondo la restante dottrina, che critica tale asserzione – un atto giuridico non c’è, quindi è un non atto.

Tanto è bastato per travolgere il provvedimento disciplinare.

Tuttavia, per completezza di trattazione dei motivi d’impugnazione, prendiamo in esame anche il secondo motivo, cioè la nullità derivante dall’essere stato – l’atto di recesso – adottato dal Commissario Straordinario, a tal fine incompetente, al posto della Commissione disciplinare.

Appare opportuno precisare che qualora un atto venga adottato da un organo incompetente, ma appartenente alla stessa Amministrazione o Ente di quello competente si verte nella ipotesi di incompetenza relativa, che rende l’atto annullabile e non nullo.

Non sembra conducente, invece, il riferimento che parte ricorrente fa all’art. 55 bis, comma 2, ultimo periodo, del D. L.vo 165/01, relativamente alla decadenza che la violazione dei termini produce per l’amministrazione, in ordine all’esercizio dell’azione disciplinare, e, per il dipendente, circa l’esercizio del diritto di difesa.

E’ di tutta evidenza che il mancato rispetto dei termini non è oggetto controverso; anzi dal complesso della motivazione si deduce che sul punto non vi è alcuna contestazione.

Peraltro, l’istituto della decadenza è presente in ogni ramo del nostro Ordinamento Giuridico (civile, penale, amministrativo, tributario, etc.) e costituisce un pilastro fondamentale del principio di certezza del diritto.

Quando il legislatore prevede un termine entro il quale esercitare un diritto (rectius: un potere), il suo mancato esercizio produce il consolidamento della situazione giuridica esistente.

Badalamenti Domenico

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