La Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con la sentenza n. 2302 depositata il 5.2.2016 (Presidente: A. Ceccherini – Relatore: A. Didone), ha affermato, per la prima volta in relazione a fattispecie regolata dal D. Lgs. n. 169 del 2007, che il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, che ne denunci esclusivamente vizi di rito, è ammissibile solo se l’eventuale fondatezza delle doglianze imporrebbe una rimessione al primo giudice ex artt. 353 e 354 c.p.c., altrimenti dovendosi dichiarare, d’ufficio, l’inammissibilità dell’impugnazione.
La vicenda all’esame della Suprema Corte trae origine dal reclamo proposto da una società contro la sentenza del Tribunale che ne aveva dichiarato il fallimento.
La reclamante lamentava la nullità della sentenza per violazione del contraddittorio, poiché il fallimento era stato dichiarato nonostante alla società debitrice fosse stata notificata solo l’istanza presentata da un creditore e non anche quelle successivamente depositate e riunite alla prima. Inoltre, si doleva del fatto che la notifica fosse stata eseguita ex art. 143 c.p.c. presso il legale rappresentante della società del tutto irritualmente, essendo invece il destinatario reperibile. Il provvedimento veniva confermato in appello.
Parte ricorrente ha pertanto proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi e ha formulato conclusivamente, anche se non è più applicabile l’art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito: se “la notifica ai sensi dell’art. 15 L.F. del decreto di convocazione del fallendo, effettuata positivamente, ma in ritardo rispetto al termine perentorio di quindici, giorni, risulta affetta, in assenza di sanatoria, da nullità e quindi non è idonea a integrare neppure una conoscibilità legale della procedura pre-fallimentare di talchè i creditori sono tenuti a notificare nuovamente il ricorso e il decreto di convocazione nei termini di legge al fine di poter richiedere ed ottenere in presenza degli altri presupposti di legge, una sentenza dichiarativa di fallimento”.
Ebbene, gli Ermellini hanno osservato che il quesito formulato (ad abundantiam) dalla ricorrente rende evidente che con il reclamo non è stata dedotta una nullità del giudizio di primo grado che avrebbe comportato la rimessione della causa al primo giudice, ma bensì una ipotesi di nullità che avrebbe comportato la rinnovazione del giudizio da parte della corte di appello, mostrando così di aderire all’orientamento della Suprema Corte nella sentenza n. 1098 del 2010 nella quale è stato ribadito che la nullità della “vocatio in ius” derivante dall’inosservanza del termine dilatorio di comparizione previsto dall’art. 15, terzo comma, della L.F., resta sanata nel caso in cui il debitore non l’abbia specificamente dedotta nella memoria di costituzione, difendendosi nel merito.
Ora, se il giudice d’appello rileva la nullità della vocatio in ius, determinata dall’inosservanza del termine dilatorio di comparizione non può dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado, ma deve trattenere la causa e, previa ammissione dell’appellante ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito.
Invece, nel caso de quo la società ricorrente non ha proposto motivi di gravame diversi da quelli concernenti il diritto di difesa.
La Suprema Corte ha quindi affermato quanto segue: “è ammissibile l’impugnazione con la quale l’appellante si limiti a dedurre soltanto i vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole solo ove i vizi denunciati comporterebbero, se fondati, una rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c. . Nelle ipotesi in cui, invece, il vizio denunciato non rientra in uno dei casi tassativamente previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., è necessario che l’appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, con la conseguenza che, in tali ipotesi, l’appello fondato esclusivamente su vizi di rito, senza contestuale gravame contro l’ingiustizia della sentenza di primo grado, dovrà ritenersi inammissibile, oltre che per difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione”.
La Corte di Cassazione, sulla base delle su esposte motivazioni, ha rilevato d’ufficio l’inammissibilità del reclamo ed ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata.
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