Qualora non sussistano le condizioni di sicurezza di cui all’articolo 2087 Codice Civile, i lavoratori possono rifiutarsi di prestare la propria attività lavorativa, a fronte dell’inadempimento altrui, conservando, al tempo stesso, il diritto alla retribuzione poiché l’inadempimento datoriale non può avere ripercussioni sfavorevoli sui lavoratori stessi.
Questo è quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 836, pubblicata il 19 gennaio 2016.
Nel caso di specie, un gruppo di lavoratori, addetti alla linea di assemblaggio di portiere per autovetture, sospendeva l’attività lavorativa per un’ora e 45 minuti, poiché in tale lasso temporale, venivano effettuati lavori di messa in sicurezza dell’area, causa diversi episodi di distacchi di alcune portiere dagli agganci di linea con conseguente caduta dei pezzi.
Tuttavia, l’azienda si rifiutava di corrispondere ai lavoratori la retribuzione e questi presentavano ricorso al Tribunale.
Il Giudice di prime cure rigettava la domanda dei prestatori; diversamente, la Corte di merito riformava la sentenza di primo grado condannando l’azienda al pagamento delle somme trattenute.
La Corte d’Appello riteneva sussistenti tutti i requisiti della fattispecie prevista dall’articolo 1460 del Codice Civile. Pertanto, il rifiuto alla prestazione lavorativa era conseguente alla mancanza di sicurezza che aveva provocato diversi episodi di caduta delle portiere, nonostante le ripetute precedenti segnalazioni fatte dai lavoratori. La Corte ravvisava la presenza di violazione degli obblighi di tutela della sicurezza e di prevenzione gravanti sul datore di lavoro. D’altra parte, per stessa ammissione dell’azienda, la caduta di una portiera avrebbe potuto arrecare lesioni all’operaio addetto alla lavorazione, nell’ipotesi in cui fosse stato colpito.
Ricorreva in Cassazione l’azienda.
Il giudizio della Suprema Corte è in linea con quanto affermato dai giudici di merito. Il rifiuto di adempimento della prestazione da parte del lavoratore, è da ritenersi conforme a buona fede in applicazione del principio “inademplenti non est adimplendum” ex art. 1460, comma 2, del Codice Civile e trova giustificazione nella mancanza di misure idonee a tutela dell’integrità fisica del prestatore di lavoro.
Stando alle previsioni normative di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, il datore di lavoro è obbligato ad assicurare condizioni di lavoro atte a garantire la sicurezza del lavoro e l’incolumità dei prestatori. Pertanto, la Cassazione è unanime nel ritenere che la violazione di tale obbligo legittima, dunque, i lavoratori a non eseguire la prestazione cui sono contrattualmente tenuti, eccependo l’inadempimento della controparte (sentenza del 7 maggio 2013 n. 10553).
Inoltre, la Suprema Corte ammette anche l’autotutela volta a garantire l’adempimento dell’obbligo di sicurezza, ribadendo che il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione, in presenza della violazione del datore di lavoro dei propri obblighi ex articolo 2087 Codic Civile, non può pregiudicare il diritto del primo alla retribuzione. Viene così ad individuarsi una forma di autotutela legittima dei diritti contrattuali del dipendente.
La Corte d’Appello ha correttamente applicato i principi di cui sopra e, pertanto, la sentenza impugnata appare immune da vizi. Da ultimo, nel dare il proprio giudizio, la Cassazione si rifà alla sentenza n. 6631 del 2015, ove a suo tempo affermava, relativamente ai casi di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 Codice Civile, che “non solo è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore“.
La Suprema Corte respinge il ricorso, confermando così la decisione del Giudice di Appello.
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