Il potere legislativo nella materia penalistica, inteso soprattutto come introduzione di modifiche al Codice sostanziale, è sempre più spesso esercitato assecondando in senso restrittivo le disarticolate richieste di sicurezza sociale, a propria volta fomentate nel rapporto non adeguatamente cristallino tra la formazione dell’opinione pubblica e il mondo dei media.
Non sfugge a questo inquadramento nemmeno il rinnovato zelo nel contrasto al terrorismo internazionale, che produce risultati altalenanti, quanto a universale garanzia della pubblica sicurezza e, soprattutto, quanto all’armonizzazione coi principi costituzionali in materia penale.
Oggetto dell’analisi saranno, perciò, il decreto legge n. 7, 18 Febbraio 2015 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione) e, soprattutto, la legge di conversione (con modifiche), n. 43, 17 Aprile 2015. Tre osservazioni preliminari possono essere avanzate. Innanzitutto, pur se emanate sull’onda dell’emergenzialità tipica di una società liquida, le fonti in commento si sono tradotte in novelle codicistiche: il minimo “baluardo” per ancorare la legislazione alla coerenza sistematica, pena altrimenti un’insoddisfacente implementazione degli interventi extra Codicem. Per quanto qui interessa, inoltre, verranno vagliate criticamente le modifiche e le innovazioni che hanno riguardato l’art. 270 (ci riferirà più specificamente all’art. 270 quater, quinquies e sexies) del Codice Penale: si è nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato.
Si tratta di una categoria di delitti coerentemente prevista, disciplinata e repressa nell’ottica organicistica della sovranità statuale, per il legislatore del 1930; variamente reinterpretata in giurisprudenza tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta (per contrastare il terrorismo e l’eversione di matrice politica extraparlamentare); rinnovata nella fisionomia e nella legittimazione giuridica e sociale per via del più recente terrorismo estero di orientamento religioso fondamentalista. Infine, bisogna precisare che nelle nuove disposizioni non risultano espressi riferimenti a questo tipo di attività e associazioni terroristiche, pur essendo inevitabile riconoscere (nei lavori preparatori, nel dibattito d’aula e nelle prime applicazioni giurisprudenziali) che proprio tali associazioni e condotte mirasse a sanzionare il legislatore di riforma. È difficile capire se ciò sia avvenuto per una scelta consapevole di politica legislativa o per via della difficoltà a normare un ambito similare, attesa la reiterata imperizia dello stesso legislatore.
Questo silenzio pare, però, opportuno, poiché, anche in ragione della tipologia dei delitti sulla quale ci si confronta, non è la specifica propensione eventualmente palingenetica del fondamentalismo religioso ad essere oggetto della sanzione, quanto piuttosto le condotte concrete attraverso cui essa si sostanzia. A prescindere se il suo riferimento ideologico sia quello di favorire una sorta di anaciclosi delle istituzioni giuridiche liberali o, a tutti gli effetti, una guerra religiosa basata sulla conquista dei territori dei presunti infedeli. Anzi, è proprio l’inadeguata tipizzazione delle condotte da sanzionare che suscita perplessità, come si provvederà a breve a dimostrare. Il legislatore ha inteso prevederle esaustivamente o ha, piuttosto, finito per fornirne nozioni purtroppo vaghe, nella pretesa di esercitare, invece, una catalogazione riuscita e compiuta?
Il tenore letterale delle innovazioni introdotte dalla legge n. 43 sospinge l’interprete a guardare in modo diverso che in passato persino a quelle disposizioni in nulla o solo in parte modificate dalle recenti iniziative di riforma.
Al riguardo, si tenga presente l’art. 270-bis e, in particolar modo, i commi 3-4. Quanto al primo, si dispone correttamente che ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale. In una prospettiva sostanziale, è possibile che fattispecie del genere si moltiplichino e che la finalità di terrorismo, come già avviene, si articoli in una dimensione sempre più largamente internazionalistica, dove l’enucleazione del progetto criminoso costitutivamente riguardi la commissione di reati in una pluralità di Stati, pur se inseriti in un disegno criminogeno a valenza essenzialmente unitaria.
Il riscontro giurisprudenziale sembra pure destinato ad arricchire i profili applicativi del quarto comma, poiché nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Questa terminologia legislativa, nell’individuazione delle res per cui sarà obbligatoria la confisca, non è inedita né nel diritto italiano né in quello di altri Stati dell’Unione Europea. Proprio perché si implementano le modalità attraverso cui si specifica l’azione delle associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale, l’attuazione di queste finalità è destinata a passare attraverso una crescente moltiplicazione delle condotte potenzialmente idonee a realizzare il progetto criminoso e attraverso un pari ampliamento delle res (servizi tecnologici, materiali esplodenti, ritrovati bellici, materiali a stampa, ecc.) utilizzate allo scopo.
La situazione si complica all’art. 270-ter. Sul piano strettamente normativo, è da accogliere la specificazione ormai consolidata in dottrina per cui la condanna per il delitto in esame (assistenza agli associati, e così pure il precedente, ex art. 270-bis, nonché quelli a seguire) comporti la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale quando risulti coinvolto un soggetto minore. In un’interpretazione sistematica della legge n. 43, tuttavia, viene sempre meglio in luce la scelta discutibilmente compiuta dal legislatore. A norma dell’art. 270-ter, risulta punito con la reclusione fino a quattro anni (e con pena aumentata, in caso di assistenza apprestata continuativamente) chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano alle associazioni indicate negli articoli 270 e 270-bis. Visto il crescente utilizzo delle comunicazioni telematiche, a fini non tanto di propaganda religiosa, quanto piuttosto di concreto supporto alla logistica, si apprezza già in questa sede l’inserimento degli strumenti di comunicazione tra quelli le cui dotazione e fornitura costituiscono l’ipotesi di “assistenza agli associati”.
È evidente, comunque sia, che, nel contrasto al terrorismo internazionale, il legislatore stia muovendo in una direzione opposta rispetto a quella che ne connotò l’operato, avverso le associazioni per delinquere di stampo mafioso.
Al tenore letterale degli artt. 416-bis e ss. del Codice sostanziale, infatti, è stata favorita una qualificazione delle condotte da sanzionare rimessa al discernimento giurisprudenziale (si consideri, in proposito, la controversa ipotesi del concorso esterno in associazione mafiosa), per potere contrastare ogni condotta inscrivibile nel medesimo progetto mafioso. Anche perché, quando il legislatore ha percorso la strada opposta (individuazione puntuale delle condotte a beneficio dell’associazione mafiosa), sono state introdotte disposizioni di discutibile e limitata applicabilità – vedasi la vigente formulazione del cd. voto di scambio, che, nella littera legis, sembra far salve alcune delle più ricorrenti forme di estrinsecazione dello scambio politico-mafioso.
Il legislatore degli artt. 270-ter e ss. procede su una strada diversa e i cui risultati, si spera, possano risultare qualitativamente migliori, oltre che praticamente più efficaci: le condotte a beneficio dell’associazione con finalità di terrorismo, esterne all’ipotesi di concorso (proprio) nel reato o di favoreggiamento, vengono nominate, aggiunte, esplicitate. L’auspicio è che non debba farsi strada, nell’applicazione giurisdizionale, una accezione svalutativa del progetto legislativo, per cui l’introduzione tipica di fattispecie delittuose strumentali ai fini associativi si sarebbe, in realtà, concretizzata nella produzione di norme speciali di ardua distinguibilità l’una dall’altra e sostanzialmente inessenziali, poiché atte a sanzionare condotte punibili, e negli stessi termini, ai sensi del diritto comune. L’incerta formulazione dell’art. 270-sexies sembra corrispondere perfettamente alle perplessità poc’anzi presentate, come si proverà a precisare in sede di conclusioni. Non prima, cioè, di avere vagliato le norme incriminatrici di cui agli artt. 270-quater, quater I e quinquies.
In esse, si può anticipare, i profili di specialità sembrano, però, più circostanziati delle previsioni di cui agli artt. 270-ter e sexies. Appare che il legislatore, come sempre più spesso accade, abbia deciso di non decidere. Nell’incertezza tra l’utilizzo di un criterio di politica legislativa rigidamente nominalistico e l’introduzione di norme il cui precipuo accertamento di tipicità sembra demandato esclusivamente alla prassi, si è cercato di tenere il piede in due staffe, ricorrendo ora all’una opzione (quater, quater I e quinquies), ora all’altra (ter e sexies). Un esito controverso in ottica sistematica e, per il vero, ancora tutto da scrivere all’atto pratico – essendo chiaro, per altro verso, che mai come nel caso del terrorismo internazionale lo scopo sia quello di evitare la ricorrenza delle condotte incriminate, piuttosto che quello di limitarsi a reprimere quelle già poste in essere.
L’art. 270-quater si premura testualmente di precisare che non deve essere riferito né all’area individuata dall’art. 270-bis, né a quella del 270-quinquies (addestramento), in ciò forse tradendo le perplessità dello stesso legislatore positivo circa la tipizzazione (riuscita o meno) delle nuove norme incriminatrici. Chiunque, al di fuori dei casi di cui all’articolo 270-bis, arruola una o più persone per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da sette a quindici anni.
Evitando ulteriori, possibili, previsioni sulla corretta operatività della cornice edittale di riferimento di cui al primo comma riportato, il secondo precisa i termini della punibilità della persona arruolata, salvo, come già osservato, il caso di addestramento (la cornice edittale è, però, comprensibilmente assottigliata: dai cinque agli otto anni di reclusione).
L’art. 270-quater I mira a reprimere un’ulteriore categoria di condotte, in larga misura inedita nella storia della legislazione penale antiterrorismo, eppure, lo dimostra l’attualità europea a far data almeno dall’ultimo biennio, di frequente ricorrenza pratica. […] chiunque organizza, finanzia o propaganda viaggi in territorio estero finalizzati al compimento delle condotte con finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies (nominate, non senza una sottesa opzione linguistica tautologica, condotte con finalità di terrorismo) è punito con la reclusione da cinque a otto anni.
Sarà interessante verificare l’operatività della propaganda in riferimento ai nuovi ritrovati tecnologici, che avvengono in contesti digitali tendenzialmente refrattari ad una piena tracciabilità (chat criptate, codici riservati, comunicazioni volatili). La questione risulta almeno indirettamente presa in carico anche dal successivo art. 270-quinquies, in cui le condotte incriminate paiono valutate con un più penetrante stigmatismo da parte del legislatore (prova ne sia l’identica cornice edittale per l’addestratore, l’addestrato e, addirittura, l’autodidatta).
Difatti: chiunque […] addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata, nonché della persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’articolo 270-sexies.
Di specifico rilievo appare la disposizione conclusiva: le pene previste dal presente articolo sono aumentate se il fatto di chi addestra o istruisce è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. In questo caso, l’aumento di pena appare giustificabile, soprattutto nell’ottica di prevenzione che il legislatore del 2015 ha espressamente indicato di volere fare sua propria: l’addestramento circostanziato, ad personam o ad personas (determinate), è ritenuto in re ipsa particolarmente grave (anche perché involvente preparazione alla commissione di attentati che riguarderebbero, nei casi più pericolosi, armi batteriologiche o materiali esplosivi). Tuttavia, ai fini della pubblica sicurezza, sembra ancor più grave la potenziale estendibilità della platea degli addestrandi attraverso i mezzi informativi. Certo, in sede di applicazione dell’art. 270-quinquies, bisognerà chiedersi in che modo e oltre quale soglia le informazioni divulgate online integrino queste ipotesi più gravi. L’idoneità dell’istruzione al compimento dell’atto dovrà essere vagliata criticamente, ma rigorosamente. Non vi rientrerebbero documenti relativi alla astratta pericolosità di certi ritrovati bellici, ad esempio; vi rientrerebbero senz’altro comunicazioni relative alla loro fabbricazione, al modus operandi dell’eventuale attentatore, eccetera.
Anche alla stregua di queste annotazioni, ci si permette di ribadire il giudizio critico già anticipato sull’art. 270-sexies, che in una norma conclusiva si premura di (provare a) racchiudere tutte le ipotesi delittuose che rischierebbero di restare scevre dallo specifico riferimento agli articoli precedenti: sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.
Risultano evidenti gli effetti negativi della condotta con finalità di terrorismo: in primo luogo, l’intimidazione della popolazione (per quanto tale effetto possa essere conseguito, purtroppo, anche in assenza della commissione di una serie specifica di atti aventi finalità terroristica) e l’intimidazione della comunità internazionale o la destabilizzazione di un contesto civile (appunto, attraverso la carica intimidatoria della violenza minacciata o compiuta). Legiferare su queste evenienze e codificarne le componenti effettuali è operazione tecnicamente complessa, che certamente in qualunque formulazione avrebbe potuto ingenerare nell’interprete (più di) qualche (motivata) perplessità. Si tratta, perciò, di una censura che non si muove specificamente al legislatore italiano, che, anzi, appare avere introdotto l’articolo 270-sexies proprio nel tentativo di arginare l’indeterminatezza di quanto, invece, si voleva specificamente normare. Sul crinale di questo difficile riequilibrio è da ritenersi operante il richiamo (in sé, generico e perciò a propria volta di non evidente applicabilità) alle fonti internazionalistiche. Non solo perché, nell’ambito de quo, un miglioramento definitorio e un’implementazione delle fonti, a beneficio di un loro maggiore e migliore coordinamento, sembrano inevitabili e necessari, dando vita ad un catalogo destinato a nuove voci e nuovi capitoli negli anni a venire. Ma anche perché l’espresso riferimento a norme vincolanti per l’Italia si spera possa giungere da monito al legislatore medesimo, in verità, in special modo nell’ultimo decennio, non particolarmente avvertito nella ratifica e nell’esecuzione degli obblighi internazionali e, men che meno, nella predisposizione dei debiti strumenti attuativi.
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