Sulla costituzionalità o meno dell’aggio esattoriale, negli anni scorsi, la Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 480 del 22-30 dicembre 1993 e con l’ordinanza n. 147 del 26 maggio 2015, dichiarando in entrambi i casi la manifesta inammissibilità delle eccezioni sollevate dai contribuenti in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, così come sollevate dalla Commissione Tributaria di primo grado di Catania e dalle Commissioni Tributarie Provinciali di Torino e di Latina.
Il problema, però, si è riproposto, giustamente, per l’importanza dell’argomento, soprattutto in un momento di crisi economica come l’attuale, con le ordinanze del 07 luglio 2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma (in Gazzetta Ufficiale del 13 aprile 2016) e della Commissione Tributaria Provinciale di Milano del 23 novembre 2015 (in Gazzetta Ufficiale del 27 aprile 2016).
In particolare:
– la Commissione Tributaria Provinciale di Roma – Sez 65 – ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 del decreto legislativo n. 112/1999 Testo Unico delle disposizioni concernenti il sistema della remunerazione per la riscossione dei tributi per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione;
– la Commissione Tributaria Provinciale di Milano – Sez. 29 – ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999, Testo Unico delle disposizioni concernenti il sistema della remunerazione per la riscossione dei tributi, per contrasto con gli artt. 3, 53 e 97 della Costituzione.
In proposito, il giudice tributario osserva che il contribuente ha ritenuto illegittimo il compenso di riscossione richiesto nella cartella di pagamento impugnata a titolo di remunerazione del servizio svolto da Equitalia S.p.A. Detto compenso, ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo n. 112/1999 è pari ad una percentuale dell’importo iscritto a ruolo da determinarsi, per ogni biennio, con decreto ministeriale e che attualmente è fissato nella misura del 4,65% dal decreto ministeriale 17 novembre 2006.
Originariamente il pagamento dell’importo controverso era richiesto al debitore solo in ipotesi di mancato pagamento della somma dovuta entro i termini di scadenza della cartella di pagamento; con le modifiche introdotte dal decreto-legge n. 262/2006 detto esborso è stato generalizzato, essendo dovuto anche se il contribuente provvede al pagamento nei termini, di modo che, se l’adempimento è tempestivo, il compenso ammonta al 4,65% delle somme iscritte a ruolo, se invece il pagamento avviene oltre i termini, il compenso aumenta in una misura pari al 9% (oggi ridotto all’8%, ma il problema non cambia).
Da ciò deriva che, a parità di servizio offerto, l’importo del compenso relativo differisce a seconda del valore della lite, in contrasto con l’art. 3 della Carta costituzionale, talché la misura della remunerazione non risulta vincolata all’esercizio di specifiche attività da parte dell’agente della riscossione, come sarebbe ragionevole, ma unicamente all’importo delle somme iscritte a ruolo.
Il giudice tributario, poi, condivide le osservazioni svolte dal contribuente circa l’illegittimità dell’applicazione del regime descritto con riferimento a fatti imponibili che risalgono ad un periodo d’imposta precedente rispetto alla data di entrata in vigore della normativa in questione (3 ottobre 2006), introdotta dall’art. 2 del decreto-legge n. 262/2006. Ciò per la ragione che, da un lato, si ritiene debba operare nel caso di specie il principio di irretroattività delle novelle che introducano pene più gravi per i contribuenti, dall’altro determinandosi la discriminatoria conseguenza che, a fronte di identici fatti imponibili, all’identico periodo d’imposta riferibili, quanto all’obbligo di corresponsione del compenso nella misura stabilita dal mutato tasso percentuale o di quello precedentemente in vigore, i contribuenti si troverebbero di fatto in balia del mero arbitrio dell’amministrazione finanziaria, in grado di unilateralmente incidere su detta misura in dipendenza del momento della notificazione dell’intimazione di pagamento.
Sicché i criteri indicati conducono ad una inevitabile distorsione dell’intero sistema fiscale anche sotto il profilo dell’art. 53 della Costituzione, tale sistema essendo di fatto lasciato all’arbitrio delle agenzie, con la conseguenza che la previsione dei compensi nella misura minima del 4,65%, non collegata ad alcuna capacità contributiva, paventa un danno sia diretto, privando i contribuenti del diritto di dosare la propria contribuzione in base al reddito, scegliendo l’intensità delle proprie prestazioni lavorative, sia indiretto, determinando una conseguente sfiducia nel sistema fiscale e ostacolando il libero esercizio delle arti e dei mestieri.
Sotto il profilo dell’art. 97 della Costituzione, ossia del buon andamento della P.A., la frattura con il dettato costituzionale si verifica nel momento in cui il compenso risulti dovuto in assenza di una qualsiasi attività dell’agente della riscossione, a detrito tanto del principio amministrativistico dell’imparzialità e della trasparenza delle scelte della P.A., quanto del principio di natura civilistica della corrispettività delle prestazioni.
La questione di legittimità costituzionale involge, dunque, l’art. 17, comma 1, decreto legislativo n. 112/1999 per contrasto con l’art. 3 della Costituzione per violazione del principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge laddove il compenso viene legato al valore della lite anziché alle prestazioni effettivamente svolte; con l’art. 53 per violazione del principio di capacità contributiva essendo prevista quale compenso per l’attività di riscossione una percentuale fissa sulle somme iscritte a ruolo e con l’art. 97 della Costituzione, la normativa difettando di quei criteri di trasparenza e correlazione con l’attività richiesta e congruità con i costi medi di gestione del servizio, corollari necessari del principio di buon andamento sancito dall’art. 97 della Costituzione.
In punto di non manifesta infondatezza della questione, il giudice tributario ricorda che la Corte Costituzionale con la sopra citata sentenza n. 480 del 30 dicembre 1993 ha stabilito che la misura dell’aggio deve ritenersi ragionevole (e quindi costituzionalmente legittima) se essa è contenuta in un importo minimo e massimo che non superi di molto la soglia di copertura del costo della procedura. Nello stesso senso, Consiglio di Stato 29 gennaio 2008, n. 272.
Per cui, condividendo i dubbi del contribuente, il giudice tributario ritiene, giustamente, che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, come modificato dall’art. 32, comma 1, lettera a) del decreto legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, in vigore dal 29 novembre 2008, per contrasto con gli articoli 3, 53 e 97 della Costituzione, sia rilevante in quanto esso non può essere definito in assenza di una risoluzione della questione di legittimità costituzionale e che tale questione non sia manifestamente infondata alla luce delle considerazioni suesposte.
In punto di non manifesta infondatezza della questione, il giudice tributario rileva che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 480 del 30 dicembre 1993 ha già stabilito che la misura dell’aggio deve ritenersi ragionevole (e quindi costituzionalmente legittima) se essa è contenuta in un importo minimo e massimo che non superi di molto la soglia di copertura del costo della procedura.
Il giudice tributario ritiene che la norma debba essere nuovamente valutata sotto un altro profilo.
Appare assolutamente ingiustificata la fissazione della misura dei compensi di riscossione a carico del contribuente nella percentuale fissa del nove per cento delle somme riscosse nel caso in cui il pagamento sia effettuato oltre sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, anziché in misura corrispondente ai costi del servizio di riscossione.
I dubbi in ordine alla ragionevolezza della misura dell’aggio sono alimentati, oltre che dalla considerazione che la legge non fissa un importo massimo prestabilito dello stesso, anche dalla constatazione che l’agente, nell’ambito della nuova procedura di riscossione delle somme risultanti dagli atti di cui alla lett. a) dell’art. 29, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, non avrà più neppure l’onere di notificare la cartella di pagamento senza aggravio di relativi costi.
Se a ciò si aggiunge che, a seguito dell’abrogazione a decorrere dal 26 febbraio 1999 dell’obbligo del non riscosso come riscosso (art. 2, comma 1, decreto legislativo 22 febbraio 1999, n. 37), l’agente della riscossione non subisce più alcun danno patrimoniale da riparare per effetto dell’inadempimento del contribuente e che il servizio di riscossione coattiva non è più gestito da concessionari privati, ma da un ente pubblico economico, emergono con chiarezza i profili di dubbia legittimità costituzionale dell’attuale disciplina sul punto.
Le considerazioni contenute nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, sul costo del servizio pubblico di riscossione, tanto più inducono il giudice tributario a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, del decreto legislativo n. 112/1999.
Nella sentenza n. 59/1987 la Corte Costituzionale ritenne che la scelta del legislatore, seppure discrezionale, non può sottrarsi al sindacato sotto il profilo del buona andamento secondo i canoni della non arbitrarietà e della ragionevolezza della disciplina rispetto al fine indicato nell’art. 97, primo comma, della Costituzione, di tal che, in sede di giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi, la violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione può essere invocata allorché si assuma l’arbitrarietà o la manifesta irragionevolezza della disciplina impugnata rispetto al fine indicato nell’art. 97, primo comma, Costituzione (Corte Costituzionale n. 10/1980): per modo che sempre emergono profili di irragionevole applicazione dell’aggio di riscossione anche sugli interessi di mora, sol che si consideri che l’agente della riscossione, in relazione agli importi non pagati tempestivamente dal contribuente, non ha anticipato alcuna somma all’erario.
In sintesi si ripete che:
– il giudice tributario rileva che la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, 1° comma, del decreto legislativo n. 112/1999 è rilevante e non manifestamente infondata atteso che il pagamento dell’aggio è stabilito in misura fissa anziché in misura corrispondente ai costi effettivi del servizio di riscossione;
– l’irrazionalità normativa deriva dalla circostanza che detta misura non assicura che la gestione del servizio sia volta soltanto alla copertura dei costi;
– il dubbio di incostituzionalità si consolida poi laddove viene configurato l’obbligo del pagamento pur in assenza di specifici criteri di determinazione del costo di tale servizio;
– l’obbligo dell’aggio può ritenersi ragionevole e coerente allorché la misura corrisponda al costo effettivo della prestazione, mentre deve ritenersi ingiusto, penalizzante e costituzionalmente illegittimo per l’assenza di un tetto minimo e massimo alla misura dei compensi;
– tale sistema fa risaltare l’incostituzionalità della previsione di una qualche forma di riequilibrio per effetto del d.l. n. 201/2011;
– la disciplina previgente appare quanto mai irragionevole poiché il compenso di riscossione costituisce il corrispettivo di una specifica prestazione di servizi: deve ritenersi del tutto arbitraria la determinazione della misura di tale compenso a carico del contribuente nella percentuale fissa del nove per cento (oggi otto per cento) delle somme iscritte a ruolo, non essendo quest’ultima in alcun modo ancorata ai costi effettivi e giustificati di gestione sostenuti dall’agente della riscossione (e ciò contrasta con l’art. 97 della Costituzione per la manifesta irrazionalità).
La questione di legittimità costituzionale involge, dunque, l’art. 17, 1° comma, del decreto legislativo n. 112/1999 per contrasto con l’art. 3 per la violazione del principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge laddove il compenso viene correlato al valore della lite e con l’art. 97 relativo al principio di buon andamento della P.A., difettando di quei criteri di trasparenza e correlazione con l’attività richiesta e congruità con i costi medi di gestione del servizio (che rappresentano i corollari necessari del principio di buon andamento sancito dall’art. 97, primo comma, Costituzione), per manifesta illogicità.
Mentre l’impossibilità di accedere a correttivi interpretativi “costituzionalmente orientati” tanto più rende necessario l’approdo della questione all’esame di costituzionalità.
Se infatti tra i poteri del giudice tributario vi è quello, riconosciuto dall’art. 7, comma 5, del decreto legislativo n. 546/92, di disapplicare un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, cionondimeno, detto potere non può estendersi a norme di rango ordinario, per cui il doveroso tentativo di individuare una interpretazione della norma costituzionalmente corretta non offre altra soluzione se non quella di un intervento del giudice delle leggi per l’impossibilità di individuare una interpretazione adeguatrice che possa correggere (in sede interpretativa ed applicativa) l’art. 17 del decreto legislativo n. 112/1999.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, è consigliabile che i contribuenti ed i difensori tributari eccepiscano l’incostituzionalità dell’aggio oppure, nelle controversie pendenti in tema di riscossione, chiedano la sospensione dei giudizi in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale.
Anche se non si può fare una previsione sull’orientamento della Corte, bisogna rilevare che non sarà cosa facile salvare l’aggio e riconoscerne la costituzionalità, malgrado l’espediente dell’inammissibilità.
Lecce, 18 giugno 2016
AVV. MAURIZIO VILLANI
Avvocato Tributarista in Lecce
Patrocinante in Cassazione
www.studiotributariovillani.it – e-mail avvocato@studiotributariovillani.it
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento