A partire dagli anni novanta sorge l’esigenza di rimodernare la farraginosa “macchina amministrativa” e renderla più efficiente sia all’interno che all’esterno, nell’erogazione dei servizi pubblici, per cui comincia a farsi strada una nuova lettura dell’art. 97 co. 2 Cost., improntata all’imparzialità ed al buon andamento della pubblica amministrazione.
La riforma, così intesa, ha investito svariati settori della pubblica amministrazione ed è stata attuata attraverso una pluralità di interventi normativi di grande spessore. Sullo sfondo del contesto innovatore si pone la riforma del pubblico impiego ed il connesso fenomeno delle privatizzazioni, articolato in varie fasi che hanno posto le basi per l’emanazione del Testo Unico sul pubblico impiego, D.lgs. n. 165/01 ed il ripensamento della missione pubblica e dei mezzi più adeguati per realizzarla.
Si pone, altresì, l’esigenza di riorganizzare l’apparato amministrativo e la struttura degli organi di Governo ed a tal fine si comincia a profilare la volontà di separare nettamente la politica dall’amministrazione. A tale precipuo fine sembra riferirsi, infatti, il D.lgs. n. 29/93, attuazione della legge delega n. 421/92 che tra i principi auspicati include la separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa; il successivo D.lgs. n. 80/98, attuazione della legge delega n. 59/97 (Bassanini I), invece, sembra porsi in una diversa prospettiva di ravvicinamento, sulla premessa che un apparato amministrativo coordinato con i vertici politici funzioni meglio. Viene, cioè, propugnata la necessità di avvalersi di dirigenti amministrativi di fiducia e, contestualmente, si assiste all’introduzione nel nostro ordinamento del fenomeno americano del cd. spoil system. Ultimamente invece, con il D.lgs. n. 150/09 attuazione della legge delega n. 15/09 (Brunetta) si è sollecitato un nuovo tentativo di allontanamento tra fenomeno politico ed amministrativo con specifico riguardo all’accesso ed alla collocazione della figura del dirigente. Nel contempo la separazione tra politica ed amministrazione rafforza l’autonomia della dirigenza pubblica per cui si rende necessario predisporre adeguati sistemi di controllo, attuati ad esempio con la L. n. 286/99, che assicurino una linea di corrispondenza e continuità tra l’azione amministrativa e gli indirizzi politici.
Il D.lgs. n. 300/1999, emanato in attuazione della delega disposta con l’art. 11 della legge n. 59/97, assume un ruolo da protagonista in pieno clima riformatore, volto a razionalizzare e riordinare il Governo ed, in particolar modo, l’assetto ministeriale, fino ad allora caratterizzato da una struttura tipicamente gerarchica e frammentaria, costituita da una pluralità di uffici e da una netta sovraordinazione del Ministro rispetto alle diverse unità facenti capo al relativo Ministero.
La riforma va ad incidere principalmente su due aspetti sostanziali: la soppressione e la fusione dei ministeri da un lato e la razionalizzazione ed il riordino dell’amministrazione, dall’altro. La struttura governativa resta, però, ancorata alla classica bipartizione tra apparato periferico ed apparato centrale, al cui vertice si colloca il Ministro che assume la qualifica di organo monocratico avente funzioni di indirizzo, controllo e programmazione, esulando dalla sua competenza la diversa attività di gestione.
Il modello gerarchico che favoriva l’unione tra politica ed amministrazione viene superato dal modello di direzione politica, caratterizzato da una struttura ministeriale in cui le nuove strutture di primo livello dialogano con il Ministro, dando vita ad un sistema fatto di poteri e compiti che si intersecano tra loro (e ciò lo si evince specificamente dalle lettere f, g, h di cui all’art. 5 co. 5 D.lgs. n. 300/99).
il sistema complessivamente incardinato dal D.lgs. n. 300/99 porta avanti sia l’obiettivo di separare le competenze politiche dalle amministrative, sia di ottimizzare ed agevolare il perseguimento dell’indirizzo politico.
Il rapporto tra ministri e organi di vertice viene infatti a delineare un sistema ciclico all’interno del quale il Ministro riceve pareri e proposte dai capi delle strutture dirigenziali e questi ultimi, al contempo, pongono in essere gli indirizzi ed i programmi del Ministro competente, in un’ottica di dialogo e collaborazione continua.
In tal modo viene ad attenuarsi la separazione tra funzioni di indirizzo e di gestione e la dirigenza si configura essa stessa come organo di indirizzo rispetto all’apparato burocratico. Al Ministro spetta l’organizzazione generale ed al capo di dipartimento l’organizzazione degli uffici di livello dirigenziale (i quali sono quindi legati a questi da una dipendenza funzionale) e le relative funzioni di gestione.
L’attività posta in essere dalle strutture dirigenziali di vertice, finalizzata alla determinazione dei programmi di attuazione del Ministro è riconducibile, secondo la dottrina prevalente, all’attività di alta amministrazione, ovverosia a quell’attività caratterizzata da un elevato tasso di discrezionalità in quanto la norma che la disciplina si limita a fissare la causa ed il fine del potere esercitato, senza precisarne i presupposti.
Nella sua accezione generale, l’atto di alta amministrazione può assumere sia connotati di indirizzo, qualora sia volta ad operare un raccordo tra politica ed amministrazione, senza però provvedere direttamente all’attuazione dell’attività amministrativa, ma dandone soltanto l’impulso e regolandone l’attuazione; sia connotati puntuali, per esempio mediante la nomina dirigenziale o per la valutazione di impatto ambientale. L’atto di alta amministrazione si configura come una species dell’atto amministrativo con il quale condivide la disciplina sostanziale e processuale e, conseguentemente l’applicabilità della legge sul procedimento amministrativo (salvo specifiche deroghe come ad esempio quella derivante dall’art. 13 L. 241/90) e la tutela giurisdizionale, seppur entro limiti predefiniti e circoscritti.
L’atto di alta amministrazione, in sostanza, rappresenta un’ipotesi peculiare in cui è in ogni caso rinvenibile il principio di legalità, seppur in un’accezione debole.
Nel tempo la figura dell’atto di alta amministrazione è stata spesso affiancata a quella dell’atto politico e dell’atto di indirizzo politico-amministrativo dalle quali, però, si differenzia sensibilmente per degli aspetti basilari.
Nello specifico, l’atto di indirizzo politico-amministrativo andrebbe a configurare un’attività per certi versi analoga a quella dell’alta amministrazione, dalla quale però si discosterebbe perché posta in essere dagli organi di Governo, diversamente da quella di alta amministrazione che, pur avendo ad oggetto l’attività di indirizzo dell’azione amministrativa, è posta in essere dagli organi di vertice dell’amministrazione, così come infatti sembra desumersi dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 14 del T.U. sul pubblico impiego.
L’atto di indirizzo politico amministrativo, cioè, atterrebbe a quelle politiche di settore che non riguardano la suprema direzione della cosa pubblica (e quindi sono estranee alla funzione politica propriamente detta) ma non possono nemmeno ricondursi nell’alveo dell’attività amministrativa, perché libera da vincoli legislativi e diretta all’attuazione dei fini posti dalla politica generale.
L’atto politico è, invece, quell’atto che, pur formalmente amministrativo viene posto in essere nell’esercizio di funzioni non amministrative e coinvolge i supremi interessi dello Stato. È un atto libero nel fine e nella causa e, quindi, a differenza dell’atto di alta amministrazione, non è sottoposto al vincolo della legge ordinaria per cui non è assoggettato al principio di legalità. È, poi, insindacabile in sede giurisdizionale poiché, nonostante il disposto di cui all’art. 113 Cost., secondo la dottrina dominante, non è idoneo a ledere situazioni giuridiche protette.
Di recente il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 808/2016, è tornato a pronunciarsi in merito alla qualificazione dell’atto politico, subordinandola alla compresenza di due requisiti: il primo a carattere soggettivo, consistente nel promanare l’atto da un organo preposto all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello ed il secondo a carattere oggettivo, consistente nell’essere l’atto libero nei fini perché riconducibile alle supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri.
Nello specifico, la IV sezione del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi in merito al Decreto Presidenziale di soppressione dell’ambasciata d’Italia in Santo Domingo, adottato in applicazione dell’art. 2 D.L. n. 95 del 2012, convertito dalla L. n. 135 del 2012 e recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”, ha precisato che al giorno d’oggi l’esistenza di aree provvedimentali sottratte al sindacato giurisdizionale deve necessariamente essere confinata entro limiti rigorosi. Conformemente agli orientamenti espressi dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, anche il Consiglio di Stato – dopo aver ribadito la distinzione tra gli atti politici, quale espressione della libertà politica riconosciuta dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato, per soddisfare esigenze unitarie ed indivisibili ad esso inerenti e liberi nei fini; e gli atti di alta amministrazione che, nonostante costituiscano espressione di ampia discrezionalità, sono comunque soggetti ex art. 113 Cost. al sindacato giurisdizionale – ha rimarcato la valenza tendenzialmente residuale dell’atto politico.
Precisamente il Consiglio di Stato ha statuito con riguardo allo specifico caso sottoposto al suo esame che: “L’atto impugnato non costituisce in realtà espressione diretta di una funzione di gestione dei rapporti internazionali e delle relazioni diplomatiche del Paese, quanto piuttosto una misura in primis organizzativa e adottata oltre tutto in attuazione di una specifica previsione normativa finalizzata alla riduzione selettiva della spesa pubblica: difetta quindi il profilo oggettivo dell’atto politico, venendo in rilievo una determinazione per qualche verso necessitata da prefissate esigenze finanziarie ( e cioè non libera nel fine) e soprattutto non direttamente finalizzata alla conduzione dei rapporti internazionali dell’Italia (come si evince peraltro dal carteggio intercorso tra il Presidente della Repubblica e il suo Omologo dominicano, che l’appellante stessa richiama).
Fermo quanto sopra, è altresì evidente che la soppressione di una ambasciata – e cioè dello strumento organizzativo principe per la complessiva tutela dei molteplici interessi nazionali all’estero – anche quando finalizzata al risparmio di spese e risorse, esplica comunque effetti indiretti nella sfera delle relazioni internazionali e quindi non può essere assimilata ai provvedimenti amministrativi puntuali con i quali si provveda alla chiusura o soppressione di un qualsivoglia ufficio o articolazione della pubblica amministrazione. Condivisibilmente, pertanto, il Tribunale ha inquadrato l’atto impugnato in questo giudizio nel novero degli atti di alta amministrazione, e cioè di quegli atti che – come insegna la più augusta dottrina – rappresentano il primo grado di attuazione dell’indirizzo politico nel campo amministrativo, segnando il raccordo tra la funzione di Governo che è espressione dello Stato comunità e la funzione amministrativa che è espressione dello Stato soggetto.
L’attività di alta amministrazione, attenendo alle scelte di fondo dell’azione amministrativa ed essendo affidata ai supremi organi di direzione della pubblica amministrazione, si connota ovviamente per l’elevatissimo tasso di discrezionalità: il che, come ben evidenziato dal TAR, riduce la loro sindacabilità in sede giurisdizionale al riscontro dell’osservanza delle disposizioni che attribuiscono, disciplinano e conformano il relativo potere discrezionale, e, dunque, con riferimento ai canoni della ragionevolezza, coerenza e adeguatezza motivazionale”.
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