Il presente contributo si propone di indagare lo “stato dell’arte” di un fenomeno di veemente attualità e le sue potenziali prospettive di sviluppo nel panorama giuridico italiano: il riferimento è, in particolare, alla emergente “economia della condivisione”, c.d. Sharing Economy. Previa individuazione delle caratteristiche salienti del nuovo modello, si focalizzerà l’attenzione sulla necessità di normare una realtà “in continuo divenire”, ma ciononostante bisognosa di regole.
L’economia collaborativa, c.d. sharing economy, si propone come un nuovo modello economico e culturale, capace di promuovere forme di consumo consapevole che prediligono la razionalizzazione delle risorse basandosi sull’utilizzo e sullo scambio di beni e servizi piuttosto che sul loro acquisto, dunque sull’accesso piuttosto che sul consumo di tipo proprietario.
Una vera e propria rivoluzione in atto che, veicolata per il tramite dell’information technology e dell’utilizzo massiccio dei social media, ha conosciuto nel volger di pochi anni uno sviluppo travolgente, attraendo nella sua orbita importanti settori della vita economico e sociale e catalizzando, sovente, l’attenzione dei media e dei decisori pubblici.
Ma in cosa consiste questo nuovo “paradigma”? Quali, in concreto, le caratteristiche salienti che ne hanno favorito l’irresistibile ascesa?
Orbene, con ampio margine di schematizzazione, nell’universo variegato delle esperienze attualmente presenti nel panorama mondiale, tre sono -in particolare- i tratti distintivi dell’economia collaborativa: la condivisione, ossia l’utilizzo comune di una risorsa (ex plurimis, beni di consumo, mezzi di trasporto ma anche prodotti digitali, spazi, tempo, competenze e servizi); la relazione peer-to-peer, ossia il rapporto orizzontale tra i soggetti coinvolti che si distingue dalle forme tradizionali di rapporto tra produttore e consumatore rispondendo a nuovi bisogni, tra cui, ad esempio, la crescente necessità di interagire negli scambi in una modalità più partecipativa; la presenza di una piattaforma digitale che supporta tale relazione fungendo da “market place”, luogo d’incontro virtuale in cui, sovente, è presente un meccanismo di reputazione digitale e le transazioni avvengono tramite pagamento elettronico.
Indiscusso generatore di ingenti occasioni di ricchezza e di occupazione lavorativa, il nuovo modello di produzione e di scambio si appalesa foriero di considerevoli opportunità di crescita economica, ma anche di inevitabili pericoli di approfittamento. Ed è proprio su questo versante che si appuntano, per la verità, i più consistenti profili di criticità.
Nella partita tra tradizione e innovazione non sono mancati, infatti, momenti di tensione sfociati -talvolta- in violenti episodi di guerriglia urbana: per citare i casi più eclatanti, nel maggio 2015 il tribunale civile di Milano ha disposto il blocco di “Uber-pop” (i tassisti fai-da-te) su tutto il territorio nazionale con inibizione dalla prestazione del servizio, mentre AirBnb (colosso internazionale degli affitti di case condivise) continua a subire attacchi sempre più frequenti da parte di albergatori e associazioni di categoria.
S’intravede tra le righe il cuore del problema: nonostante l’accreditamento de facto del fenomeno, balza evidente l’assenza di regole chiare ed omogenee.
Celando veri e propri modelli di business proliferati –vertiginosamente– all’ombra di un generalizzato gap normativo, è divenuta sempre più pressante l’esigenza di una regolamentazione ad hoc della platform economy che disciplinasse i processi di profonda trasformazione in corso, onde evitare una pericolosa deriva in senso anti-concorrenziale.
Un primo, significativo passo in tale direzione lo si è fatto con la proposta di legge italiana n. 3564 presentata alla Camera da un gruppo di parlamentari appartenenti all’Intergruppo innovazione tecnologica con il professato scopo di «disciplinare le piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi» e di «promuovere l’economia della condivisione».
Preceduta da una corposa introduzione, la proposta di legge – prima nel suo genere in Europa e già ribattezzata Sharing Economy Act (SEA) – condensa in 12 articoli soluzioni di “compromesso” tra istanze corporativistiche, liberalismo economico e protezione dei consumatori.
Limitando in questa sede l’analisi ai punti salienti, premessa una operazione di “perimetrazione” dell’economia della condivisione (trattandosi, in particolare, di quella «generata dall’allocazione ottimizzata e condivisa delle risorse di spazio, tempo, beni e servizi tramite piattaforme digitali (…)» con esclusione delle «piattaforme che operano intermediazione in favore di operatori professionali iscritti al registro delle imprese») nonché un’indicazione delle finalità sottese alla normativa quadro («…favorire: forme di consumo consapevole; la razionalizzazione delle risorse e l’incremento dell’efficienza e della disponibilità di beni, servizi e infrastrutture, anche nella pubblica amministrazione; il contrasto degli sprechi e la riduzione dei costi; la partecipazione attiva dei cittadini alla costruzione di comunità resilienti in cui si sviluppano relazioni che abbiano come obiettivo l’interesse generale comune o la cura dei beni comuni; nuove opportunità di crescita, occupazione e imprenditorialità basate su un modello di sviluppo economico, ambientale e sociale sostenibile; l’innovazione tecnologica e digitale»), il disegno di legge prevede principalmente:
- l’obbligo di iscrizione delle piattaforme sharing ad un «Registro elettronico nazionale» previa presentazione di un documento di «policy aziendale» attraverso cui esplicitare le condizioni contrattuali;
- la devoluzione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) del compito di regolare e vigilare sull’attività delle piattaforme digitali dell’economia della condivisione;
- in materia fiscale, la denominazione del reddito percepito da attività di sharing economy come «reddito da attività di economia della condivisione non professionale», con applicazione di un’imposta del 10% per redditi che non superino i diecimila euro. I redditi superiori a diecimila euro sono, invece, cumulati con i redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo e a essi si applica l’aliquota corrispondente. I gestori operano, in relazione ai redditi generati mediante le piattaforme digitali, in qualità di sostituti d’imposta degli utenti operatori.
Ebbene, conclusasi la fase di consultazione pubblica online, il cammino parlamentare dello SEA procede a ritmo incalzante, incassando, proprio in questi giorni, il parere positivo dell’Antitrust.
A dare il proprio benestare alla normativa quadro è stato, infatti, lo stesso presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato – Giovanni Pitruzzella – durante l’audizione alle commissioni Trasporti e Attività produttive della Camera, il quale ha evidenziato l’opportunità di disciplinare l’attività delle piattaforme online per scambi di case, affitti privati, taxi privati, car-sharing, banche del tempo e quant’altro «sia per evitare conflitti tra le piattaforme medesime e le imprese tradizionali, sia per normare un settore i cui introiti globali potranno passare dagli attuali 13 miliardi di euro a 300 nell’arco di 10 anni».
Il placet è arrivato altresì da Bruxelles attraverso la pubblicazione delle linee guida della Commissione Europea che, sia pure sulla scorta di orientamenti giuridicamente non vincolanti, ha messo in guardia contro ostacoli e barriere a una realtà in forte espansione.
«La messa al bando di una attività dovrebbe essere una misura di ultima istanza», si legge laconicamente nella comunicazione “Un’agenda europea per l’economia collaborativa”. L’esecutivo comunitario, nel suo istituzionale ruolo di guardiana dei Trattati, ha quindi condannato l’irrogazione di divieti assoluti e le restrizioni nell’accesso al mercato, se non come provvedimenti di extrema ratio. Al contrario, fortemente auspicata è la ricerca a livello nazionale di un delicato punto di equilibrio tra il rispetto della libera iniziativa economica e la necessità di protezione dei consumatori nonché, sul fronte fiscale, di un elevato livello di cooperazione delle piattaforme con le autorità nazionali.
Traspare, dunque, una presa di posizione importante: è assolutamente necessario -per il governo politico europeo- assicurare protezione sociale e condizioni di lavoro eque, ma è parimenti imprescindibile cogliere e supportare in maniera proficua le opportunità di sviluppo che nascono con l’insorgere delle nuove pratiche di condivisione, anche tramite cornici normative “a maglie larghe”, improntate a maggiore snellezza e leggerezza procedurale.
Così sommariamente tracciato lo scenario di riferimento, l’economia della condivisione appare una realtà destinata a diventare sempre più pervasiva.
In attesa di conoscerne gli sviluppi, la vera sfida –come accennato– sarà quella di dare una veste giuridica adeguata a tale “dinamico” fenomeno, regolamentandolo, senza irregimentarlo entro paletti troppo rigidi.
Scongiurando il rischio di “zone grigie” dell’ordinamento, si tratterà, più in generale, di una sfida in campo aperto dove si misurerà la capacità della politica di fornire risposte concrete ai nuovi bisogni provenienti dal polo sociale, adattandosi consequenzialmente.
KEYWORDS: Condivisione, Sharing economy, proposta di legge n. 3564.
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