La Corte di Cassazione, con due recenti sentenze, ha affrontato le problematiche fiscali in tema di accertamenti e verifiche in caso di non esibizione delle scritture contabili.
A) CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. QUINTA CIVILE – SENTENZA N. 16960 DEPOSITATA IN CANCELLERIA L’11 AGOSTO 2016.
L’art. 52, quinto comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 dispone che <<i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione>>.
La disposizione è stata interpretata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2000, n. 45/SU) nel senso che, perché la dichiarazione resa dal contribuente nel corso di un accesso o comunque di una verifica di non possedere i libri, i registri, le scritture e i documenti richiestigli in esibizione determini la preclusione a che gli stessi possano essere presi in considerazione a suo favore ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa, sono necessari:
– la sua non veridicità o, più in generale, il suo strutturarsi quale sostanziale rifiuto di esibizione, evincibile anche da meri indizi;
– la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa;
– il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che, nel corso dell’accesso, possa essere effettuata l’ispezione del documento.
E ciò in quanto, ha aggiunto la Corte, la norma fa eccezione a regole generali, di guisa che, per un verso, essa non può essere applicata oltre i casi ed i tempi da essa tassativamente considerati e, per altro verso, essa deve essere interpretata, in coerenza ed alla luce dei principi affermati dagli articoli 24 e 53 della Costituzione, in modo da non comprimere il diritto alla difesa e di obbligare il contribuente a pagamenti non dovuti.
In definitiva, per essere sanzionato con la perdita della facoltà di produrre i libri e le altre scritture, il contribuente deve aver tenuto un comportamento diretto a sottrarsi volontariamente alla prova e, dunque, capace di far fondatamente dubitare della genuinità di documenti che affiorino soltanto in seguito nel corso di giudizio (Cass. 14 luglio 2010, n. 16536; ord. 25 gennaio 2010, n. 1344; 10 gennaio 2013, n. 415; 06 settembre 2013, n. 20487; 11 aprile 2014, n. 8539; 21 luglio 2015, n. 15283; 02 dicembre 2015, n. 24503).
La norma appare, in realtà, avere una valenza in parte probatoria (se si rifiuta l’esibizione di regola è perché si ha qualcosa da nascondere e, di regola, si ha qualcosa da nascondere quando si è violata la norma impositiva) e in parte sanzionatoria per la violazione dell’obbligo di leale collaborazione con il fisco.
Ne consegue che non sono ravvisabili i presupposti di applicazione della norma allorquando l’indisponibilità sia determinata da colpa, caso fortuito o forza maggiore (Cass., ord. 29 dicembre 2009, n. 27556; vedi anche, nel senso di un’interpretazione restrittiva della norma, Cass. 16 settembre 2011, n. 18921, secondo cui, ai fini dell’integrazione del rifiuto di esibizione, e della consequenziale inutilizzabilità dei documenti, non è sufficiente la richiesta, ad opera della guardia di finanza, di esibizione di ogni documento inerente all’attività aziendale).
Si deve, quindi, ritenere recessivo il diverso orientamento che ascrive rilevanza anche all’errore non scusabile, di diritto o di fatto (per l’espressione del quale vedi Cass. 14 ottobre 2009, n. 21768; 03 aprile 2013, n. 8073; 06 maggio 2013, n. 10448).
La natura eccezionale della norma riconosciuta dalla Corte di Cassazione comporta che l’onere della sussistenza dei presupposti di fatto per la sua applicazione non possa che incombere su chi la invochi, ovvero sull’organo fiscale, che può soddisfarlo, hanno precisato le Sezioni Unite, anche mediante meri indizi.
Dunque, essa nella specie non può operare, in mancanza di qualsivoglia allegazione dell’ufficio, di circostanze anche indiziarie utili a ravvisare la condotta di rifiuto della contribuente, al cospetto per esempio del dedotto incendio.
B) CORTE DI CASSAZIONE – SESTA SEZIONE CIVILE – T – ORDINANZA N. 15479 DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 26 LUGLIO 2016.
La parte ricorrente, in un altro caso, ha lamentato che la Commissione di appello abbia erroneamente ritenuto che gravasse sull’Ufficio l’onere di provare che l’associazione avesse svolto attività di carattere commerciale, per quanto la norma dell’art. 148 TUIR preveda espressamente i casi nei quali le attività svolte dagli enti associativi non hanno rilevanza fiscale.
Peraltro, per la fruizione del regime agevolato è necessaria non solo la astratta conformità delle previsioni statutarie, ma anche la conformità concreta dell’attività associativa alle previsioni dell’anzidetta norma.
Alla luce di questo principio, la Commissione di appello ha secondo la ricorrente “del tutto omesso di conformare le proprie valutazioni alle risultanze probatorie del caso concreto” ed ha disatteso il principio fondamentale circa la ripartizione dell’onere probatorio, considerando che sarebbe spettato alla contribuente fornire gli elementi utili a contrastare le risultanze dell’attività di verifica, onere in concreto non assolto. Dopo avere riepilogato i fatti accertati che avevano fatto propendere l’ufficio per l’attribuzione di natura commerciale all’attività svolta dall’associazione, ed avere trascritto passaggi significativi dell’atto di appello, la parte ricorrente è tornata a ribadire che se la CTR “avesse valutato concretamente e realmente le risultanze della verifica, il contenuto dell’avviso di accertamento e i numerosi e gravi indizi emersi a carico dell’associazione, non avrebbe potuto rigettare, come ha fatto, l’appello dell’Ufficio….”.
Il motivo di impugnazione, nella sua composita formulazione (concretamente improntata alla identificazione di una pluralità di vizi riferiti alla pronuncia impugnata, tra i quali si sono evidenziati solo quelli nitidamente articolati) appare inammissibilmente proposto anche a voler prescindere dal rilievo della promiscuità, secondo la citata ordinanza n. 15479/16 della Corte di Cassazione.
Da un canto, la parte ricorrente si duole della violazione della regola attinente al riparto dell’onere della prova, ma senza riferire detta violazione al concreto argomentare del giudicante e rimanendo nei limiti della vaghezza e della genericità della critica. Quest’ultimo d’altronde non ha affatto addossato alla parte pubblica l’integrale debito della dimostrazione dei fatti ma solo degli “elementi che escludono il godimento dei benefici” (e cioè, come specificato nel seguito della motivazione della sentenza, le attività “istituzionalmente non previste” perché “espletate a favore di terzi estranei”), è perciò non ha affatto violato il principio secondo il quale incombe alla parte onerata in via principale la dimostrazione dei fatti costitutivi ed alla parte onerata in via secondaria la dimostrazione dei fatti impeditivi.
D’altro canto, la parte ricorrente, imputando al giudicante di non avere conformato le proprie valutazioni alle risultanze probatorie del caso concreto, peraltro senza specificarne il dettaglio, ha chiamato la Corte ad effettuare non già un controllo sulla corretta applicazione della regola in tema di riparto probatorio o un controllo sulla regolarità logica dell’iter argomentativo, ma addirittura una revisione della corretta e congrua selezione del materiale probatorio acquisito in atti e perciò ha non solo contraddetto la tipologia del vizio identificato in rubrica, ma anche invocato una verifica straripante rispetto ai compiti istituzionali della Corte di Cassazione, che non può spingersi alla revisione del giudizio sul merito qualificatorio della concreta vicenda di fatto.
Con il secondo motivo di impugnazione (improntato all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio) la parte ricorrente si duole del fatto che il giudicante avrebbe omesso di esaminare la circostanza che l’associazione aveva solo in data 27.01.2004, e perciò successivamente all’accesso dei funzionari, avvenuto il 12.12.2003 presentato la denuncia di smarrimento dei documenti relativi alle annualità 1991-2001, siccome distrutte in occasione dell’incendio del 28.02.2001.
Anche detto secondo motivo è stato rigettato con la citata sentenza della Corte di Cassazione.
A tacer del fatto che il giudicante ha espressamente dato atto nella pronuncia che la denuncia della distruzione era appunto datata 27.01.2004, ciò che appare rimarchevole ai fini del giudizio di inammissibilità è il fatto che la parte ricorrente non ha in alcun modo giustificato la qualificazione di decisività del fatto asseritamente eluso, qualificazione che peraltro non è neppure evidente “ex se”, sicché non è prospettata né prospettabile la ragione per la quale la decisione non avrebbe potuto non essere diversa ove mai il giudicante avesse dato il giusto rilievo al fatto che la parte ricorrente ha valorizzato.
Lecce, 03 settembre 2016
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