Vent’anni fa, nel fine secolo, la valorizzazione delle autonomie locali e delle rappresentazioni esponenziali del territorio sembravano essere il leit motiv di tutte le politiche pubbliche1. Oggi, all’opposto, più che scandire il tempo di un equilibrio tra centro e periferia, sembra una lama che sorvola e taglia tutto ciò che sta in mezzo. Con una costante: la “liquidità” delle istituzioni quale corollario della crisi delle due facce della medaglia: società politica e società civile. Con lo sfaldamento di tutti i luoghi della rappresentanza prevale il populismo, la lotta politica s’incattivisce, appare priva di quella “mitezza” di cui parlava Norberto Bobbio, indispensabile per governare con autorevolezza, responsabilità e per coltivare grandi ambizioni. Dai piccoli Comuni alle Camere di commercio, sino alle Province, ai partiti politici, alle forze sociali con la loro crisi di rappresentanza dei lavoratori e dell’impresa, fino ad arrivare alla stessa autonomia statutaria della Regione Siciliana.
Nell’articolazione dei nuovi poteri locali si sono combinate varie opzioni forti accomunate da un comune denominatore: la delegittimazione delle autonomie locali. Così facendo si rischia seriamente di snaturare l’identità italiana non a caso chiamata l’Italia dei campanili. E invece, i piccoli Comuni polvere (in Sicilia il 50% dei Comuni è sotto i cinquemila abitanti – 199 su 390 -), che dovrebbero continuare a rappresentare luoghi di presidio territoriale e identitario contro l’abbandono e lo spaesamento, sembrano avere i mesi contati in un contesto ordinamentale che non sembra gradirli più.
Più delicato, ma altrettanto pregnante, è il tema che viene da lontano, dall’impianto napoleonico delle Province – sostituite in Sicilia dalle Province regionali negli anni ’80 e più recentemente dai liberi Consorzi comunali e dalle Città metropolitane – e delle Prefetture, ognuna con una sede della Banca d’Italia. Questi enti intermedi, prima costituzionalizzati attraverso la riforma del citato Titolo V° Cost., stanno per essere espunti dall’ordinamento nell’ipotesi di controriforma costituzionale sottoposta prossimamente a referendum popolare.
Le nostre considerazioni di sintesi non possono quindi essere incoraggianti. La tendenza involutiva neo-statalista e lo svuotamento sostanziale del principio autonomista, avrebbero dovuto suggerire, almeno, proposte migliorative del Titolo V° Cost., sulla scia dei principi autonomistico e del massimo decentramento possibile. Così sembra non essere alla luce del testo di legge di riforma costituzionale che sarà prossimamente sottoposto al vaglio degli italiani. Queste ultime proposte di modifica della Costituzione sul federalismo fiscale, le già intervenute integrazioni delle disposizioni costituzionali sul pareggio di bilancio, nonché la legge rinforzata attuativa di queste ultime, aumentano in modo rilevante e definitivo i vincoli che il legislatore statale può unilateralmente imporre sulle entrate e sulla spesa degli enti territoriali in nome del “l’unità giuridica o economica della Repubblica” e della “realizzazione di riforme economico-sociali di interesse nazionale”. E’ come se si fosse messo in moto un irreversibile processo, in termini politico-culturali, inverso rispetto al seppur opinabile modello di federalismo fiscale che era alla base, nel 2001, del titolo V°, parte II, della Costituzione come attuato dalla legge n. 42 del 2009.
Viene il sospetto che questo ritorno alla finanza derivata sia giustificato non tanto da un orientamento politico di fondo contrario e alternativo ai principi costituzionali di autonomia e sussidiarietà, quanto dalla sfiducia nella classe dirigente degli enti territoriali, dall’incapacità di porre rimedio, con gli strumenti della legislazione ordinaria e dell’agire amministrativo, sia alla loro inefficienza sia alla corruzione che si annida anche in essi.
Ciò che si sta registrando nella città di Enna, in cui l’aula consiliare risulta okkupata da un Sindaco privo di maggioranza e la dirimpettaia ex Provincia regionale lasciata al suo triste destino per asfissia finanziaria, altro non è che la prova provata di quanto qui illustrato.
Come non essere d’accordo con Giuliano Amato, per il quale “Il passato pesa e può pesare ancora di più in ragione del clima a cui dobbiamo la riforma, un clima (…) volto più a limitare le Regioni che non a promuovere l’autonomia responsabile (…). L’Italia che facesse inaridire le diversità delle sue Regioni di sicuro perderebbe dei vizi. Ma lascerebbe per strada anche una buona parte delle sue virtù”.
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