Successione di leggi penali e determinatezza nelle false comunicazioni sociali

Adorna Nicola 18/10/16

            Il principio di legalità, che trova riconoscimento nell’art. 25, co. 2 Cost., è il cardine fondamentale dell’ordinamento penale. Esso stabilisce che nessuno può essere sottoposto a pena se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto compiuto, in osservanza dell’antico brocardo nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali.

            Il dettato della citata norma conferma già la stretta coordinazione tra i principi di legalità e di irretroattività della legge penale. Anche quest’ultimo rientra fra le maggiori garanzie offerte dall’ordinamento a presidio della libertà individuale, e la sua importanza si comprende appieno nella lettura combinata con gli ulteriori principi di colpevolezza e rieducazione della pena (art. 27, co. 1 e 3 Cost.); non si può esigere, difatti, che il reo comprenda il motivo dell’inflizione della pena e ne accetti l’effetto risocializzante, se non ha modo di conoscere per tempo le opzioni di politica criminale e così orientare, consapevolmente, la propria condotta.

Tale tassativo divieto di retroattività in malam partem è recepito dall’art. 2, co. 1 c.p.; ma al contempo si dispone, ai commi 2 e 4, il contrario obbligo di retroattività in bonam partem (ossia la retroazione della legge più favorevole per il reo), sul quale sono sorte dispute interpretative circa l’assenza di un’esplicita previsione di rango costituzionale.

Il problema si ritiene oggi superato. Si riconosce, invero, che l’art. 7 CEDU – così come risulta dalla consolidata interpretazione della Corte EDU – esprime il principio del favor rei; mentre un primo addentellato già si può rinvenire nell’art. 3 Cost., poiché sarebbe irragionevole assoggettare i consociati a trattamenti differenti nel momento in cui mutano in melius le scelte legislative.

Nella fattispecie, l’art. 2, co. 2 c.p. disciplina i casi di abolitio criminis, prevedendo che nessuno possa essere punito per un fatto non più considerato reato da una legge posteriore, giungendo perfino a travolgere l’intangibilità dell’eventuale giudicato già formatosi.

Il comma 4, invece, regolamenta le ipotesi di successione di leggi modificatrici che, pur lasciando intatto il disvalore penale di un determinato fatto, contengono però diverse previsioni; viene disposto, allora, che si applichi al reo solo quella più favorevole, fatta salva la pronuncia di sentenza irrevocabile. In questo caso, data la persistenza del carattere illecito del fatto, nel legittimo bilanciamento fra i diversi interessi si preferisce non derogare automaticamente alla citata intangibilità del giudicato.

In proposito, è d’uopo segnalare le problematiche applicative che si rinvengono dinanzi alla cosiddetta abrogatio sine abolitione. Quando è la legge successiva ad essere più mite, infatti, è necessario determinare un metodo utile per riconoscere se si è verificata una mera modificazione o una vera e propria vicenda abolitiva, con conseguenze notevoli sul regime applicabile al caso concreto.

Fra i diversi criteri proposti nel tempo, quello strutturale (o della continenza) è attualmente considerato il più adeguato per simile esigenza, tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza; esso consiste nell’identificazione di un rapporto di genere a specie fra le norme in successione, laddove la norma speciale ricomprende l’intero disvalore espresso nella generale, sommato a elementi caratterizzanti. L’analisi di detti elementi consente di ravvisare la sussistenza o meno della linea di continuità, fra le due norme, nell’incriminazione del fatto; solo se la continuità non è presente, si ha abolizione e si applica l’art. 2, co. 2 c.p.

La specialità in parola, inoltre, può essere di due tipologie: per aggiunta o per specificazione. Se si ha specialità per aggiunta, la lex specialis contiene tutti gli elementi della generale più altri nuovi; nel secondo caso, invece, la norma speciale non contiene elementi aggiuntivi rispetto a quelli della lex generalis, ma specifica ulteriormente alcuni di essi.

Non può sottacersi che l’elaborazione dell’enunciato sul principio di legalità ha consentito – nel tempo – di far derivare da esso altri principi di rilievo, ossia quelli di materialità, offensività e determinatezza (o tassatività).

In particolare, il principio di determinatezza impone che le fattispecie incriminatrici vengano redatte con un linguaggio il più possibile chiaro e fruibile, sia per l’utilizzo dei singoli vocaboli in sé considerati sia per le connessioni fra i vari elementi all’interno della disposizione. L’esigenza che la lettera della legge risulti comprensibile si deduce sempre da un’analisi sistematica delle norme costituzionali, col raffronto tra il contenuto dell’art. 25, co. 2 e gli altri principi indefettibili – già indicati supra – di colpevolezza e rieducazione della pena.

Quando il testo normativo è oscuro, l’agente non è in grado realmente di valutare la possibile rilevanza penale della condotta che pone in essere; pertanto, corre il rischio di vedersi attribuire come reati dei fatti che, secondo la propria interpretazione, tali non erano e per i quali non necessiterebbe di risocializzazione. Significherebbe introdurre una forma di responsabilità oggettiva, non ammissibile nell’ordinamento penale.

In realtà, ciò avverrebbe perché un enunciato incerto lascerebbe eccessiva libertà d’interpretazione agli organi giudicanti, operando surrettiziamente una confusione fra i ruoli giudiziario e legislativo; una palese violazione del principio preminente di necessaria separazione tra i poteri dello Stato. Tale situazione deluderebbe, altresì, le legittime aspettative di certezza del diritto in capo ai consociati, poiché ciascun giudice avrebbe libertà eccessiva di riconoscere alla singola norma un significato diametralmente opposto a quello statuito da altri.

Difatti, per quanto l’attività interpretativa del giudicante sia un momento immancabile per la sussunzione della fattispecie astratta sotto quella concreta, bisogna rammentare che egli è vincolato a delle tecniche specifiche da utilizzare per giungere alla decisione, enunciate all’art. 12 preleggi. Se non vi è sufficiente determinatezza del dato testuale, anche il rispetto più puntuale delle indicazioni suddette non è in grado di garantire neppure una minima certezza nell’applicazione della legge (anche questo un valore di primaria importanza per l’ordinamento di uno Stato di diritto).

Da non sottovalutare il problema relativo all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale in capo al Pubblico Ministero, di cui all’art. 112 Cost., difficilmente attuabile in assenza di norme chiare che consentano di comprendere quali fatti siano da considerare reati. E, qualora l’azione penale fosse esercitata comunque, un dettato di scarsa fruibilità causerebbe all’imputato notevoli difficoltà sotto il profilo della strategia difensiva; questo condurrebbe alla violazione del diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, co. 2 Cost.), nonché alla ovvia negazione di un giusto processo come garantito dall’art. 111 Cost.

Tutto ciò sinteticamente premesso, un recente esempio di applicazione dei principi enucleati si è avuto in seguito alla riformulazione dei reati di false comunicazioni sociali, di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c.; riformulazione che, per questioni ermeneutiche, ha comportato contrasti giurisprudenziali circa la portata delle nuove fattispecie rispetto alle preesistenti, sfociati nell’intervento chiarificatore della Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

Le due disposizioni prevedono (la prima per le società non quotate, la seconda per quelle quotate ed equiparate) la punibilità per le figure apicali che – con fine di profitto – nelle comunicazioni sociali espongono fatti materiali non rispondenti al vero od omettono quelli la cui comunicazione è imposta per legge, in modo idoneo a indurre altri in errore.

Tra le varie modifiche inserite in sede di riforma, alcune non destano particolari perplessità in materia di successione di norme.

Si pensi – ad esempio – all’eliminazione della soglia di rilevanza penale, che in precedenza trasfondeva la condotta nell’alveo degli illeciti amministrativi qualora non venissero compiute alterazioni sensibili o variazioni dei dati economici superiori a determinati valori percentuali (artt. 2621, co. 3-4 e 2622, co. 7-8 prev.). Trattandosi di una legge sfavorevole, che riconosce rilievo penale anche a fatti che in precedenza ne erano esenti, i suoi effetti non potranno mai retroagire.

Ancora, si osservi l’inserimento ex novo dell’art. 2621-bis, che dispone un trattamento sanzionatorio attenuato (per le condotte di cui all’art. 2621) in caso di fatti di lieve entità o riguardanti società prive dei requisiti per essere assoggettate alla disciplina del fallimento. Appare difficile, nonostante introduca una particolare ipotesi mitigante, che possa agire retroattivamente.

Nello specifico, sia che si faccia rientrare la lieve entità del fatto nel limite dei medesimi valori della previgente soglia di non punibilità, sia che ci si spinga un po’ al di sopra di quei valori, la legge più favorevole per il reo sarebbe sempre l’antecedente art. 2621 c.c. Nell’un caso, in ragione del confronto fra illecito amministrativo e penale; nell’altro, perché le pene comminate erano comunque più lievi.

Difficoltà rimarchevoli, al contrario, sono emerse in ordine all’individuazione degli stessi elementi costitutivi del fatto di reato, a causa delle nuove scelte semantiche; una questione che inerisce ai profili della determinatezza della norma penale e che (come si vedrà) incide sensibilmente sulla materia della successione di leggi. La soluzione è da ricercarsi nella puntuale analisi del testo, secondo i criteri letterale, diacronico e sistematico.

Un primo parallelo con la formula previgente, che puniva l’esposizione di <<fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni>>, lascia constatare l’eliminazione della proposizione afferente alle valutazioni. Per valutazioni si intendono le operazioni di stima che si rendono necessarie per iscrivere in bilancio i valori di molti cespiti patrimoniali, i quali non possono essere espressi se non seguendo il principio base di prudenza di cui all’art. 2423-bis, co. 1, n. 1 c.c.

L’attuale venir meno della subordinata pone la questione, centrale, di comprendere se l’inclusione delle valutazioni sia ancora valida o se il nuovo enunciato rappresenti una differente preferenza di politica criminale. Tale ultima tesi vorrebbe uno stretto rispetto del dettato normativo, per cui l’assenza del riferimento alle valutazioni significherebbe la loro espunzione dagli elementi vagliabili ai fini di un giudizio di falsità delle comunicazioni sociali.

Ciò significa che la riforma avrebbe ridotto l’ambito di applicazione delle fattispecie, estensibili non più agli elementi contenuti nelle comunicazioni sociali che siano mere valutazioni, ma soltanto ai dati certi non soggetti a stima alcuna. Tradotto ai sensi dell’art. 2 c.p., vi sarebbe stata una parziale abolitio e le condotte attinenti esclusivamente alle valutazioni non sarebbero più punibili, travolgendo anche il relativo giudicato.

La soluzione, però, non convince. La ratio della norma è la tutela di soci, investitori e risparmiatori rispetto a possibili pratiche infedeli ed economicamente dannose nella gestione del patrimonio sociale; oltre allo scongiurare altre pratiche illecite di cui, tipicamente, le falsità contabili sono il presupposto.

Inoltre, un consolidato intervento pretorio ha già espressamente affermato, in passato, la natura meramente esegetica della concessiva <<ancorché oggetto di valutazioni>>, riconoscendo che le valutazioni devono essere ritenute incluse nei fatti materiali. Siffatta interpretazione non è contrastata dalla presenza dell’attributo “materiali” accanto al sostantivo “fatti”, poiché il sintagma che viene così a formarsi ha l’unico scopo di enfatizzare la centralità degli elementi rappresentati in modo falso rispetto alla funzione informativa delle comunicazioni sociali; una materialità così intesa non esclude, pertanto, le stime di bilancio.

Invero, le valutazioni sono fondamentali per comprendere al meglio la situazione finanziaria di una società (tanto che è difficile ipotizzarne la mancanza in uno schema di bilancio), e sarebbe irragionevole pensare di attuare delle tutele effettive per i soggetti citati non riconoscendo la rilevanza penale della falsificazione di esse. Si deve convenire, a questo punto, che le valutazioni rientrano ancora nei fatti materiali.

Questione differente (già in essere dalla precedente versione) riguarda, invece, i limiti per il giudice nel decidere su simili falsità; il dato testuale, infatti, non fornisce alcuna indicazione precisa in merito alle caratteristiche del falso valutativo, e potrebbe apparire eccessiva la discrezionalità lasciata al giudicante nel pronunciarsi sulla veridicità di elementi dalla natura non certa, proprio perché afferenti a stime di valore.

In realtà, non è necessario che il codice fornisca qui prescrizioni più dettagliate sul punto; la falsità di una valutazione può ben evincersi attraverso il riscontro con criteri tecnici indiscussi, validi a livello internazionale, che si utilizzano nella stima dei cespiti societari. L’applicazione di detti criteri consente di individuare quanta lontananza vi sia – in concreto – dal principio di prudenza prima citato, senza che l’organo giudicante sia investito di una discrezionalità eccedente; il falso è, quindi, punibile se l’agente si discosta – senza adeguata giustificazione – da criteri tecnici fissati per legge o generalmente accettati.

Riassumendo, si è opportunamente eliminato un semplice pleonasmo, poiché la concessiva riguardante le valutazioni non aveva la benché minima valenza additiva. La nuova formulazione ha modificato prima facie gli elementi del fatto, ma la loro sostanza resta immutata così come l’estensione delle fattispecie astratte, senza alcuna abolizione.

Le conclusioni avanzate non sembra possano essere superate dal raffronto con la formula di cui all’art. 2638, co. 1 c.c. Detta norma, nel tutelare l’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, continua a punire chi lo ostacola con l’esposizione di <<fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni>> nelle comunicazioni obbligatorie sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria degli enti sottoposti a controllo.

Il fatto che il rimando alle valutazioni sia qui ancora presente, non è indice inequivoco della validità del brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, in base al quale la mancata espunzione della subordinata nell’un caso farebbe dedurre la volontà abolitrice negli altri.

Bisogna considerare, in primo luogo, che l’articolo in oggetto non è stato riformato contestualmente ai reati di false comunicazioni sociali, come avvenuto invece con l’emanazione del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61. Non si è, pertanto, ricreata una situazione in grado di favorire l’omogeneità nelle scelte lessicali; il che indebolisce un’argomentazione basata su un simile apporto sistematico.

In secondo luogo, e soprattutto, non si tratta di un’obiezione capace di sminuire il dato ormai pacifico circa la valenza della concessiva in esame, come già descritto. Senza contare che si deve evitare l’irragionevole disparità di trattamento che risulterebbe, altrimenti, fra le due distinte situazioni: chi esponesse il falso nelle valutazioni verrebbe punito solo se indirizzasse la comunicazione alle autorità di vigilanza, ma non nel caso in cui la indirizzasse ad altri soggetti.

Potrebbe, ancora, avanzarsi un’ennesima critica, basata sull’ipotesi che l’inserimento, dovuto sempre alla riforma, dell’aggettivo <<rilevanti>> accanto ai <<fatti materiali>> rappresenti la volontà esplicita di escludere le valutazioni. Come se quest’ultime, falsate, non potessero avere uno spessore decettivo sufficiente rispetto ad altri elementi delle comunicazioni sociali.

È certo probabile che l’intento legislativo non fosse quello di creare un nuovo pleonasmo, dovendosi perciò escludere l’idea di un’endiadi e trovare, piuttosto, un significato proprio all’attributo in questione, che possiede una connotazione alquanto generica.

A questo punto, si può sostenere che esso abbia la funzione di evidenziare che il falso punibile ai sensi dell’art. 2621 c.c. deve ricadere sulle componenti delle comunicazioni sociali in grado di incidere in modo gravoso sull’apparenza della situazione finanziaria di una società e, quando falsificate od omesse, abbiano una notevole capacità fuorviante. Se così è, dati i cenni di cui supra circa il peso in sede contabile delle valutazioni, non si può credere che siano da considerare a priori “irrilevanti”.

È più logico pensare che il sopraggiunto aggettivo segni la linea di confine per l’applicazione dell’art. 2621-bis, nel cui comma 1 è disposto che si valuta la lieve entità del fatto tenendo conto perfino <<delle modalità o degli effetti della condotta>>. La disciplina si applicherebbe, allora, non solo per le piccole realtà societarie, ma anche per le alterazioni su dati di minor momento delle comunicazioni.

Il rapporto, in tal senso, fra le due disposizioni contigue analizzate può trovare conforto nel fatto che l’aggettivo <<rilevanti>> non è contenuto nella condotta commissiva di cui all’art. 2622 c.c., non essendo seguito da alcuna norma mitigante del tenore dell’art. 2621-bis: non è, dunque, necessario stabilire alcuna demarcazione per una lieve entità. Avendo riguardo al più delicato settore delle società quotate, è ben logico ritenere che si sia voluta escludere qualsiasi forma di attenuazione sanzionatoria, così da inasprire sotto ogni profilo le pene comminate.

Il fatto è che l’attributo si ritrova poi inserito in merito alla condotta omissiva, creando confusione nell’analisi della norma. È più probabile, invero, che si tratti di un mero errore di trascrizione della formula in sede di modifica, senza reale significato divergente; poiché non avrebbe alcun senso pratico creare una tale distinzione tra i due tipi di condotte nel medesimo articolo.

Tornando al punto centrale, vero è che la previgente formulazione aveva creato forti perplessità circa l’opportunità di depenalizzare le condotte al di sotto di una determinata soglia. Ma, a prescindere da un giudizio di valore nel merito, deve riconoscersi quantomeno l’utilità della precisione adoperata nello stabilire quali fossero i limiti alla rilevanza penale, in modo da circoscrivere il più possibile l’ambito di discrezionalità del giudice.

Oggi, al contrario, non si riscontra più l’indicazione di valori percentuali e si lascia al vaglio di ogni singolo interprete lo stabilire quale condotta rientri nell’ambito applicativo dell’art. 2621 e quale in quello dell’art. 2621-bis c.c.; decretare, infatti, cosa sia la <<lieve entità>>, opposta alla “rilevanza” di altre circostanze, non è sicuro che conduca a risultati univoci in sede pretoria.

Certe criticità, seppur parziali, quanto alla precisione/determinatezza del dettato, non possono che essere viste negativamente. Sarebbe stato più opportuno, forse, inserire delle soglie precise in una materia così articolata, se necessario anche ridiscutendo quelle preesistenti e non dovendo obbligatoriamente farle rivivere.

Per quanto attiene, infine, alla condotta omissiva, le norme previgenti parlavano di <<informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge>>, mentre ora si fa riferimento sempre a <<fatti materiali>>. Ci si può domandare anche qui se vi sia un restringimento dell’ambito di incriminazione, apparendo il termine “fatti” come più circoscritto e specifico rispetto a “informazioni”; con la conseguenza di una parziale abolitio per alcuni tipi di condotte.

Il quadro normativo non deve ritenersi, però, mutato; già in precedenza si poteva riconoscere la corrispondenza fra le due espressioni, poiché sono entrambi termini sufficientemente elastici, in grado di inglobare in sé tutti gli elementi contenuti nelle comunicazioni sociali (come dimostrato dalla stessa inclusione delle valutazioni nei “fatti”, termine quindi non così circoscritto).

Anche perché non si comprende il motivo per cui debbano essere presi in considerazione elementi diversi a seconda che la condotta sia commissiva od omissiva, dovendosi garantire sempre identica tutela – la più ampia possibile – ai soggetti passivi; quindi, alla precedente scelta legislativa dell’utilizzo di espressioni sinonime è stata semplicemente preferita quella della ripetizione del medesimo sintagma.

Da quanto esposto, in conclusione, si evince che non consta un difetto eccessivo di determinatezza (tranne per i dubbi espressi circa la portata dell’art. 2621-bis c.c. in relazione all’utilizzo dell’aggettivo <<rilevanti>> nell’articolo che lo precede) né alcuna abolizione – nemmeno parziale – o introduzione di leggi altrimenti favorevoli in merito ai reati di false comunicazioni sociali.

 

Adorna Nicola

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