Prima di entrare nel merito della questione occorre preliminarmente ricordare che, ai sensi del novellato art. 1117 c.c., “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo: 1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche”.
Detto ciò, si ricorda che tra i modi di acquisto della proprietà di un bene immobile o di un altro diritto reale (superficie, servitù, ecc.), deve annoverarsi quello relativo all’usucapione, vale a dire, l’acquisto della proprietà con il possesso di quel bene immobile continuato per venti anni (art. 1158 c.c.) ovvero dieci anni, qualora si acquisti in buona fede il bene da chi non è proprietario, in forza di titolo idoneo (art. 1163 c.c.).
Pertanto, il condomino che intenda far valere il suo diritto d’acquisto, a titolo originario, su determinati beni immobili comuni di cui detiene il possesso ventennale, deve evocare in giudizio il condominio nella persona dell’amministratore.
A tal riguardo, infatti, il II comma dell’art. 1131 c.c. stabilisce come, l’amministratore può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio, in ordine alle azioni di natura reale relative alle parti comuni dell’edificio tra cui, appunto, l’usucapione.
In tali casi, pertanto, la legittimazione passiva dell’amministratore appare ampia, e senza alcun limite di sorta – anche senza autorizzazione da parte dell’assemblea condominiale Cass. 16901/2012. Contra: Cass. 3044/09; Cass. 5147/03; 40/15 –, il che esclude la necessità di far partecipare al giudizio e, conseguentemente, estendere lo stesso (tecnicamente: integrare il contradditorio) nei confronti di tutti condomini.
Di contro, ogni singolo condomino, oltre ovviamente all’amministratore, può agire in giudizio in rappresentanza dell’intera compagine condominiale, per le azioni a difesa della proprietà comune, il che sta a significare che, per siffatto genere di azioni, ogni singolo condomino ha la legittimazione attiva per agire in giudizio.
Un caso particolare, tutt’altro che infrequente, è quello relativo alle azioni giudiziarie poste in essere dal singolo condomino, o da un gruppo di essi, che tendono a rivendicare un bene di proprietà comune posseduto in via esclusiva da un altro condomino il quale, a sua volta, chiede in giudizio (azione riconvenzionale) l’accertamento del suo diritto di proprietà su quel medesimo bene immobile, sia esso derivante da un titolo d’acquisto ovvero per usucapione.
In tali casi, come ricordato da ultimo nella sentenza della II Sez. civile della Corte di Cassazione, n. 20453, pubblicata in data 11.10.2016, “sussiste litisconsorzio necessario tra tutti i condomini se colui che è stato convenuto da alcuni di essi, attori in rivendica del diritto di comproprietà su un bene comune, chiede in via riconvenzionale l’accertamento del suo diritto di proprietà esclusiva sul medesimo bene, perché l’eventuale accoglimento di questa domanda pregiudica i diritti dei condomini rimasti estranei al giudizio” (Nello stesso senso: Cass. 12439/00; Cass. 15547/05).
Ciò sta a significare che, il condomino convenuto in giudizio in una azione a difesa della proprietà collettiva che intenda reclamare il suo diritto di proprietà esclusiva sul medesimo bene, dovrà necessariamente estendere il giudizio nei confronti di tutti i partecipanti al condominio, in considerazione del fatto che l’accoglimento di tale domanda riconvenzionale andrebbe ad intaccare il diritto di comproprietà dei condomini rimasti inconsapevolmente estranei al giudizio.
Ed invero, per ipotesi, l’eventuale sentenza di accertamento del diritto di proprietà del bene immobile ritenuto di proprietà comune, in favore del singolo condomino, resa in violazione del suddetto principio e, pertanto, senza la necessaria integrazione del contradittorio nei confronti di tutti i partecipanti al condominio, risulterebbe inutiliter data (letteralmente: data inutilmente), proprio in virtù del principio per cui la sentenza fa stato solo tra le parti in causa e, conseguentemente, non potrebbe estendere i suoi effetti ai condomini che non stati posti nelle condizioni di partecipare al suddetto giudizio.
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