La distruzione dei beni culturali durante la guerra mondiale: il ponte borbonico Real Ferdinando sul Garigliano

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I conflitti armati hanno costituito (e costituiscono tuttora) una delle principali cause di danneggiamento e distruzione del patrimonio culturale, perché nella strategia del soggetto aggressore l’attacco ai beni culturali equivale al tentativo di annichilire l’identità e la memoria storica del nemico, di cui i beni culturali costituiscono viva testimonianza, venendosi così ad aggiungere alla distruzione materiale la distruzione morale del nemico[1] .

Anche le recenti cronache riguardanti la devastazione di importanti siti archeologici nei vari contesti di guerra (sebbene quest’ultima sia oggi quasi sempre “asimmetrica”, con tutto ciò che ne consegue, anche sotto il mancato rispetto della normativa internazionale posta a protezione dei Beni Culturali) sono la testimonianza odierna di una vera e propria strategia risalente nel tempo (ancora riecheggiano, ad esempio, le parole di Catone il Vecchio, secondo cui “Cartago delenda est”); ma è anche vero che, in  altre occasioni- necessariamente riferite al passato, sotto il profilo che di qui a poco si spiegherà-, tali distruzioni furono giustificate da esigenze di stretta natura militare che, parlando in termini attuali,  rispondevano (o così si riteneva) a quei criteri di necessità e vantaggio (militare) che trovarono poi una loro regolamentazione sia nelle Convenzioni di Ginevra del 1949, sia in quella firmata all’Aja il 14 maggio 1954, avente ad oggetto proprio la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato[2].

In tal senso, di quest’ultima, potrebbero richiamarsi l’art. 4,  comma 1, secondo cui “Le Alte Parti contraenti s’impegnano a rispettare i beni culturali, situati sia sul proprio territorio, che su quello delle altre Alte Parti contraenti, astenendosi dall’utilizzazione di tali beni, dei loro dispositivi di protezione e delle loro immediate vicinanze, per scopi che potrebbero esporli a distruzione o a deterioramento in caso di conflitto armato, ed astenendosi da ogni atto di ostilità a loro riguardo”;

il successivo co. 2 dello stesso art. 4 della Convenzione, secondo cui “Non può derogarsi agli obblighi definiti nel primo paragrafo del presente articolo, se non nei casi in cui una necessità militare esiga, in modo imperativo, una simile deroga”; o, ancora, l’art. 5, che prevede un obbligo, addirittura, per le suddette (Parti contraenti), in caso di occupazione, totale o parziale, del territorio nemico, di “appoggiare, nella misura del possibile, l’azione delle autorità nazionali competenti del territorio occupato, intesa ad assicurare la salvaguardia e la conservazione dei propri beni culturali”; così come l’art. 53 del I Protocollo Aggiuntivo di Ginevra che, dal canto suo, afferma che “Senza pregiudizio delle disposizioni della Convenzione dell’Aja dei 14 maggio 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, e di altri strumenti internazionali applicabili, è vietato: a) compiere atti di ostilità diretti contro i monumenti storici, le opere d’arte o i luoghi di culto, che costituiscono il patrimonio culturale o spirituale dei popoli; b) utilizzare detti beni in appoggio allo sforzo militare; c) fare di detti beni l’oggetto di rappresaglie”.

Ancora, potrebbe interessare l’art. 6 lett. B) del II Protocollo aggiuntivo relativo alla protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato del 1999 secondo cui “allo scopo di garantire il rispetto dei beni culturali conformemente all’art. 4 della Convenzione, (…) una deroga sulla base della necessità militare imperativa, secondo l’art. 4 paragrafo 2 della Convenzione, potrà essere invocata soltanto per utilizzare i beni culturali per scopi che potranno probabilmente portare alla loro distruzione o danneggiamento quando e per tutto il tempo che non esista altra scelta tra tale uso dei beni culturali e altro metodo fattibile per ottenere un simile vantaggio militare”; di contro, alla lett. c) dello stesso art. 6, si afferma che “una deroga sulla base della necessità militare imperativa, secondo l’art. 4 paragrafo 2 della Convenzione, potrà essere invocata soltanto per sferrare un attacco contro un bene culturale quando e per tutto il tempo che i) quel bene culturale è stato fatto, in virtù della sua funzione, un obiettivo militare: e ii) non esiste diversa alternativa fattibile per ottenere un vantaggio militare simile che indirizzando un atto ostile contro quell’obiettivo”.

Proprio alla luce dei nuovi principi riportati nell’attuale normativa internazionale (che, oltre alla Convenzione sopra richiamata, è stata integrata successivamente anche dal II Protocollo Aggiuntivo del 1999), sarebbe interessante (operando una sorta di fictio iuris: una legge penale, infatti, non può disporre che per l’avvenire, e nessuno può essere perseguito per un fatto che, all’epoca in cui fu commesso, non era previsto come reato) indagare se la distruzione di molti siti e Beni di interesse culturale fu, specialmente durante il Secondo Conflitto mondiale, operata secundum legem o, al contrario, in spregio di essa.

Certamente, non possono non ricordarsi i bombardamenti “a tappeto” di città d’arte come Dresda, Londra e Varsavia, che peraltro dimostrarono proprio la sostanziale inefficacia degli strumenti normativi allora esistenti: il Regolamento allegato alla Convenzione dell’Aja del 1899[3] e le successive Convenzioni- sempre firmate all’Aja- del 1907[4].

Con riferimento al nostro Paese, invece, nell’assenza di una ricostruzione bibliografica sistematica in materia[5], l’immaginario collettivo corre spesso al drammatico bombardamento dell’abbazia di Montecassino, che certamente causò dei gravissimi danni alla suddetta, ma furono diversi  i monumenti antichi ed i siti archeologici colpiti dagli Alleati (non solo quelli collocati all’interno delle città – come l’Arco di Augusto a Rimini o il Tempio di Augusto a Pola – ma anche quelli situati in aree extraurbane, come Pompei o Villa Adriana presso Tivoli).

Tra i gioielli del nostro patrimonio culturale, a subire le conseguenze belliche del Secondo Conflitto, vi fu anche il Ponte Borbonico Real Ferdinando di cui, proprio nei giorni scorsi, è ricorso l’anniversario della sua inaugurazione (avvenuta il 10 maggio 1832): tale struttura, sita a guado del fiume Garigliano, nelle immediate vicinanze dell’antica Minturnae, fu il primo ponte sospeso realizzato in Europa, progettato da Luigi Giura che lo realizzò per volontà di Ferdinando II tra il 1828 e il 1832.

Il Ponte “ornato di sfingi faraoniche e colonne egittizzanti” fu costruito con tecnologia innovativa e d’avanguardia “che parve per il tempo un miracolo di ingegneria per la snellezza della costruzione e la semplicità delle linee, non mancanti di pretesa artistica, insinuato e quasi chiuso da un fitto bosco di eucalipti[6]: i relativi lavori di costruzione (che, come accennato, iniziarono nel 1828), furono fortemente sconsigliati dai pareri del Corpo degli Ingegneri del Regno, tra i quali Ignazio Stile, che addirittura bollò la tipologia come retrograda, espressione tecnologica di civiltà da lui considerate culturalmente arretrate (il riferimento era al Perù- con i ponti di corda degli Inca- ed ai ponti tibetani della Cina himalayana) e che così ebbe ad esprimersi sul progetto: “I viaggiatori ne dicono che tal generazione di Ponti vien costumata da’ Cinesi, e da’ Peruani. I primi con verace catene, e colle funi i secondi. […] I cinesi, però, ed i Peruani, non sono le nazioni le più culte della terra, e perciò i loro prodotti risentir debbono della debolezza de’ loro ingegni. Ecco perché gli Europei che da più tempo trafficano nella Cina e nel Perù, e che dal p.mo momento han riportata tra noi l’esistenza di tali ponti non han creduto esser ben fatto imitarli, e l’hanno trascurati, e messi nel numero delle cose di cui non debba farsene conto […][7].

Infatti, a lavori ultimati, nessuno era disposto a collaudare il ponte avveniristico, certi come si era che sarebbe crollato sotto il minimo peso, nonostante le rassicurazioni del Giura: allora, fu il re in persona, Ferdinando II (1810-1859) a prendere l’iniziativa, andandosi a piazzare nel mezzo della campata ed ordinando poi che vi passassero sopra due squadroni di lancieri al trotto e ben sedici traini d’artiglieria.

Il ponte resse, almeno fino al 1943, quando i tedeschi, che avevano fatto partire la famosa Linea Gustav proprio dalla foce del Garigliano (e che, giungendo fino ad Ortona, in Abruzzo, passava anche per Cassino), lo fecero saltare in aria: fortunatamente, le colonne ressero ed esso fu ricostruito nel 1998. Attualmente è gestito (peraltro in maniera egregia: doverosa notazione, in controtendenza al panorama attuale- come denunciato dai media- di una mala gestio dei nostri Beni Culturali) dalla Soprintendenza Archeologica per il Lazio[8].

 

 


[1] R. Mazza, La protezione internazionale dei Beni Culturali mobili in caso di conflitto armato: possibili sviluppi, in La protezione dei beni culturali nei conflitti armati e nelle calamità, a cura di M. Carcione e A. Marcheggiano, Milano, 1997, pp. 265-283, in part. p. 265.

[2] «I danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale»: così esordisce la richiamata Convenzione che costituisce tuttora la fonte normativa primaria per la tutela dei beni culturali in tempo di guerra. Si tratta di una significativa affermazione di principio, che racchiude la ratio ispiratrice del Testo normativo in questione e, al contempo, segna l’evoluzione concettuale della materia: con essa, infatti, si supera la tradizionale impostazione statalistica della protezione dei beni culturali e, abbandonando ogni riferimento alla natura pubblica o privata dei beni tutelati, si giunge ad una nozione universale di «patrimonio comune dell’umanità», che evoca una comunanza di interessi, piuttosto che una contrapposizione, tra lo Stato nel cui territorio si trova il bene e lo Stato aggressore.

L’idea, rafforzata dalla Convenzione dell’Aja, è che il patrimonio culturale sia espressione di un «superiore interesse dell’intera umanità» (U. Leanza, Lo stato dell’arte nella protezione dei beni culturali in tempo di guerra, in «La comunità internazionale», 3, 2011, pp. 371-388, in part. p. 371) e che nel suo statuto il profilo della proprietà sia recessivo rispetto a quello della funzionalizzazione, per cui i beni culturali si configurano come beni destinati alla fruizione collettiva piuttosto che come beni di proprietà pubblica o privata e questa caratterizzazione rappresenta il “formante” della normativa di riferimento.

Nella genesi della Convenzione lo Stato italiano ha svolto un ruolo determinante: al riguardo, si può citare l’avant-projet presentato dall’Italia durante la Conferenza generale dell’UNESCO tenutasi a Firenze nel 1950. Sul punto v. U. Leanza, La protezione dei beni culturali e il concetto di patrimonio comune dell’umanità, in Scritti in onore di Angelo Falzea, vol. III, t. I, Milano, 1991, pp. 469-486, in part. p. 472).

 

[3] Era qui previsto che negli assedi e bombardamenti dovessero essere adottate tutte le misure precauzionali per risparmiare, il più possibile, gli edifici consacrati ai culti, alle arti, alle scienze e alla beneficenza e assistenza, i monumenti artistici e storici, etc., a condizione però che tali beni non fossero utilizzati per scopi militari e fossero segnalati con segni speciali e ben visibili a distanza, comunicati preventivamente alla potenza belligerante avversaria.

[4] Esse comprendevano norme sulle leggi e gli usi della guerra terrestre e sul bombardamento di obiettivi terrestri da parte di forze navali, escludendo per la prima volta il diritto di fare bottino delle cose appartenenti al nemico.

Tali violazioni sono stigmatizzate espressamente nella Carta di Londra dell’8 agosto 1945, istitutiva del Tribunale militare internazionale di Norimberga, in base alla quale (Cap. II, art. 6 dello Statuto della Corte) costituiscono crimini di guerra, fra gli altri, “il saccheggio di proprietà pubbliche e private, gratuite distruzioni di città, paesi e villaggi, o la devastazione non giustificata dalla necessità militare”. Ed è proprio ad esse (norme) che si fa riferimento in alcune sentenze del suddetto (Tribunale di Norimberga) riguardanti, tra l’altro, il capo dell’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, una unità speciale creata principalmente per saccheggiare e confiscare tutto il materiale ritenuto politicamente importante nei paesi occupati dalle truppe germaniche.

[5] Vedasi quanto riportato all’indirizzo http://www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=1297.

[6] http://www.comune.minturno.lt.it/museo/museo_action.php?ACTION=tre&cod_museo=2&cod_aggiornamento=5.

[7] Vedasi “As an «Overturned Rainbow». The suspension bridges in the italian architectural culture of th 19th Century”, in Atti dal XIII Congresso TICCIH organizzato dall’Istituto Momigliano per la Storia d’Impresa – Terni e Roma 14-18 settembre 2006.

[8] Il ponte Borbonico Real Ferdinando è inserito nel Comprensorio Archeologico di Minturnae- in  provincia di Latina-, attualmente diretto dalla dott.ssa Giovanna Rita Bellini: http://www.archeologialazio.beniculturali.it/it/174/la-sede.

Per ulteriori e dettagliate notizie ufficiali riguardanti le attività del suddetto (Comprensorio), si può consultare la pagina facebook: https://www.facebook.com/Minturnae-Comprensorio-Archeologico-1051342341561027/.

Marco Valerio Verni

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