Dopo una lunga attesa le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno messo la parole fine alla vexata quaestio inerente alla prescrizione delle cartelle esattoriali notificate dagli agenti della riscossione, con specifico riferimento al recupero coattivo dei contributi previdenziali.
1. L’inquadramento
Il problema del termine prescrizionale da applicare alle cartelle esattoriali ha interessato tutti i gradi della giurisdizione ordinaria (soprattutto quella di merito) e altresì di quella tributaria.
Com’è noto, le cartelle esattoriali aventi ad oggetto contributi previdenziali risultano impugnabili od opponibili avanti al giudice del lavoro e proprio dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte è scaturita (forse a cagione del notevole contenzioso) l’ordinanza interlocutoria volta all’eventuale rimessione alle Sezioni Unite.
Riducendo ai minimi termini la questione, è possibile affermare che l’annoso problema riguardasse il termine prescrizionale da applicarsi alle cartelle i cui tributi o crediti sottesi fossero assoggettati a “prescrizione breve” in forza di disposizioni speciali derogatorie dell’art. 2946 c.c. I contributi previdenziali, invero, sono assoggettati al termine prescrizionale di 5 anni, come sancito dall’art. 3 comma 9 L. 335/1995.
2. Il contrasto e l’ordinanza di remissione
Sostanzialmente il cuore del contrasto attiene alla possibilità di applicazione analogica del disposto di cui all’art. 2953 c.c. alle cartelle esattoriali notificate dall’agente della riscossione[1].
L’orientamento favorevole all’assoggettamento della cartella esattoriale al termine di prescrizione decennale fa leva sull’intervento della cristallizzazione del titolo a seguito di mancata opposizione da parte del contribuente.
Tale corrente giurisprudenziale afferma che «una volta divenuta intangibile la pretesa contributiva per effetto della mancata proposizione dell’opposizione alla cartella esattoriale, non è più soggetto ad estinzione per prescrizione il diritto alla contribuzione previdenziale di che trattasi e ciò che può prescriversi è soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi; riguardo alla quale, in difetto di diverse disposizioni (e in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio iudicati ai sensi dell’art. 2953 c.c.), trova applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 c.c.»[2].
Il concetto sostanzialmente sarebbe il seguente: il termine prescrizionale inferiore ai 10 anni previsto dalle disposizioni speciali intanto manterrebbe il proprio valore in quanto il provvedimento che lo contiene (sia esso l’atto impositivo o la cartella esattoriale) non sia divenuto inoppugnabile. Successivamente, al pari di un provvedimento giurisdizionale, sarebbe assoggettato ad estinzione per prescrizione trascorsi 10 anni.
In tale indirizzo giurisprudenziale, per vero, non si registra una vera e propria affermazione di principio sulla “metamorfosi” dell’atto amministrativo in provvedimento giurisdizionale, con ciò consentendo un’applicazione diretta (e non analogica) dell’art. 2953 c.c., ma ciò ai fini pratici poco rileva.
L’opposta tesi, maggioritaria, prende le mosse dai principi generali dell’ordinamento ed analizza compiutamente il ruolo della pubblica amministrazione nelle procedure esecutive e la natura giuridica dell’atto impositivo o della riscossione.
Secondo questa giurisprudenza le cartelle o i ruoli non opposti non perdono, in forza della mera acquiescenza (recte mancata opposizione) del contribuente il proprio carattere di atto amministrativo e, men che meno, si tramutano in titolo giudiziale. La differenza è, infatti, evidente: il provvedimento amministrativo è emanato da una pubblica amministrazione e non è soggetto ad un controllo giurisdizionale, se non in una eventuale sede d’impugnazione. Orbene, in difetto del “crisma della verifica giurisdizionale”, nell’ambito di un rapporto trilaterale (ente – contribuente – giudice), nel quale il ruolo del giudice sia quello di controllore delle pretese dell’Ente pubblico, non è possibile accordare al provvedimento amministrativo che instaura un rapporto bilaterale la medesima efficacia del giudicato[3].
La Suprema Corte, in tema di sanzioni tributarie, già aveva espresso il suddetto principio pronunziandosi a sezioni unite nel 2009: «Gli effetti del giudicato, quindi, non possono essere assimilati a quelli della mera acquiescenza amministrativa che si esaurisce nell’ambito di un rapporto giuridico amministrativo bilaterale (…)Va dunque affermato, anche in materia tributaria, il principio generale secondo il quale “In tutti i casi in cui la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, una volta formatosi il giudicato, proprio perché non ha più giuridico rilievo il titolo originario del credito riconosciuto, i relativi diritti si prescrivono con il decorso di dieci anni”»[4].
Stante l’esistenza del contrasto e, parimenti, la rilevante importanza della questione (visto anche l’elevato contenzioso sul punto) la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione emanava l’ordinanza interlocutoria del 29 gennaio 2016 n. 1799 di trasmissione al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite.
Le richieste rivolte alle Sezioni Unite dall’ordinanza erano di chiarire che:
«- l’art. 2953 c.c. – che è norma speciale – non può applicarsi in via analogica ad altre fattispecie diverse dalla sentenza, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 12 preleggi (Cass. Civ., 29 gennaio 1968, n. 285) e che nel caso di cartella di pagamento non opposta non vi è nessun titolo di formazione giudiziale dotato di autonomia, non potendo la “stabilità” della cartella non opposta nei 40 giorni equipararsi ad un giudicato, in quanto il consolidamento consegue alla mancata opposizione;
– a mente dell’art. 2946 c.c., la prescrizione ordinaria dei diritti è decennale, se la legge non dispone diversamente, e nel caso dei contributi previdenziali è appunto la legge che dispone diversamente (L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9 cit.);».
Inoltre, in caso di aumento del termine prescrizionale per i contributi cristallizzati in una cartella esattoriale, veniva anche rilevata una possibile violazione del divieto, imposto dal R.D.L. 1827/1935 e sorretto da ragioni di ordine pubblico, di riscuotere contributi prescritti.
3. La risposta delle Sezioni Unite con la sentenza 23397/2016: l’inconsapevolezza del contrasto e la sua composizione.
La questione rimessa alle Sezioni Unite, pur essendo indicata dall’estensore dell’ordinanza interlocutoria come di massima importanza, viene in parte ridimensionata dalla Corte nella sua più autorevole composizione.
La pronuncia in commento, infatti, ben inquadra il problema: «la questione sulla quale queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi investe l’interpretazione da dare all’art. 2593 cod. civ. con riguardo specifico all’operatività o meno della ivi prevista conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, nelle fattispecie originate da atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali (…)», sostenendo che sul punto si sono espressi due orientamenti la cui mancata coincidenza sarebbe stata “inconsapevole”.
La sentenza ripercorre in maniera molto completa le pronunce (si badi, di legittimità) da cui sono scaturiti i due orientamenti.
Quanto all’orientamento maggioritario, giusta cui non sarebbe applicabile l’art. 2953 c.c. alle cartelle esattoriali e/o ai ruoli, la Corte dà conto tanto della sua rilevanza a tutto tondo, nonché della sua anteriorità cronologica rispetto a quello contrario.
Quanto a quest’ultimo, invece, le Sezioni Unite sostengono che una sentenza della Sezione Tributaria della Cassazione, pur aderendo all’orientamento illo tempore monolitico e volto al rispetto della prescrizione breve avrebbe dato inizio alla disarmonia. Dice la Corte: «si tratta della sentenza della Sezione V, 26 agosto 2004 n. 17051, nella quale – in una controversia relativa ad un caso di iscrizione a ruolo per l’IVA – la Corte si è limitata ad affermare espressamente che per effetto dell’iscrizione “l’ufficio forma un titolo esecutivo al quale è sicuramente applicabile il termine prescrizionale di dieci anni previsto dall’art. 2946 del codice civile”, senza peraltro alcuna specifica spiegazione sul punto e senza alcun riferimento all’actio judicati»[5].
Dopo una decina d’anni di apparente letargo, il principio torna a galla e viene speso dalla già citata Cass. Sez. Lav. 24 febbraio 2014 n. 4338 che richiamando la pronunzia della Sezione Tributaria adatta tale principio ai contributi previdenziali, seppur in un obiter dictum. Identica situazione si verifica in Cass. Sez. Lav. 8 giugno 2015 n. 11749, mentre è solo con la pronuncia Cass. Sez. Lav. 15 marzo 2016 n. 5060 che i Giudici di Piazza Cavour si sono pronunciati espressamente (e non in obiter) sull’applicabilità dell’actio iudicati di cui all’art. 2953 c.c. anche ai crediti di natura previdenziale portati da un atto amministrativo definitivo[6].
Per fare un minimo di chiarezza cronologica, dunque, il solo caso in cui espressamente la Corte di Cassazione ha sposato, con valore vincolante tra le parti in causa, l’orientamento minoritario e cioè dopo la pubblicazione dell’ordinanza interlocutoria che ha richiesto l’intervento delle Sezioni Unite.
Da questo punto di vista, tuttavia, non si può sottacere come il contrasto avesse un notevole vigore e fosse tutt’altro che leggiadro nella giurisprudenza di merito e, pertanto, l’intervento delle Sezioni Unite era auspicato da più parti.
Le Sezioni Unite, aderendo all’orientamento maggioritario, ricordano che la disciplina della prescrizione è di stretta osservanza ed è insuscettibile d’interpretazione analogica e sostengono essere pacifico che:
«a) se in base all’art. 2946 cod. civ. la prescrizione ordinaria dei diritti è decennale a meno che la legge disponga diversamente, nel caso dei contributi previdenziali è appunto la legge che dispone diversamente (art. 3 comma 9 legge 335 del 1995 cit.);
b) la norma dell’art. 2953 cod. civ. non può essere applicata per analogia oltre i casi in essa stabiliti (ex multis: Cass. 29 gennaio 1968, n. 285; Cass. 10 giugno 1999 n. 5710); (…)».
Prosegue la Corte chiarendo anche che cosa debba intendersi per “giudicato”, onde poter applicare, quando ciò sia possibile, la conversione della prescrizione breve in decennale. Precisa la sentenza che solo un atto giurisdizionale può acquisire autorità ed efficacia di cosa giudicata e che il giudicato, com’è noto, copre dedotto e deducibile in relazione a quel petitum e a quella causa petendi.
Per altro le Sezioni Unite si premurano di specificare che l’art. 2953 c.c. attiene unicamente e restrittivamente alla cosa giudicata, non risultando applicabile, come chiarito da recente giurisprudenza, ad un processo tributario estinto per inattività delle parti.
La sentenza si conclude con le seguenti affermazioni di principio, mediante le quali il contrasto (benché frutto di un equivoco secondo la Corte) può dirsi composto:
«la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento (..) pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie quinquennale secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto alle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato».
[1] Art. 2953 c.c.: «I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni».
[2] Cass. Sez. Lav. 24 febbraio 2014 n. 4338. In senso conforme a tale orientamento si registra altresì Cass. Civ. Sez. Lav. 15 marzo 2016 n. 5060, Cass. Sez. Lav. 8 giugno 2015 n. 11749, Cass. 13081/2004 e Cass. 43871/2003, oltre a numerose pronunce di merito quali, ad esempio, Trib. Torino Sez. Lav. 5078/2009 e C. App. Torino Sez. Lav. 288/2010.
[3] Da tale principio, ovviamente, consegue che qualora il provvedimento fosse impugnato e confermato in sede giurisdizionale, nessun dubbio sussisterebbe circa l’assoggettamento al termine prescrizionale decennale, come ben precisato da Cass. Sez. Un. 10 dicembre 2009 n. 25790.
[4] Cass. Sez. Un. 10 dicembre 2009 n. 25790, che richiama espressamente in motivazione Cass. 13544/1999 e 1339/2001. Il medesimo orientamento è stato espresso in tema d’ingiunzione fiscale da Cass. 12263/2007.
Altre pronunce sulla medesima scorta sono: Cass. 24 marzo 2006 n. 6628, Cass. 29 febbraio 2016 n. 3987.
[5] Peraltro si precisa che l’IVA è comunque soggetta al termine di prescrizione decennale.
[6] Dice la sentenza 23397/2016: «tutto questo porta a concludere che la “disarmonia” che si è creata nell’ambito della giurisprudenza poggia su un equivoco derivante dalla erronea determinazione del contenuto della sentenza n. 17051 del 2004 cit., trascinatasi per inerzia nel tempo, senza alcun particolare approfondimento e che ha prodotto effetti giuridici validi in un solo caso (sentenza n. 5060 del 2016 cit.)».
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