Dipendete in malattia sorpreso a svolgere un altro lavoro: licenziato se non prova la compatibilità con la patologia.
Il lavoratore assente dal posto di lavoro per malattia che svolge, tuttavia, una ulteriore e diversa attività lavorativa, ha l’onere di dimostrare che tale ultima occupazione sia compatibile con la patologia in atto, in caso contrario, legittimo risulta il licenziamento disciplinare.
Tanto afferma la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nella sentenza n. 24671, pubblicata in data 2 dicembre 2016.
La stessa è stata chiamata a decidere sulla controversia di lavoro che vedeva contrapposti il lavoratore, assente per malattia, e la ditta datrice che, nonostante ciò, era venuta a scoprire in seguito ad una comunicazione della guardia di finanza, che il proprio dipendente era stato “pizzicato” all’interno di una pizzeria del posto, con indosso un grembiule nero, intento a servire la clientele del locale, ordinare pasti ed a riscuotere il conto.
Il datore di lavoro, contestata al proprio dipendente la violazione disciplinare per aver svolto attività lavorativa in stato di malattia, all’esito del predetto procedimento disciplinare, ritenuto violato il rapporto fiduciario tra le parti lo licenziava, intimandogli anche il risarcimento del danno.
Sul ricorso del dipendente, che chiedeva accertarsi l’inefficacia, nullità o annullabilità del comminato licenziamento, il Tribunale prima, e la Corte d’Appello di Roma poi, respingevano la domanda.
Il lavoratore ricorre innanzi alla Suprema Corte contestando, tra l’altro, la violazione dell’art. 2697 Cc, sulla scorta del fatto che, a suo dire, la prova circa l’incidenza dell’attività lavorativa sul recupero psico-fisico del dipendente spetterebbe al datore di lavoro.
Di contrario avviso, tuttavia, la Corte di Cassazione che ribadendo quanto dalla stessa statuito in una recente decisione, afferma che “il lavoratore, al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia, ha l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando, peraltro, le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto ( Cass. n. 586/2016)”.
In altri termini, i giudici di Piazza Cavour ritengono che, in caso di prestazione lavorativa in costanza di malattia che impedisce lo svolgimento dell’attività lavorativa contrattualizzata, è lo stesso lavoratore a dover dimostrare in primo luogo che l’ulteriore attività lavorativa non risulta incompatibile con lo stato patologico in atto, ma anche che tale ulteriore attività non pregiudica la guarigione del dipendente.
Peraltro, sostiene la Corte, una tale condotta appare lesiva del regolamento aziendale in vigore e, comunque, un siffatto contegno supera certamente la soglia del “minimo costituzionale” (Cfr. Cass. Sez. Un. 8053/2014), vale a dire, quel minimo etico connesso ai doveri fondamentali del rapporto di lavoro.
Per completezza, pur considerando che, nel caso specifico, l’accertamento della violazione disciplinare non è stato “mirato”, ma “casuale”, siccome avvenuto a seguito di un normale controllo della guardia di finanza, “va ribadito in ordine alla portata delle disposizioni (L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3) che delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi -e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3)- che esse non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Ciò non esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (cfr., in tali termini, n. 9167 del 2003). Tale principio è stato ribadito ulteriormente, affermandosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. n. 3590 del 2011). Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. n. 16196 del 2009)” (Cass., Sez. Lav., 12.05.2016, n. 9749).
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