Il peculato è un reato molto simile all’appropriazione indebita, che si differenzia da esso principalmente per la qualifica che ricopre il soggetto agente. [1]
La norma, infatti, punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che si appropria del danaro o di altra cosa mobile altrui di cui ha il possesso, o comunque la disponibilità, per ragioni del suo ufficio o servizio. L’attuale formulazione dell’art. 314 c.p. è essenzialmente frutto della riforma del 1990 (avvenuta con Legge n. 86 del 26 aprile): con tale novella legislativa si è eliminato sia il riferimento all’appartenenza alla p.a. della res oggetto della condotta, sia al profitto proprio o altrui, che alla condotta distrattiva. [2]
Si tratta di un reato plurioffensivo, poiché la condotta di peculato non lede solo il funzionamento ed il prestigio della p.a. ma anche (e soprattutto) gli interessi patrimoniali di quest’ultima. [3] Parte della dottrina e della Giurisprudenza, [4] tuttavia, non concordano con questa ricostruzione, argomentando che sia soltanto il buon andamento della amministrazione ad essere tutelato nella norma. [5]
Centrale nella fattispecie è il concetto di appropriazione. Essa si concretizza allorquando si tenga sul bene o denaro un comportamento uti dominus, destinato a materializzarsi in atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, sì da realizzare l’interversio possessionis e l’interruzione della relazione funzionale tra il bene ed il suo legittimo proprietario. Concetto che successivi approfondimenti dottrinali [6] hanno poi consentito di precisare, argomentando sulla necessità di due momenti distinti:
- Un primo in cui vi è “l’espropriazione” del proprietario dal rapporto con la cosa;
- un secondo in cui vi è “l’impropriazione”, cioè la creazione della signoria di fatto tra il soggetto attivo del peculato e la cosa stessa.
L’arresto in commento prende le mosse dal ricorso presentato sia dal Pubblico Ministero che dagli indagati avverso la decisione del Tribunale di Roma che, sulla base delle richieste presentate con riesame, aveva sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari con la misura interdittiva della sospensione dal servizio prevista dall’art. 289 c.p.p., inibendo ad entrambi gli indagati l’attività di medico ospedaliero per la durata di un anno.
Nel caso che occupa, infatti, tale misura interdittiva era stata applicata, quanto al primo medico, per i reati di peculato e di concorso in truffa aggravata, per aver eseguito, in qualità di direttore dell’unità operativa complessa di chirurgia plastica e grandi ustioni, un intervento chirurgico in una sala operatoria di tali reparti, su un paziente non indicato nelle liste di prenotazione e senza rispettare le procedure richieste per gli interventi in regime di convenzione (utilizzando, così, locali e avvalendosi di personale e apparecchiature ospedaliere per fini diversi da quelli istituzionali). Il secondo medico, invece, doveva rispondere, per la propria falsa attestazione di presenza in servizio (avendo fatto timbrare il suo badge ad altri, ed avendo apposto manualmente falsi orari di ingresso ed uscito sui registri cartacei), del reato di truffa aggravata e dell’art. 55 quinquies D. Lgs. 165/2001.
Per quanto riguarda la presente trattazione ci si deve soffermare sulla condotta del primo sanitario, chiedendosi, così come ha fatto il Giudice di Legittimità, se sia possibile configurare il reato di cui all’art. 314 c.p. nei confronti della sala operatoria.
A tale domanda si deve dare risposta negativa. Infatti la Suprema Corte di Cassazione sottolinea come la sala chirurgica, da intendersi quale complesso di beni, non coincide con quanto richiede la norma incriminatrice del peculato, che si riferisce all’appropriazione di denaro o cosa mobile altrui. Per tale approccio ermeneutico, quindi, non sarebbe possibile ricondurre tale luogo ad un bene di cui l’agente si possa appropriare, dal momento che la condotta di peculato può avere ad oggetto solo beni mobili.
Inoltre i Giudici censurano la genericità dell’ordinanza impugnata, la quale da per scontata l’esistenza di una condotta appropriativa, senza spiegare in cosa essa sia consistita. Per il Collegio, invece, per aversi “appropriazione” è necessario un comportamento uti dominus, in grado di realizzare, come testè spiegato, l’interversio possessionis e di realizzare l’interruzione della relazione funzionale tra il bene ed il legittimo proprietario. Ed è pur vero che questo può avvenire anche tramite un uso indebito della cosa, ma restano necessarie modalità ed intensità tali da sottrarre il bene alla disponibilità dell’amministrazione pubblica.
Momento appropriativo che, per l’arresto in commento, non si configura nella condotta del medico, il quale non si è impropriato della sala operatoria tanto da impedirne l’utilizzo da parte dell’ospedale (impropriazione che, pertanto, non è possibile desumere dalla mancata registrazione dell’utilizzo della stessa).
Per la sentenza in analisi si potrebbe, al più, configurare un peculato d’uso per le apparecchiature e gli strumenti presenti nella sala d’intervento (non oggetto, però, di specifica contestazione). Anche in caso di 314.2 c.p. resterebbe, comunque, da domandarsi se un simile agire sia offensivo: ci si dovrebbe chiedere se l’uso di tali strumenti (da individuare singolarmente) ne abbia compromesso in modo apprezzabile l’utilizzazione.
L’interrogativo circa il verificarsi di ipotesi di peculato in ambito di sanitario si è posto recentemente anche in un altro caso giunto fino alla Suprema Corte di Cassazione [7]. In tale arresto, e ancor di più nelle relative sentenze di merito, ci si è interrogati sulla possibilità di configurare il reato di cui all’art. 314 c.p. nei confronti di un cuore umano (organo donato da altro paziente) che veniva trapiantato in sfregio alle liste d’attesa.
Tale procedimento penale vedeva coinvolti alcuni medici a cui erano stati contestati, tra gli altri, i delitti di peculato e di omicidio preterintenzionale per aver errato nel compimento di un intervento di sostituzione valvolare aortica e per aver effettuato, al fine di dissimulare le tracce di tale pessimo operato, un successivo trapianto cardiaco (non riuscendo, comunque, ad impedire la morte del paziente).
Nel testo del provvedimento non si affronta direttamente l’argomento del peculato dell’organo vitale, ritenendo condivisibile la prospettazione della Corte d’Appello la quale assolse gli indagati dal reato di cui all’art. 584 c.p. (circostanza che “assorbì”, di fatto, la problematica del 314 c.p.), trasmettendo gli atti al Pubblico Ministero per il reato di omicidio colposo.
Resta interessante domandarsi cosa avrebbe statuito la Suprema Corte di Cassazione qualora fosse dovuta entrare nel merito della questione. A parere di chi scrive probabilmente la soluzione sarebbe dovuta essere nuovamente negativa: da un lato l’organo vitale, stante la sua incommerciabilità, risulta difficilmente inquadrabile quale bene mobile; dall’altro è difficile poter ritenere configurata una situazione di possesso su una componente umana. In tal senso il cuore, così come ogni altro organo vitale, non potrebbe dirsi né della disponibilità della p.a. o dei sanitari che effettuano l’intervento, dovendosi sempre far riferimento alle liste d’attesa.
[1]Per una analisi più completa si veda R. GAROFOLI, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale, Tomo I, Nel Diritto editore, pp. 161 e seguenti.
[2]Cfr. SCORDAMAGLIA, Peculato, in Enciclopedia del diritto, XXXII, 1982 pp. 619-649.
[3]In tal senso si veda, a mero titolo esemplificativo, Cass. Pen. n. 49133 del 6/12/2013, in Banca Dati Pluris
[4]Cfr. Cass. Pen. n. 41709 del 19/10/2010, in Banca Dati Pluris
[5]Cfr. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Utet, 1981, IV, n. 730, p. 12
[6]Cfr. SEMINARA, Commentario breve al Codice penale, Cedam, art. 316, p. 703
[7]Si tratta di Cass. Pen. n. 38105 del 13/9/20106, in Banca Dati Pluris.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento